Il caso Kerenes del regista rumeno Calin Peter Netzer, vincitore
dell'Orso d'Oro 2013 al Festival di Berlino, è un film ambientato in Romania, che mette in scena un intenso
dramma edipico collegandolo ad aspetti di interesse sociologico. Siamo
a Bucarest e lo sguardo di Netzer è rivolto verso la classe
alto-borghese rumena degli anni duemila, erede di quel potere arrogante e
spregiudicato che la dittatura di Ceausescu ha incarnato. Il regista osserva i suoi personaggi senza mediazioni e in tal senso è funzionale la mobilità delle riprese grazie alla camera a spalla che sembra
pedinare e scrutare attentamente le figure raccontate nel film.
Il
titolo originale A child's pose è - come purtroppo
molto spesso accade - più appropriato e incisivo
rispetto a quello dato alla pellicola in Italia, un po' troppo "poliziesco". L'altro, invece, corrisponde molto meglio al racconto e ai diversi piani di lettura che evoca. "La posizione del bambino" nel referto della polizia sta ad indicare la
posizione del corpo ritrovato, ma può significare anche la posizione
del feto intesa nel voler trattenere dentro di sé qualcuno.
Un
tragico evento è la finestra temporale che dà un'accelerazione
improvvisa e drammatica alle vite dei personaggi borghesi
ritratti da Netzer: un incidente d'auto mortale, provocato
da Barbu, un trentaquattrenne tratteggiato come insicuro,
fobico, non abituato a essere responsabilizzato. Veniamo a sapere che
da poco tempo è andato a vivere per
proprio conto con una donna non corrispondente agli standard
(impossibili, in questi casi) di un genitore, Cornelia, architetta e
scenografa, che riassume su di sé il potere acefalo e dittatoriale di
una madre simbiotica e castrante. Il padre, chirurgo, occupa in
famiglia una posizione e un ruolo marginale, depotenziato delle sue
funzioni paterne anche in virtù dei suoi atteggiamenti deleganti. La
preoccupazione delle conseguenze giudiziarie nei confronti del figlio è l'unica reazione della madre e dei familiari di fronte alla tragedia
della morte di un quattordicenne: la pianificazione e l'organizzazione
dei modi per evitare ogni riconoscimento di responsabilità è resa in
tutta la sua crudezza emotiva, palesando una determinazione
che non conosce ostacoli, neanche istituzionali. E' la corruzione
materiale e morale vista nei dettagli, ma nel pieno della sua
possibilità di silenziare chi reclama il diritto e il dovere di
applicare le regole, e di contagiare facilmente chi entra nella logica perversa e immorale dello scambio.
Il
dramma scorre parallelo anche nel rapporto cosi
apertamente problematico fra madre e figlio. I tentativi non riusciti di svincolarsi e rendersi autonomo che Barbu ha cercato nel
tempo di attuare, così come i conflitti interiori ancora irrisolti, sono
ritratti (e proposti nel loro significato metaforico) anche attraverso
gli atteggiamenti ansiosi e inibiti con i quali affronta gli
accadimenti insieme alle paure e alle contromisure per evitare
possibili contagi provenienti dall'ambiente. Questo suo modo timoroso e
insicuro di entrare in contatto con la realtà è speculare, nel film,
all'invadenza manipolatrice della madre che sembra quasi voler
'reinfetare' il figlio nel suo grembo. Il grande talento e la profonda
espressività dell'attrice Luminita Gheorghiu (la madre) mostrano efficacemente emozioni e stati d'animo che attraversano il suo
controverso personaggio, fino a raggiungere l'apice nella scena
struggente del film che lo conclude, lasciando un finale aperto che ci
interroga senza dare indicazioni precise su un eventuale radicale
cambiamento intercorso nelle esistenze dei personaggi, da un punto in
poi.
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