mercoledì 31 luglio 2013

Racconti d'estate. Il pifferaio magico

Bianca Maria Vaglio
Ogni pomeriggio, come nella fiaba del Pifferaio magico, la seguivamo in fila attraverso le strette stradine del paese fino alla mitica spiaggia “dei sassi”. Eravamo un folto gruppo di bambini, dai sei ai quattordici anni. Lei ci precedeva senza perderci di vista; era poco più alta di noi, bionda ed esile, indossava sempre vestiti attillati che mettevano in risalto la vita piccola e le forme femminili. A metà strada facevamo una sosta per salutare l’asino Rosinello che riposava nella stalla, dopo le fatiche del mattino. Ognuno di noi bambini gli accarezzava il muso, ricambiando il suo sguardo di una struggente bontà. Poi riprendevamo il cammino. Arrivati sulla spiaggia, ci sedevamo in cerchio intorno a lei. Non c’era quasi mai nessuno a quell’ora. Un pescatore solitario, immerso con le gambe nell’acqua, cercava polpi fra gli scogli. Quando ne aveva preso uno, tirava fuori di scatto il braccio a cui era aggrappato il polpo, con l’altro braccio si liberava dei tentacoli, poi sbatteva con forza la testa del polpo sulle rocce. Il mare si tingeva per un po’ di un liquido nero. Il pescatore buttava la sua preda in un grosso secchio e ricominciava. Talvolta una donna del paese si avvicinava alla riva, sollevava la gonna nera e immergeva i piedi nell’acqua, in cerca di refrigerio. Ci guardavano stupiti.
Lei ci raccontava favole. Ma non erano quelle che si leggono nei libri. C’erano nelle sue favole echi di tutte le favole mescolati insieme, ma prive degli aspetti più tristi, cupi di cui le favole abbondano; i re cattivi che amano troppo le loro figlie, le regine cattive che odiano le figliastre, i genitori che abbandonano i loro bambini o che li perdono nei boschi, gli orchi, le streghe, le prove crudeli cui si sottopongono gli eroi.

Covacich, trame riflesse dentro una scacchiera

Mauro Covacich, L'esperimento
Einaudi, pp. 176, euro 18,50 

In una lunga intervista pubblicata sulla rivista online "Arabeschi", Mauro Covacich si descrive con le parole di un autore amato, Goffredo Parise: «Io – aveva detto di sé l'autore del Padrone – non sono un letterato. Non appartengo al mondo delle belle lettere, al mondo degli autori che scrivono libri a partire dai libri, che scrivono libri a partire dalla letteratura. Io sono uno scrittore, sono uno che può scrivere soltanto della vita; può scrivere soltanto traducendo a suo modo, metabolizzando a suo modo la vita, non altri libri». Nell'autoritratto di Parise si specchia Covacich e di certo sa di consegnarsi a una zona d'ombra che non esclude forse la fama, ma fa della sua opera un caso atipico nel paesaggio della nostra narrativa contemporanea. 
Osservato con diffidenza dai letterati, di rado accoglienti verso chi rivendica di non essere uno dei loro, e noto al pubblico più per i suoi articoli (solitamente molto acuti) sul "Corriere della sera" e su altri giornali, che per i lavori letterari, l'outsider Covacich si è tuttavia guadagnato nel tempo un numero crescente di lettori.

Nei graphic novel la libreria trova i suoi supereroi

I dati rilevati dalla Nielsen a metà del mese di luglio 2013 hanno mostrato un significativo incremento (circa il 10%) delle vendite dei graphic novel. Il best seller è The Walking Dead: Compendium One di Robert Kirk, che non solo ha venduto centomila copie, ma si è anche distinto per essere il titolo più costoso in assoluto tra i primi 200 di tutte le categorie ($59.99 è il prezzo di copertina a copia). E lo stesso autore occupa quattro posti sui primi cinque campioni di vendite.
Dopo Kirk troviamo gli agguerriti autori di manga: Naoko Takeuchi, noto per la ormai mitica serie Sailor Moon, e Masashi Kishimoto’s, padre della serie ninja Naruto.  E tra i primi 25 titoli entrano tutti i più recenti libri sui supereroi, come Watchmen, Marvel Avengers e Batman.
E’ utile precisare che l’exploit di Walking Dead ha coinciso con la contemporanea messa in onda della final season dell’omonima serie televisiva. Infatti Public Perspective tenta un’analisi sulle ragioni di questo successo, ma si limita a sottolineare l’ovvia relazione delle vendite con la contemporanea presenza di film e telefilm ispirati agli medesimi personaggi.
Ma si tratta solo di questo? O il successo dei graphic novel è legato a qualcos’altro? Ricordiamo che già sei anni fa Goffredo Fofi si dichiarava convinto che il graphic novel fosse, oggi, tra le forme espressive più vitali (Lunga vita ai fumetti, "Il Messaggero", 30 agosto 2007). Sicuramente oggi si è imposto come fenomeno di tendenza sul mercato editoriale per volontà del marketing, ma non si può non ricordare che questa moda è figlia di un percorso storico complesso, e, forse, di una capacità del modo in cui il graphic novel racconta i sogni e le contraddizioni del mondo di oggi.
Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2013 sulla nuova rivista online Avvertenze per geni con il titolo Tutti supereroi in libreria

Esterni, Italia (un assaggio)



Da Roma a Spoleto, dalla Toscana a Napoli, quindici scatti che inquadrano scorci urbani e paesaggi rurali, cittadine storiche e montagne nevose: questa è la mostra fotografica online Esterni, Italia realizzata dagli utenti del Centro Diurno Giovagnoli, che potete "visitare" da oggi nella pagina del Cantiere Colautti. Qui, in omaggio alla stagione, vi proponiamo in anteprima una fotografia di Antonella Cecchi Pandolfini intitolata Canicola (cliccare sull'immagine per vederla a dimensione intera).

martedì 30 luglio 2013

Barnes, un viaggio nel passato dai bordi della vita

Julian Barnes, Il senso di una fine
traduzione di Susanna Basso
Einaudi, pp.150,  euro 17,50

Patrizia Vincenzoni  
In questo romanzo, breve e intenso, Julian Barnes racconta il senso di fallimento di un uomo, Tony Webster, ritratto mentre passa in rassegna la  vita, vissuta  ponendosi come al riparo dalla stessa. Rimorso, senso di sconfitta e un sentimento di costante tristezza connotano questa vita mancata, la mediocrità come paracadute di fronte alle richieste e agli imprevisti che ha incontrato nel corso dell'esistenza.
La lettera con la  quale un avvocato informa Tony che la madre di Veronica, sua ex ragazza ai tempi della scuola, gli ha destinato un diario scritto da un amico Adrian Finn, morto suicida all'età di ventidue anni, insieme a una piccola somma in denaro,  è il grimaldello che lo scuote dalla rassicurante  e noiosa routine nella quale vive da sempre.  Il viaggio a ritroso nel tempo e nella storia personale, alla ricerca delle responsabilità  riguardo a scelte/non scelte, si avvale del ricorso alla memoria, una memoria fallace, troppo simile a "quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni... incontrano le inadeguatezze della documentazione". 

lunedì 29 luglio 2013

Israele in giallo, fuori dai luoghi comuni

Dror A. Mishani, Un caso di scomparsa
traduzione di Elena Loewenthal
Guanda, pp. 304, euro 18

Brunella Diddi
Un caso di scomparsa, romanzo d’esordio di Dror A. Mishani,  inaugura il genere poliziesco nella narrativa israeliana. Gli israeliani non scrivono romanzi gialli, dice Mishani per bocca del suo protagonista,  perché manca la materia prima a cui attingere, niente delitti né misteri, niente serial killer e scarsi persino i delinquenti di piccolo calibro. Insomma, Israele compenserebbe il suo perenne stato di emergenza verso l’esterno con una invidiabile sicurezza interna. Mishani raccoglie la sfida di questa apparente tranquillità e costruisce un caso in cui c’è abbastanza torbido in cui pescare.
Un ragazzino introverso che scompare e una sorella handicappata che la  famiglia vive come qualcosa da nascondere (per inciso, i genitori scelgono di tenere in casa la figlia invece di affidarla a un istituto, un’alternativa che viene presentata come del tutto normale), un professore di inglese con ambizioni letterarie e un segreto sono gli ingredienti principali della storia.

domenica 28 luglio 2013

La biblioteca senza libri

La biblioteca del Trinity College
di Dublino
fotografata da Candida Höfer 
Pubblichiamo la parte finale del saggio La biblioteca senza libri. Il testo integrale, seguito dalla nota di Riccardo Ridi La biblioteca piena di libri (elettronici), si può scaricare gratis dalla pagina della collana Note azzurre nel sito della casa editrice Quodlibet.

David A. Bell
Oggi, lettori interessati o ambiziosi studiosi dilettanti hanno a disposizione aiuti più cospicui, e di immediato accesso per le loro dita esperte nella navigazione in internet. In rete ci sono interi corsi universitari, con tanto di lezioni gratuite offerte da istituzioni come Harvard e il MIT. Ci sono anche eccellenti lezioni rivolte esplicitamente ad un pubblico generico prodotte da aziende come The Teaching Company, accessibili ad un prezzo modico o gratuitamente tramite una biblioteca pubblica. Esistono poi una mezza dozzina di canali televisivi cosiddetti «educativi», anche se alcuni, come The History Channel, hanno via via indirizzato la loro programmazione verso il semplice intrattenimento. E ovviamente ci sono un’infinità di siti web che offrono un’introduzione a qualunque argomento immaginabile. Caveat lector, d’accordo – ma stiamo parlando di un’incredibile ricchezza di contenuti.

I diritti smarriti nella giungla "amazonica"

Antonella De Robbio
Amazon continua ad essere al centro della scena nei dibattiti internazionali attorno agli ebook. A causa di una serie di mosse strategiche - che alcuni definiscono come speculazioni ai danni della concorrenza di mercato - Amazon sta creando un certo scompiglio nella scacchiera dell’editoria digitale. In altri termini sta influenzando atteggiamenti e consuetudini di scrittori e critici letterari, modificando anche gli assetti entro le comunità sociali dei lettori web 2.0. In aprile infatti Amazon aveva portato a casa per un miliardo di dollari Goodreads, la più grande rete sociale di libri, introducendosi nel mondo delle recensioni dei lettori, reinventando l’esperienza della lettura, ma divenendo “opinionista” dei titoli che produce. Notevole il ritorno in termini economici soprattutto se si considera che Amazon, subito dopo, aveva creato la piattaforma per l’auto-pubblicazione, il servizio Kindle Direct Publishing, scombinando le regole editoriali e distributive, mettendo le mani su 16 milioni di lettori di Goodreads a caccia di opere nel mercato cartaceo tradizionale.

venerdì 26 luglio 2013

La solitudine di Telemaco

Enza Bertoni
Per caso ho rivisto, dopo moltissimo tempo, Gioventù bruciata, film che fece epoca negli anni 60. Ho partecipato in modo molto emotivo dal momento che passaggi positivi, osservando la situazione attuale dei giovani, ce ne sono stati pochi. Jimmy, il personaggio principale, ma lo sono tutti i ragazzi presenti nel film, denuncia la forte solitudine e l'amarezza profonda, in cui vivono i giovani per mancanza di comunicazione e di relazione con i propri genitori. L'emancipazione giovanile, passa attraverso la famiglia, che dovrebbe essere luogo di fiducia reciproca. "L'autorità simbolica del padre", dice Massimo Recalcati, nel suo ultimo libro, Il complesso di Telemaco, ha perso peso. I padri latitano, come nel film rivisto,  sono deboli, non riescono ad ascoltare i propri figli, Jimmy vorrebbe che suo padre fosse più autorevole, che lo ascoltasse, che prendesse decisioni, ma invano! "La domanda di padre", dice ancora Recalcati, "nasconde sempre l'insidia di coltivare un'attesa infinita e melanconica di qualcuno che non arriverà mai".
E' il rischio di Jimmy che alla fine, però, riesce a sopravvivere al suo sé e ad affrontare le grandi conflittualità tra coetanei, ma soprattutto a superare le umiliazioni e le predominazioni, lo smarrimento e le grandi sfiducie.
La parola, soltanto la parola, può restituire fiducia nei nostri sempre più soli giovani.

Paolo Febbraro legge il "Congedo del viaggiatore cerimonioso" di Giorgio Caproni


Paolo Febbraro al Teatro Vascello. Per  l'audio/video, cliccare sull'immagine
Nel corso del laboratorio di Officina Poesia che si è tenuto nella primavera 2013 al  Liceo Morgagni, il poeta Paolo Febbraro ha letto agli studenti il Congedo del viaggiatore cerimonioso. di Giorgio Caproni. Vi proponiamo una registrazione dal vivo della poesia, corredata da immagini di Caproni prese soprattutto nella seconda parte della sua vita, dopo che lo scrittore si è stabilito a Roma, dove ha abitato fino alla morte, nel 1990, in via Pio Foà a Monteverde.  

Nota: La fotografia di Paolo Febbraro riprodotta qui sopra è stata scattata da Antonella Venanzi al Teatro Vascello durante alla serata conclusiva del progetto Officina Poesia. 

giovedì 25 luglio 2013

Verso l'infinito, e oltre

Cosmolab - Svelare il cosmo tra quasar e radiazione di fondo è il titolo dell'incontro che si tiene domenica 28 luglio alle 21 al Planetario di Roma. Insieme al fisico Paolo de Bernardis dell'università di Roma La Sapienza sarà possibile osservare in tempo reale lontane galassie e quasar grazie al Telescopio Virtuale del Bellatrix Observatory. In attesa dell'incontro proponiamo un ampio stralcio dell'introduzione al volume Osservare l'universo che de Bernardis ha pubblicato per la casa editrice Il Mulino nella collana "Farsi un'idea".

Paolo De Bernardis
«Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / silenziosa luna» si chiede il pastore errante. Leopardi, che tra l’altro scrisse un’imponente storia dell’astronomia, si mette nei panni di una persona semplice, che potrebbe collocarsi in una qualunque epoca, e che tuttavia si pone una domanda di valore universale, la stessa che portò Newton – in un contesto culturale assai diverso – a scoprire una delle leggi fisiche fondamentali: la legge di gravitazione. Le grandi domande sono insite nella natura umana e l’ambizione, l’impegno e la capacità di rispondere ad alcune di esse ci caratterizzano e ci distinguono. (…)
Tutte le antiche civiltà hanno elaborato cosmologie, basate sul mito, per cercare di rispondere a interrogativi riguardanti l’universo, a dimostrazione di quanto le domande «cosmologiche» siano universali, innate nella mente umana.
Per gli antichi egizi la dea del cielo stellato era Nut, solitamente raffigurata come una donna con il corpo punteggiato di stelle e inarcata sul fratello e marito Geb, la Terra.

Calaciura, il papa e "noi"

Giosuè Calaciura, Urbi et orbi
Baldini Castoldi Dalai, pp. 159 

Brunella Diddi
"Ci perdemmo quando ci ordinarono sacerdoti. La mala pianta del dubbio, che come giardinieri avevamo potato a ogni nuovo germoglio nella rassicurazione di una semina più pregiata, aveva messo radici”: così si presenta l’io, o piuttosto il “noi” narrante di Urbi et Orbi, singolare libro a metà strada tra l’apologo surreale e il romanzo sul papa più popolare del ‘900.
Protagonista è l’ultima leva della curia vaticana: manager giovani e rampanti pronti a gestire l’”azienda” con metodi imprenditoriali, pronti persino ad accelerare o procrastinare la morte del papa a seconda delle esigenze pubblicitarie e della comunicazione. Arrivano in Vaticano quando Karol Wojtyla – mai nominato se non come il papa che porta il nome dei “due apostoli concatenati” – è già vecchio e malato e non esitano a intervenire sulla somministrazione delle sue pillole modificandone la terapia, così, “per divertimento”. Noi” esibisce il suo cinismo con allegra disinvoltura, dalle partitine a poker nelle celle e le cicche spente nelle cassette delle elemosine, all’assunzione di un figurante – un prete ricattabile – nel ruolo di un capo di stato in un finto incontro al vertice per tenersi buono il papa. Se pure incorre in qualche incidente di percorso, “noi” riesce sempre a farla franca, la punizione ben presto condonata grazie alla sua capacità di fingere e mentire.

lunedì 22 luglio 2013

Giuliano Zincone giornalista e poeta


Maria Teresa Carbone
È passato più di un mese da quando Giuliano Zincone se n'è andato. Lo hanno ricordato in tanti, come è naturale, perché è stato un eccellente giornalista e una persona giusta, due cose che non sempre vanno insieme. Aggiungo qualche parola anch'io, sia pure in ritardo, perché ho avuto la fortuna di conoscerlo, giovane giornalista al “Lavoro” di Genova quando lui era direttore. A differenza di altri, non l'ho frequentato fuori dalla redazione (colpa del mio carattere ispido, tendevo a etichettare come ruffianeria l'ipotesi di un'amicizia con chi aveva più anni e più potere di me), ma avevo per lui enorme stima e simpatia, almeno in parte ricambiate, direi.
In molti, dopo la sua morte, hanno ricordato quasi con stupore i nomi dei tanti ragazzi chiamati nel piccolo quotidiano genovese da Zincone: Lucia Annunziata e Gad Lerner e Giorgio Boatti e Luigi Manconi... Aggiungo qui che trattava i giornalisti “di fuori” e quelli “di dentro”, i genovesi ereditati dalle tumultuose gestioni precedenti, con la stessa attenzione, lo stesso garbo, la stessa ironia affettuosa e partecipe, mai sprezzante. Dopo la direzione di Cesare Lanza, i titoli sguaiati, le finte inchieste sul sesso in città, era meraviglioso, almeno per me, avere un direttore che rispettava i giornalisti e i lettori (anche questo capita di rado).
Che Zincone abbia diretto un giornale per meno di due anni in tutto è un paradosso e una ingiustizia: era bravissimo come giornalista, ma soprattutto sapeva amalgamare e valorizzare, e perseguiva la sua idea – ben precisa – di giornale condividendola con gli altri, non catapultandogliela addosso.

sabato 20 luglio 2013

La bionda, il bunker e la scrittrice che non dice

Ti racconto un libro:
Jakuta Alikavazovic, La bionda e il bunker
traduzione di Elena Sacchini
66thand2nd 2013, pp.187, euro 15

Stella Sofri

Perché  mai avete paura, come fanciulli,
prima ancora di aver visto alcunché?
Sofocle, I segugi

E’ una mente creativa decisamente originale a dare vita alla trama del libro, sarebbe meglio dire le trame, dato l’intreccio di storie in cui convergono fili diversi. Da un enigmatico testamento iniziale, prende le mosse la storia. In una riga del testamento il morto lascia al protagonista Gray il compito di rintracciare una certa collezione d’arte che qualcuno tenta di distruggere; una sola riga, sufficiente tuttavia a trasformare Gray in un segugio sulle orme della fantomatica collezione Castiglioni. La narrazione procede in modo del tutto anomalo, in un andare avanti e indietro nel tempo e nello spazio, quasi secondo lo schema di una danza labirintica, procedimento che l’autrice evidentemente predilige nell’intento di creare sconcerto e disorientamento nel lettore, ingannarlo con indizi il cui scopo è quello di allontanarlo dalla soluzione, ma avvicinarlo alla dimensione complessa del reale.

venerdì 19 luglio 2013

Di cosa parliamo quando parliamo d'amore

G. Luca Chiovelli


L'Italia ha da secoli rinunciato a una propria identità nazionale, e, quindi, a una propria letteratura; per ciò stesso le nostre più valide intelligenze si son sempre incuriosite a cosa gli altri - i popoli che ancora ce l'hanno, una letteratura - intendano quando parlano d'essa. Poiché i nostri attuali colonizzatori culturali sono americani (e, di riflesso, d'area linguistica affine), non è senza interesse che ci accostiamo al saggio della professoressa Janice Radway (La vie en rose. Letteratura rosa e bisogni femminili), curato da Elisabetta Flùmeri e Gabriella Giacometti, esperte del settore, sceneggiatrici e loro stesse fresche produttrici di letteratura rosa.

Tale interesse deriva, oltre che dalla provenienza culturale (quella che, in ultima sostanza, decide ciò che deve piacerci e quanto), dal fatto che il romance, nelle sue varie filiazioni e coloriture, è, specie nelle ultime decadi, in costante e irresistibile espansione, spesso a danno dei generi letterari canonici.

Esamineremo dapprima i contenuti salienti delle tesi della Radway, per poi passare a una breve valutazione sia dei limiti estetici del romance che delle ragioni del suo successo globale.

Cominciamo col dire che il saggio - che risale al 1984 - ci mette parecchio a carburare. Inizialmente la Radway, che, da brava empirista d'area angloamericana ha studiato sul campo il fenomeno, cerca di definire il romance quale personale area d'evasione femminile dal pesante e impegnativo ruolo di madre e moglie; una sorta di isolamento rigenerante che non si risolve, però, nella semplice fuga in mondi più desiderabili, ma è connotato, in special modo nei decenni risalenti, da una certa rivalsa sociale: leggere, infatti, al contrario della passività televisiva, trasporta in un mondo che richiede partecipazione intellettuale e che può donare uno spessore culturale altrimenti impossibile da ottenere.

Il romance pende, insomma, come una mela succosa dall'albero del bene e del male.

Queste le prime schermaglie argomentative, in cui pare delinearsi una versione moderatamente ribelle della letteratura rosa.

Primo Levi, l'anima nel lavoro

Il gruppo di lettura  (2012-2013: il lavoro) 
Primo Levi, La chiave a stella, 1978

Enza Bertoni
Il lavoro assente, i consumi improvvisamente contenuti, i conflitti nella nostra società, dove ci sono garantiti ed emarginati: tutto questo rappresenta un problema centrale, nodale, dei nostri tempi.
Rileggendo il libro di Primo Levi La chiave a stella molte sono le domande e le riflessioni che affiorano. Attraverso il racconto del protagonista Tino Faussone, tecnico piemontese, che gira il mondo a montare gru, strutture metalliche, ponti, con la sua "chiave a stella", lo scrittore contribuisce per contrasto a farci riflettere con leggerezza e ironia su quello che significa lavorare oggi, trentacinque anni dopo l'uscita del romanzo - quando non solo manca il lavoro, ma soprattutto non è curata la formazione, quando il problema del rapporto tra l'uomo e il lavoro è sempre più fragile e precario.
Certo oggi, i nostri giovani non possono dire come Faussone : "io, l'anima ce la metto tutta", poiché l'aria che si respira è quella della mancanza di certezze. Una situazione che  provoca disagio, aggressività, violenza, violazione delle regole, richiesta di aiuto.

lunedì 15 luglio 2013

Il cuscino di Bolaño


In occasione del decennale della morte di Roberto Bolaño, pubblichiamo questo articolo uscito sul "Bo" nei giorni scorsi.

Lorenzo Alunni
Se sentiamo il bisogno di qualche ragione per resistere alla tentazione di leggere uno dei libri di Roberto Bolaño, e se non vogliamo accontentarci di quella genuina indifferenza che riserviamo al 99,9% di ciò che potremmo trovare in una libreria o una biblioteca, il prontuario di buoni motivi per tenersene alla larga offre un’ampia scelta. Ci diremo che Bolaño è oggi l’autore mitizzato per eccellenza, e che dagli autori mitizzati bisogna ben tenersi alla larga, se non si vuol passare per uno di quei lettori particolarmente vulnerabili alle mode. Ci diremo che, oltretutto, ormai è dimostrato che non solo l’autore è stato mitizzato, ma che per farlo ci hanno anche mentito (per esempio sulla questione del Bolaño eroinomane o no), e che la punizione da infliggere a un autore morto ma soggetto a mitizzazione mendace è prima di tutto il non leggerlo e poi eventualmente anche lo sconsigliarlo agli altri, magari senza mai averlo letto veramente.
Ci diremo che l’esplosione di Bolaño nelle classifiche di vendita di certe nicchie del mercato editoriale e nelle conversazioni di certe categorie di lettori snob è una sapiente operazione dello squalo per eccellenza dell’editoria globale, l'agente Andrew Wylie, che per il mondo dei libri secondo alcuni corrisponde a quello che Goldman Sachs o simili è per il mondo della finanza, e basterebbe questo per convincersi a star alla larga dallo scrittore cileno.


domenica 14 luglio 2013

Le famiglie vulnerabili di Elizabeth Strout

Elizabeth Strout, I ragazzi Burgess 
traduzione di Silvia Castoldi
Fazi, pp. 448, euro 18,50

Patrizia Vincenzoni
"Nessuno conosce mai veramente qualcuno", così si chiude il  prologo di I ragazzi Burgess di Elizabeth Strout : una chiave di lettura, fra le altre, per accedere a questo romanzo ben scritto, nel  quale la scrittrice  padroneggia - ci aveva già dato  ampia prova di ciò in Olive Kitteridge -  tutto il materiale umano di cui racconta, le cui psicologie esplora in profondità.  Il Maine è ancora una volta lo stato americano in cui Strout muove le figure della sua commedia umana familiare e sociale: al centro della narrazione quel che resta di una famiglia su cui parecchi anni prima si è abbattuta una tragedia, la morte del padre  causata involontariamente da uno dei tre figli, allora bambini.   
I ragazzi  Burgess è lo stilema attorno al quale le vite dei tre fratelli da allora in poi si svolgono, caratterizzato dalla rimozione del dolore e dall'impossibilità, dunque, di parlarne, rimozione che accompagna negli anni il  bisogno di Jim, il primogenito, di allontanarsi dalla famiglia e dalla cittadina d'origine, andando a vivere a New York. 

venerdì 12 luglio 2013

Il fascino discreto della ferrovia

Ti racconto un libro:
Quel treno per Baghdad
a cura di Stefano Malatesta
Neri Pozza, pp. 172, euro 16,50

Maria Teresa Iannitto
Quel treno per Baghdad è una raccolta di racconti che hanno come elemento centrale il treno. Gli autori, tutti uomini, non sono persone comuni, ma personaggi  particolari, accomunati  dalla passione per il viaggio o più in generale per l’avventura, intesa in senso più lato come sfida, curiosità, coraggio nello sperimentare strade nuove in tutti i sensi. Il curatore della raccolta è Stefano Malatesta, giornalista e scrittore: dirige il bel Festival della letteratura di viaggio, organizzato dalla Società Geografica Italiana a Villa Celimontana, a Roma.
Il treno è indubbiamente un elemento pieno di fascino, uno spunto fantastico per storie di ogni genere e infatti in questi racconti si offre come il luogo di ricordi centrali della propria biografia oppure è lo spazio dove immaginare storie di viaggiatori con sviluppi imprevedibili. O ancora rappresenta il progetto di una grandiosa impresa economica e politica, come viene spiegato nel racconto centrale che dà il nome all’intero volume.
Quando i treni avevano ancora gli scompartimenti, si saliva in treno con circospezione, magari si andava su e giù per il corridoio in cerca del posto più consono alle proprie aspettative: lo stare da soli o la ricerca di compagnia. E d’estate c’era la diatriba sui finestrini: e chi lo voleva aperto e chi lo voleva chiuso o aperto per metà. Lo stesso dicasi per la porta dello scompartimento e le tendine….oggi certe discussioni non hanno più occasione di essere, i finestrini sono sigillati e il vagone accomuna tutti i passeggeri in un unico grande scompartimento. Prima che il telefono cellulare facesse la sua comparsa, il compagno o la compagna occasionale del viaggio in treno,  era un personaggio misterioso e si poteva immaginare di lei o di lui qualunque cosa,  dagli sviluppi più incredibili. Oggi, senza alcun pudore, si viene coinvolti in squarci di vita che vanno dal litigio con la suocera, alla preparazione di un matrimonio, passando per la bocciatura del figlio o la riunione di lavoro. Il telefono e il suo squillo fastidioso non lasciano più spazio alla fantasia. E poi ognuno può rinchiudersi nella sua playlist musicale, guardarsi un film sul computer o continuare a chattare nel suo mondo virtuale,  perdendosi nel frattempo  il mondo reale delle persone, che, nella sua varietà, ci si offre per pochi momenti durante il viaggio in treno.
I racconti del libro sono ambientati in epoche diverse e in zone del mondo diverse e remote. E’ un bel libro, le storie sono affascinanti e riescono a portare il lettore in tempi e luoghi lontani. Il racconto più lungo e centrale è forse il meno affascinante, forse perché più che un racconto è un piccolo saggio di storia in forma narrativa. L’autore, Mario Fales,  è uno storico orientalista e ci narra della costruzione della linea ferroviaria che unisce Berlino a Istanbul, e in particolare della tratta che unisce la capitale ottomana a Baghdad. Piccola parentesi: in Italia lo storico di professione, cioè colui che fa della ricerca storica il suo mestiere, considera lo scrivere di storia un qualcosa di riservato agli addetti ai lavori. Cosa che si traduce in saggi piuttosto noiosi con scarsissima diffusione. Lo storico che scrive pensando anche al lettore mediamente acculturato, ma non propriamente storico, viene quasi emarginato e svalutato dalla comunità scientifica, come se il diffondere i risultati della propria ricerca li rendesse meno seri.

L'etica del linguaggio. Da Bernardino a Carofiglio (passando per Kraus)

G. Luca Chiovelli


Il libro più importante di Gianrico Carofiglio non è un romanzo, ma un saggio. Esso viene presagito, però, proprio in un romanzo, Ragionevoli dubbi, del 2006. Il protagonista, l’avvocato Guido Guerrieri, è frequentatore assiduo d'una libreria notturna, gestita da un insonne ex professore di liceo, l'Osteria del Caffellatte, aperta dalle 22.00 alle 06.00 (e, forse, ideologicamente ispirata all’Elogio della vita a rovescio di Karl Kraus, laddove un uomo, Kraus stesso, sceglie di vivere di notte e dormire di giorno, scansando felicemente il rumoroso mondo degli imbecilli).
In una delle sue incursioni bibliofile Guerrieri ha l'occasione di consultare un piccolo libro dalla copertina color crema, La manomissione delle parole. In esso si legge:

Le nostre parole sono spesso prive di significato. Ciò accade perche le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per raccontare, dobbiamo rigenerare le nostre parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle.
Nei nostri seminari chiamiamo manomissione questa operazione di rottura e ricostruzione. La parola manomissione ha due significati, in apparenza molto diversi. Nel primo significato essa e sinonimo di alterazione, violazione, danneggiamento. Nel secondo, che discende direttamente dall'antico diritto romano (manomissione era la cerimonia con cui uno schiavo veniva liberato), essa è sinonimo di liberazione, riscatto, emancipazione.
La manomissione delle parole include entrambi questi significati. Noi facciamo a pezzi le parole (le manomettiamo, nel senso di alterarle, violarle) e poi le rimontiamo (le manomettiamo nel senso di liberarle dai vincoli delle convenzioni verbali e dei non significati).
Solo dopo la manomissione, possiamo usare le nostre parole per raccontare storie
”.

Questo il libro nel libro. Quattro anni dopo, Carofiglio trasforma quel saggio fittizio in uno studio effettivo sullo snaturamento del linguaggio, e lo titola, ovviamente, La manomissione delle parole.
In esso (un "gioco personalissimo" lo chiama) dimostra che il genocidio delle parole, quale lo stiamo vivendo, si muove lungo due perverse linee di sviluppo: il tradimento del significato intimo delle stesse e l'impoverimento del vocabolario usato nella vita quotidiana (e non solo).


1. Il tradimento consiste nell’uso sciatto delle parole – sia esso spontaneo o deliberato – e nel conseguente allontanamento dalla loro profonda e vera radice etimologica.

Termini come popolo, vergogna, bello, vero, giustizia, simpatia, mito vengono ormai continuamente distorti (dall'uomo comune, dalla pubblicità, dall'informazione) e dirottati dalla loro vera essenza sorgiva. L’esito consiste nell’irriconoscibilità del significato intimo del termine stesso e nell’azzeramento del grado di conoscenza concettuale trasmesso proprio da quella parola.

Il bombardamento di Palermo nelle parole di un piccirìddo

Ti racconto un libro:
Davide Enia maggio'43
Edizioni Sellerio, pp.103, euro 12

Maria Vayola

Nella famiglia protagonista di “maggio’43”, c'era l'usanza di lasciare un regalo sulla tomba d’un proprio caro, e quello che leggiamo, dalle prime pagine, è proprio uno di questi regali: “il cunto di chiddu che succirìu in ‘sti giorni di maggio”, che Gioacchino, 12 anni, lascia sulla tomba del fratello Rosario.
La narrazione, in forma di monologo (originariamente testo teatrale, adattato dallo stesso autore in forma narrativa) presenta, sin dall’inizio, una delle caratteristiche del libro: il contrasto tra la drammaticità dei fatti raccontati e il modo in cui Gioacchino li racconta a Rosario, con quella schietta semplicità dell’infanzia che messa di fronte a una tragedia quale la guerra, non può far altro, per poterla sopportare, che viverla come un’avventura, cercando al suo interno forme per riaffermare la propria vitalità, rasentando quasi l’indifferenza.
Il linguaggio del ragazzo, per lo più dialetto palermitano, è quindi quello diretto e scarno dell’infanzia, senza alcuna sottolineatura letteraria della tragicità dei fatti  ma il loro solo resoconto.
Il cunto riguarda le vicissitudini della famiglia di Gioacchino che, nel maggio del 1943, sfolla da Palermo nel piccolo paese di Terrasini, per sfuggire ai bombardamenti americani e alle violenze fasciste. Tutti i giorni i componenti maschi devono però tornare in città per svolgere alcune incombenze, e sarà  un comico contrattempo sulla strada, durante uno di questi spostamenti, a far loro perdere del tempo, tempo che li salverà  dal bombardamento alleato del 9 maggio che distruggerà buona parte di Palermo, facendo tantissime vittime.
La devastazione causata dalle bombe apparirà loro ancor prima di arrivare in città.

giovedì 11 luglio 2013

Un ricordo di Federico Caffè: antidoti al veleno delle presunte certezze

Venerdì 12 luglio alle 17.30 presso la Sala del Consiglio "Caduti di Forte Bravetta" del Municipio XII viene presentato il volume Contro gli incappucciati della finanza. Scritti di Federico Caffè a cura di Giuseppe Amari (RX Castelvecchi).

Massimo Tegolini

Con la presentazione presso il Municipio XII del volume che raccoglie tutti gli articoli di Federico Caffè apparsi su «Il Messaggero» di Roma e «L’Ora» di Palermo nel periodo che va dalla metà degli anni Settanta sino alla vigilia della sua scomparsa, nell’aprile del 1987,  viene, ulteriormente, consolidato il rapporto che Monteverde ha con questo grande economista. A lui sono intitolate una scuola superiore, un largo, un Centro Creatività e Innovazione e, adesso, anche una Biblioteca. Io, personalmente, sono molto legato a Federico Caffè: l’ho conosciuto nel periodo universitario a Fontanella Borghese (la vecchia Facoltà di Economia della “Sapienza”) a partire dal 1966. Per molti giovani della mia età quello è stato il periodo della prima formazione politica: la nascita del Movimento Studentesco, il ’68, la ripresa delle lotte operaie. Ricordo che Federico Caffè fu molto vicino a noi studenti e ci aiutò a capire la natura e l’evolversi dei processi economici: posso dire, adesso, a studiare la globalizzazione e le conseguenze che produce sull’economia dei paesi, in particolare quelli poveri e in via di sviluppo. Con lui si aveva un confronto continuo sia durante le lezioni che dopo: spesso, al termine, si andava nel suo studio per continuare a discutere del pensiero sociale, quindi di economia e di politiche sociali. Ma so bene e l’ho capito successivamente che l’economia e le politiche sono sempre sociali! Era un uomo di scuola, un grande docente che amava il suo lavoro e dava tutto agli studenti, ma nello stesso tempo era, sempre, molto esigente. Grazie ai suoi contributi, noi studenti siamo riusciti a comprendere la crisi dello stato di benessere e quelle forme di benessere condiviso a partire non dai libri dei sogni ma dai piccoli passi dell’agire della vita quotidiana, a mettere al centro dell’economia la solidarietà e gli affetti, a non confondere“l’ombra della partecipazione con la realtà del potere” ma a muoversi in direzione di una vera partecipazione e di una etica rispettosa dei diritti di tutti e dei più deboli in particolare. Per ultimo voglio ricordare una frase molto cara a Federico Caffè, riportata nella locandina del 6 novembre 2003 in occasione dell’intitolazione della scuola: “Occorre fare appello ad un vigile senso critico e ad una lunga memoria che, nell’efficace collegamento tra il presente e il passato, trovi il migliore antidoto al sottile veleno delle presunte certezze”.

lunedì 8 luglio 2013

Non usate mai il flash - un incontro con Mario Dondero

Giulia Caminito

Il noto proverbio turco recita: chi non ha il pane, ma compra fiori è un poeta. Mario Dondero racconta che da bambino sua madre gli dava i soldi per il cappuccino e lui li spendeva sempre per un libro usato alla bancarella. Si definisce un grande lettore, a cui più volte è stato chiesto di scrivere libri. Finora però, tranne qualche racconto, ha preferito parlare con le immagini, narrando attraverso la fotografia quel mondo che con piacere aveva trovato tra le pagine. Ascoltare Mario Dondero (lo abbiamo avuto ospite da Plautilla il primo Luglio) è come immergersi in una vasca di immagini. Ci sono viaggi, memorie, persone, vite, ma soprattutto sguardi. Cosa vuol dire oggi raccontare per un fotografo e cosa ha significato finora?

domenica 7 luglio 2013

Morelli e Donalisio, viaggio sonoro nella poesia di Caproni

Si può "raccontare una lettura"? E di più, una lettura poetica? Enza Bertoni, dopo avere ascoltato sabato scorso le voci di Paolo Morelli e Fabio Donalisio alternarsi seguendo le pagine della raccolta Il muro della terra di Giorgio Caproni, ha scelto di raccontare il suo personale ascolto della lettura.  E chi ha assistito all'incontro e al dibattito vivace, perfino pungente, che lo ha seguito, sa che proprio degli infiniti modi di leggere e di ascoltare si è parlato.

Enza Bertoni

Nell'intimo spazio di Plautilla, abbiamo condiviso la lettura integrale della raccolta Il muro della terra di Giorgio Caproni, fatta dai poeti/scrittori Paolo Morelli e Fabio Donalisio. Mentre le letture si alternavano tra i due, noi abbiamo sperimentato forme di conoscenza della vita, delle cose, che riverseremo nei gesti della quotidianità. 
La poesia di Caproni è viva, è vera! Per il poeta si tratta di mantenere le forme, la purezza essenziale del linguaggio e svuotarlo di senso, cercando di lavorare con le parole, di attraversare la storia senza esserne attraversati. 
"Tutto sembra intatto, ma il poeta rimane con se stesso" dice Morelli.Ed è una posizione etica del poeta Caproni, il luogo dal quale guarda e scrive, ma che non dà la possibilità di impossessarsi e raccogliere gran quantità di ricordi, di emozioni, poiché nel suo "viaggio" tra le parole e i suoni dimostra umiltà nel cercare una possibile verità delle cose. Le parole, dice Donalisio, sono algide e quindi non devono trasmettere pathos (?), ma lasciano un segno particolare, afferrando il senso profondo, nascosto che ci spinge oltre.

                                             "L'uomo che se ne va
                                              e non si volta : che sa
                                              d'aver più conoscenza
                                              ormai di là che di qua"
Il tono si modifica nel ritmo, nei suoni, che a volte si fanno incalzanti, altre volte ossessivi come i canti dei pastori.

sabato 6 luglio 2013

Meridiano di sangue, la grande epica lungo la "frontera"

G. Luca Chiovelli


Meridiano di sangue (2^ parte)


Meridiano di sangue, di Cormac McCarthy, è uno dei rarissimi tentativi, riusciti, di evadere dalla letteratura d'ambientazione borghese e di ricucire il rapporto sfilacciato con la grande epica. Esperimento doppiamente meritorio poiché approntato da un americano, in terra americana, ovvero in partibus infidelium, nelle regioni ideologiche dove la letteratura del quotidiano e della psicologia spicciola cresce, si diffonde  e s'impone globalmente con l'inarrestabile leggerezza dell’ovvio prodotto di consumo.
McCarthy nasce nel Rhode Island (a Providence, città natale di H. P. Lovecraft, altro antimodernista a lui ideologicamente affine), ma si trasferisce e si reclude presto nel Tennessee, nel Sud-Est, laddove può abbeverarsi all'unico mito antiborghese proprio dell'America, quello della frontiera, del limite, del confine. Tale mito, adeguatamente trasfigurato, innervato dalle letture di Friedrich Nietzsche e dei presocratici greci (di Anassimandro o, meglio, dalla lettura che Nietzsche diede di quel pensatore pre-logico), è alla base del libro in questione.
Meridiano di sangue, lo affermo da subito, è un capolavoro assoluto, per lo stile al contempo realistico e barocco, e per la profondità dell'evocazione filosofica. Già questo basterebbe a inserirlo fra i maggiori della sua terra; ma, in più, esso si vale d'una caratterizzazione simbolica eccezionale, quella del Giudice Holden, che lo appaia, già da adesso, all'altro feticcio della letteratura americana, il Moby Dick di Melville.
Seguire i due piani di lettura, il narrativo e il simbolico, non è facile.
Per nostra fortuna i libri possono leggersi in tanti modi: questo è un segno della loro immortalità. Si può seguire la storia principale saltando le parti filosofiche (i monologhi del Giudice); oppure, in seguito, leggere esclusivamente quelle, meditarle, quindi ricominciare daccapo con l'intera opera. I classici agognano la rilettura (oltre a sopportare i giudizi degli imbecilli): son come i tappeti di Ishafan che, col calpestio e l’uso, migliorano la nettezza del disegno.
In questo post esamineremo il livello evidente, narrativo, con ampi estratti dalla prosa di McCarthy, baluginante e splendidamente barbarica. In seguito ci dedicheremo all’analisi della figura del Giudice, al cuore filosofico del libro.

L'"Ulisse" come manuale di self-help. Una conversazione con Declan Kiberd

Enrico Terrinoni
ET: Negli ultimi decenni la critica joyciana, un’industria culturale transnazionale e iper-specializzata, ha versato fiumi di inchiostro per spiegarci quanto fosse difficile accedere all’universo di James Joyce, lasciando intendere che questa complessità necessitasse di interpreti privilegiati, un po’ come per i testi sacri. C’è da chiedersi se questi sacerdoti del joycianesimo internazionale non siano una moderna personificazione di quel principio di autorità su cui non dovrebbero mai fondarsi i «saperi inesatti». Tuttavia una certa tendenza si sta facendo strada ultimamente, soprattutto grazie alla scuola irlandese che tu, Seamus Deane e altri avete inaugurato: una tendenza che rimette al centro dell’attenzione l’evento umano, esistenziale, anche ordinario di cui Joyce si occupa, senza focalizzarsi solo sugli straordinari effetti speciali linguistici e stilistici.
DK: Qualche anno fa ho pubblicato un libro dal titolo Ulysses and Us (Faber & Faber 2009), la cui tesi è che Joyce intendesse Ulisse come una sorta di manuale di self-help, un libro che ci insegna a vivere. Sembrerà strano per un’opera piena di sperimentalismi formali, ma credo sia vero: riguarda un giovane, Stephen Dedalus, un laureato che soffre di depressione e che ha bisogno di uscire da questa condizione per accedere alla «gloria» della vita quotidiana. Incontra un uomo di 38 anni, Leopold Bloom, che lo aiuta in un simile percorso. Stephen lavora ogni tanto come insegnante in una scuola. A colloquio col direttore gli annuncia la sua volontà di smettere di insegnare, dicendo di essere più interessato ad apprendere. Ritiene che chi si è messo ad insegnare l’abbia fatto perché ha dimenticato come si fa ad imparare. Credo che in qualche modo Joyce pensasse a questo libro come a una modalità alternativa di insegnamento.