venerdì 12 luglio 2013

L'etica del linguaggio. Da Bernardino a Carofiglio (passando per Kraus)

G. Luca Chiovelli


Il libro più importante di Gianrico Carofiglio non è un romanzo, ma un saggio. Esso viene presagito, però, proprio in un romanzo, Ragionevoli dubbi, del 2006. Il protagonista, l’avvocato Guido Guerrieri, è frequentatore assiduo d'una libreria notturna, gestita da un insonne ex professore di liceo, l'Osteria del Caffellatte, aperta dalle 22.00 alle 06.00 (e, forse, ideologicamente ispirata all’Elogio della vita a rovescio di Karl Kraus, laddove un uomo, Kraus stesso, sceglie di vivere di notte e dormire di giorno, scansando felicemente il rumoroso mondo degli imbecilli).
In una delle sue incursioni bibliofile Guerrieri ha l'occasione di consultare un piccolo libro dalla copertina color crema, La manomissione delle parole. In esso si legge:

Le nostre parole sono spesso prive di significato. Ciò accade perche le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per raccontare, dobbiamo rigenerare le nostre parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle.
Nei nostri seminari chiamiamo manomissione questa operazione di rottura e ricostruzione. La parola manomissione ha due significati, in apparenza molto diversi. Nel primo significato essa e sinonimo di alterazione, violazione, danneggiamento. Nel secondo, che discende direttamente dall'antico diritto romano (manomissione era la cerimonia con cui uno schiavo veniva liberato), essa è sinonimo di liberazione, riscatto, emancipazione.
La manomissione delle parole include entrambi questi significati. Noi facciamo a pezzi le parole (le manomettiamo, nel senso di alterarle, violarle) e poi le rimontiamo (le manomettiamo nel senso di liberarle dai vincoli delle convenzioni verbali e dei non significati).
Solo dopo la manomissione, possiamo usare le nostre parole per raccontare storie
”.

Questo il libro nel libro. Quattro anni dopo, Carofiglio trasforma quel saggio fittizio in uno studio effettivo sullo snaturamento del linguaggio, e lo titola, ovviamente, La manomissione delle parole.
In esso (un "gioco personalissimo" lo chiama) dimostra che il genocidio delle parole, quale lo stiamo vivendo, si muove lungo due perverse linee di sviluppo: il tradimento del significato intimo delle stesse e l'impoverimento del vocabolario usato nella vita quotidiana (e non solo).


1. Il tradimento consiste nell’uso sciatto delle parole – sia esso spontaneo o deliberato – e nel conseguente allontanamento dalla loro profonda e vera radice etimologica.

Termini come popolo, vergogna, bello, vero, giustizia, simpatia, mito vengono ormai continuamente distorti (dall'uomo comune, dalla pubblicità, dall'informazione) e dirottati dalla loro vera essenza sorgiva. L’esito consiste nell’irriconoscibilità del significato intimo del termine stesso e nell’azzeramento del grado di conoscenza concettuale trasmesso proprio da quella parola.

Supponiamo – ad esempio – che un personaggio pubblico, di infimo livello morale, un uomo di cui una nazione intera dovrebbe vergognarsi, si proclami, invece, libertario e liberale; ribalti le vergognose accuse contro di lui accusando i propri naturali inquisitori di essere la vergogna della nazione; che asserisca, dallo scranno d’una sede istituzionale, che la giustizia, per essere giusta, va declinata ad personam in nome della libertà et cetera, allora tutto questo, lentamente, porterà (e ha portato in effetti) ad una traslazione del significato di giustizia, libertà, vergogna.

Quei concetti antichi, distillati in millenni di elaborazione razionale, hanno subito, grazie ad un ladro di parole, uno snaturamento che, inavvertibile nel breve termine, risulta di portata incalcolabile se raffrontato alla situazione linguistica di soli venti anni fa.
Questo è un esempio minuscolo. La retorica del dopo 11 Settembre ha manipolato la pregnanza usuale di parole come nazionalismo, libertà, autodifesa ancor più nel profondo.
La seconda parte del libro di Carofiglio - la parte costruttiva - è dedicata proprio alla manomissione (nel senso sopra ricordato) delle parole concettualmente più importanti: vergogna, scelta, ribellione, bellezza. Camus, Aristotele, Arendt, don Milani, Tocqueville  sono alcuni dei testimoni chiamati a confortare tale processo paziente di ripulitura e restauro dell’etimologia perduta.


2. L’impoverimento del vocabolario.

Qui siamo al cuore del problema. Le implicazioni investono il ruolo stesso dell'individuo nella società democratica. Carofiglio getta subito nella mischia il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky:


Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell'uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca e la discussione politica e, con essa, la vita democratica


E Carofiglio aggiunge:


Il rapporto fra ricchezza, delle parole e ricchezza delle possibilità (e dunque di democrazia) è dimostrato anche dalla ricerca scientifica, medica, criminologica: i ragazzi più violenti possiedono strumenti linguistici scarsi e inefficaci, sul piano del lessico, della grammatica e della sintassi non sono capaci di gestire una conversazione, non riescono a modulare lo stile della comunicazione ... in base agli interlocutori e al contesto, non fanno uso dell'ironia e della metafora ... non sanno nominare ... non sanno raccontare storie ... mancano della necessaria coerenza logica, non hanno abilita narrativa ... questo vale a tutti i livelli della gerarchia sociale ... la violenza incontrollata è uno degli esiti possibili, se non probabili, di questa carenza”.

Le parole sono sempre di meno. Il vocabolario, ovvero quella parte comune di linguaggio che rende possibile la società e la comprensione d’essa, riposa ormai su poche centinaia di termini, quasi sempre usati nella loro esclusiva valenza utilitaristica. Gli uomini sono di fatto spossessati di larghe porzioni della propria psicologia ed individualità. Se le parole definiscono i sentimenti e i fenomeni, esserne privi significa rinunciare al dominio su di essi e, di conseguenza, non riuscire a decodificare nulla, ammalarsi di violenza e restare in balia del potere che è il principale responsabile di questo disseccamento umano.

E qual è la diagnosi finale?

Autismo di massa. Il paziente autistico coglie la sola accezione d'una parola, e ignora il contesto, l'intonazione, i tacitamenti, gli ammicchi, ovvero tutto ciò che la circonfonde e le dona senso; egualmente l'uomo postmoderno vive questa condizione miserabile, in cui la realtà fugge davanti a lui, straniera ed inafferrabile, relegandolo ad uno stato di disagio e servaggio.

Di disagio. Se, ad esempio, ci mancano le parole per definire un sentimento o un fenomeno, questi, rimasti inespressi o incompresi, ristagneranno in noi sino a marcire lentamente, avvelenando l'animo e la volontà. Tale fenomeno possiede una parola propria: ipocognizione. Carofiglio riporta l'esperienza dell'antropologo Bob Levy:


"Nel tentativo di individuare la ragione dell'altissimo numero di suicidi registrati a Tahiti, Levy scopri che i tahitiani avevano le parole per indicare il dolore fisico, ma non quello psichico. Non possedevano il concetto di dolore spirituale, e pertanto quando lo provavano non erano in grado di identificarlo. La conseguenza di questa incapacità, nei casi di sofferenze intense e (per loro) incomprensibili, era spesso il drammatico cortocircuito che portava al suicidio”.

Di servaggio. A tal proposito lo scrittore cita opportunamente 1984 di Orwell:


Fine della Neolingua ... era ... soprattutto quello di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero ... A parte la soppressione di parole di carattere palesemente eretico, la riduzione del vocabolario era considerata fine a se stessa, e di nessuna parola di cui si potesse fare a meno era tollerata l'esistenza. La Neolingua era intesa non a estendere, ma a diminuire le possibilità del pensiero ... ogni riduzione rappresentava una conquista, perché più piccolo era il campo della scelta e più limitata era la tentazione di lasciar spaziare il proprio pensiero".

La depauperazione del linguaggio asseconda un disegno oligarchico che restringe ogni giorno di più lo spazio democratico riservato allo scambio emozionale ed alla comunità. Una prefigurazione sociale che contempla esclusivamente un consumatore afasico, docile, estromesso da qualsivoglia esperienza collettiva. Si viene a delineare, quindi, come osserva il filosofo Victor Klemperer, un linguaggio oppressivo, quale rivestimento ideologico d'una dittatura già operante:

"Il Terzo Reich [leggi: il Potere] ha coniato pochissimi termini nuovi ... forse nessuno ... trasforma in patrimonio comune ciò che prima apparteneva ad un gruppuscolo ... si insinua attraverso  le locuzioni ... ripetute milioni di volte ... crea e pensa per me ... dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto ... più inconsciamente mi abbandono a lei ... [nella sua] fondamentale povertà ... impone un modello unico di pensiero ... [e può] esprimere solo un lato della natura umana"


Le parole del Nuovo Potere sono totalmente prive di evocatività; mancano di echi e risonanze risolvendosi nella pura comunicazione pratica o nella provocazione pubblicitaria.

Un linguaggio povero, negato alla creatività e alla poesia.

I dialetti o le tradizioni orali erano una fonte inesausta di immagini poiché provenivano da un passato profondo e incontrollabile da cui germinavano continue visioni e coloriture. Facciamo un piccolo esempio. San Bernardino, un francescano del Quattrocento, soleva tenere delle prediche veementi ed esplicite in Piazza del Campo a Siena; vi miscelava sermoni, aneddoti, invettive. Una volta si scagliò contro le donne che curavano troppo l’aspetto, in special modo la capigliatura: le chiamò “lisciardose”. Lisciardose è un'invenzione tutta sua, che non ha bisogno di essere spiegata; chiunque assapora quel suono, lisciardose, dall’espressività incalcolabile e scaturito da chissà quali recessi linguistici, ha già in mente un carattere femminile ben definito.

Il dialetto è un linguaggio vivo, che si nutre del passato e che ha la possibilità di autorigenerarsi e rinnovarsi donandoci, per ciò stesso, altre esperienze e prospettive della realtà.
Ogni parola, infatti, può essere paragonata ad una ninfea. Il fiore a pelo d'acqua, che tutti ammirano per la smagliante coloritura, è in realtà tributario, per mezzo delle lunghe radici filamentose, al fondo oscuro e limaccioso del lago; invisibile all'occhio, ma datore di vita.
Il linguaggio, per non morire, deve nutrirsi di quel fondale oscuro che lo ingigantisce e lo moltiplica incessantemente. Come nelle favole. Altrimenti non fa che significare se stesso, e, così facendo, si raggrinzisce sempre più, approssimandosi all’estinzione (e insieme ad esso si estingue la diversità e la varietà dei caratteri umani).
Non esistono soluzioni. Possiamo sempre sperare che la stupidità raggiunga un tale livello da autosopprimersi. Ho, tuttavia, qualche dubbio in proposito.
I mezzi tecnici, peraltro, comprese certe tastiere di PC, aggravano i sintomi favorendo la paratassi, le abbreviazioni, gli acronimi, i barbarismi, la disfatta dell'interpunzione.
Titoli come TVUKDB, gli emoticon, la recente pubblicità delle sigarette elettroniche: "I primi 3 mesi svapi gratis" in cui si accozzano (in sei parole!) numeri arabi, avverbi d’origine latina e un neologismo idiota, sono gli epifenomeni quotidiani di una degenerazione incontrastabile. Qualcuno di voi può sorridere, ma non sorrideva Karl Kraus quando, un secolo fa, si incarogniva contro una pubblicità d'una ditta di tacchi da scarpe che sfruttava il nome e la figura di Friedrich Nietzsche. L'ho scansionata per voi:


In un numero della rivista Die Fackel (21 Gennaio 1914; rivista tutta scritta e redatta personalmente, come un blog) Kraus commentò tale immagine con la consueta indignazione venata di rabbia e fatalismo:


Impotente lo Stato, che dovrebbe proteggere la vita, l’onore, la salute e la proprietà privata, e giace ai piedi di questo canagliume che sbrana la cultura come un boa constrictor il proprio coniglio”.

Per Kraus (e per me, per quel che conta) tutto è segno di qualcosa d'altro e il quotidiano, perfino la minutaglia, ha le stimmate dell'apocalisse a venire.


Non rimane che la testimonianza individuale (come quella di Carofiglio) o un certo disincantato engagement (il mio).

Dobbiamo, insomma, imporci l’obbligo morale di una nuova etica del linguaggio.

Nel nostro piccolo e da subito.

Altrimenti non rimane che il silenzio.


Consigli di lettura

Gianrico Carofiglio, La manomissione delle parole, Rizzoli, 2010
Karl Kraus, Elogio della vita a rovescio, Studio Tesi, 1988, 1995
San Bernardino da Siena, Prediche volgari sul campo di Siena. 1427, Rusconi, 1989

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