Maria Teresa Carbone
È
passato più di un mese da quando Giuliano Zincone se n'è andato. Lo
hanno ricordato in tanti, come è naturale, perché è stato un
eccellente giornalista e una persona giusta, due cose che non sempre
vanno insieme. Aggiungo qualche parola anch'io, sia pure in ritardo, perché
ho avuto la fortuna di conoscerlo, giovane giornalista al “Lavoro”
di Genova quando lui era direttore. A differenza di altri, non l'ho
frequentato fuori dalla redazione (colpa del mio carattere ispido,
tendevo a etichettare come ruffianeria l'ipotesi di un'amicizia con
chi aveva più anni e più potere di me), ma avevo per lui enorme
stima e simpatia, almeno in parte ricambiate, direi.
In
molti, dopo la sua morte, hanno ricordato quasi con stupore i nomi
dei tanti ragazzi chiamati nel piccolo quotidiano genovese da
Zincone: Lucia Annunziata e Gad Lerner e Giorgio Boatti e Luigi
Manconi... Aggiungo qui che trattava i giornalisti “di fuori” e
quelli “di dentro”, i genovesi ereditati dalle tumultuose
gestioni precedenti, con la stessa attenzione, lo stesso garbo, la
stessa ironia affettuosa e partecipe, mai sprezzante. Dopo la
direzione di Cesare Lanza, i titoli sguaiati, le finte inchieste sul
sesso in città, era meraviglioso, almeno per me, avere un direttore che rispettava i giornalisti e i lettori (anche
questo capita di rado).
Che
Zincone abbia diretto un giornale per meno di due anni in tutto è un
paradosso e una ingiustizia: era bravissimo come giornalista, ma
soprattutto sapeva amalgamare e valorizzare, e perseguiva la sua idea
– ben precisa – di giornale condividendola con gli altri, non
catapultandogliela addosso.
E anche se, come lui stesso ricordava
nell'intervento conclusivo del volume Il Lavoro di Genova. Storia
e testimonianze 1903-1992, la sua indolenza era proverbiale
(“Finalmente Zincone al Lavoro” aveva scritto di lui
scherzosamente un collega del “Corriere della Sera”), aveva preso
con tutta la serietà possibile il suo impegno di direttore. Leggeva
ogni riga di quello che andava in pagina, lodando e correggendo a
seconda dei casi. Aveva le sue idiosincrasie (detestava il verbo
“iniziare”, con lui si doveva sempre “cominciare”), ma
soprattutto non gli piacevano le frasi fatte, l'eccentricità fine a
se stessa, gli eufemismi burocratici. Una cosa non è carente:
manca!
Nei
venti mesi in cui Zincone ha diretto “Il Lavoro”, tra l'aprile
1979 e il gennaio 1981, quando Rizzoli lo ha allontanato di colpo
perché aveva scelto di pubblicare un comunicato delle BR per
salvare la vita a un ostaggio, i confini larghi delle competenze che
mi aveva assegnato – “scuola cultura società”, aveva scritto
su un cartoncino che forse ho ancora – mi hanno consentito di
seguire le indagini sulla strage di via Fracchia (“Non è una
vittoria” era stato il titolo del suo editoriale) e le agitazioni
studentesche, la prima giornata dell'orgoglio omosessuale a Torino e
il convegno veneziano con cui è stato annunciato il quotidiano
popolare “L'occhio”, creatura di Maurizio Costanzo morta prima di
nascere. Proprio a causa dell'”Occhio” Zincone ha modificato una
volta – l'unica – un mio articolo: nel settembre 1979, a ridosso
dell'uscita del giornale in alcune aree-pilota, è stata organizzata
una conferenza stampa interna, solo per i giornalisti del gruppo
Rizzoli, e naturalmente Zincone ha mandato a Milano me, che avevo
seguito il convegno alla Fondazione Cini. Uscendo dall'incontro
(Costanzo gocciolante di sudore, pavidi e ossequiosi i colleghi delle
altre testate), sono stata certa che il “Sun” italiano avrebbe
avuto vita brevissima e ho cominciato a scrivere mentalmente il pezzo
che ho consegnato qualche ora dopo. La sera Zincone mi ha chiamato a
casa (non era mai successo). Aveva letto l'articolo, aveva cambiato
le mie frasi ben scelte, trasudanti critica e disprezzo, aveva tolto
la firma. Era imbarazzato e, credo, più ancora, dolente e deluso per
la mia stupidità. Come potevo attaccare in quel modo aperto e goffo
una testata del gruppo – e neanche un giornale qualsiasi, uno su
cui la proprietà aveva investito tutte quelle risorse? Il fatto che la mia
intuizione si sia rivelata giusta pochi mesi dopo non ha del tutto cancellato il disagio per quella telefonata. Quando nel gennaio '81
Rizzoli lo ha allontanato, io ero via, a Mosca, per un corso di
russo.
Ci siamo
rivisti una ventina d'anni dopo. Abitavo a Roma e lavoravo con Nanni
Balestrini a RaisatZoom, “la prima televisione in rete”
(questo, en passant, nel 1999-2000, quando di web tv non parlava
proprio nessuno). Abbiamo chiesto a Zincone se voleva leggere per noi
il testo integrale del poemetto in versi Giovanni Foppa vuole cambiar vita, che aveva pubblicato da poco. Ha accettato per
amicizia, ma il ruolo di fine dicitore non gli piaceva affatto.
Quando andavo a casa sua per le riprese, nel bell'appartamento a
pochi passi da piazza del Popolo, era nervosissimo e mirava apertamente a
farla finita il più presto possibile. Solo quando la telecamerina si
spegneva, riprendeva fiato, offriva a me e all'operatore un bicchiere
di tè freddo, ricordava i tempi del “Lavoro”. Era soprattutto
orgoglioso dei risultati che i ragazzi di allora avevano raggiunto,
ma non se ne attribuiva il merito. Sbagliava: con la generosità dei
veri maestri aveva mostrato a chi, in quei venti mesi, aveva lavorato con
lui, cosa è, cosa dovrebbe essere un giornalista. Se poi siamo stati
capaci di capire la lezione, è un altro discorso.
Letture
Giuliano
Zincone, Giovanni Foppa vuole cambiar vita. Poemetto in sedici
canti tra prima e seconda Repubblica, Liberal Libri 1997
“Il
Lavoro” di Genova. Storie e testimonianze 1903-1992, a cura di
Marina Milan e Luca Rolandi, Provincia di Genova (Assessorato alla
cultura)
Video
Giuliano
Zincone legge il primo capitolo di Giovanni
Foppa vuole cambiar vita (da RaisatZoom,
diventata poi RaiLibro e infine Zoooom)
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