Elizabeth Strout, I ragazzi Burgess
traduzione di Silvia Castoldi
Fazi, pp. 448, euro 18,50
Patrizia Vincenzoni
"Nessuno conosce mai veramente qualcuno", così si chiude il prologo di I ragazzi Burgess di Elizabeth Strout : una chiave di lettura, fra le altre, per accedere a questo romanzo ben scritto, nel quale la scrittrice padroneggia - ci aveva già dato ampia prova di ciò in Olive Kitteridge - tutto il materiale umano di cui racconta, le cui psicologie esplora in profondità. Il Maine è ancora una volta lo stato americano in cui Strout muove le figure della sua commedia umana familiare e sociale: al centro della narrazione quel che resta di una famiglia su cui parecchi anni prima si è abbattuta una tragedia, la morte del padre causata involontariamente da uno dei tre figli, allora bambini.
I ragazzi Burgess è lo stilema attorno al quale le vite dei tre fratelli da allora in poi si svolgono, caratterizzato dalla rimozione del dolore e dall'impossibilità, dunque, di parlarne, rimozione che accompagna negli anni il bisogno di Jim, il primogenito, di allontanarsi dalla famiglia e dalla cittadina d'origine, andando a vivere a New York. La sua energia mentale, l'arroganza e il sarcasmo lo caratterizzano nel ruolo del professionista di successo anche mediatico fino a confondersi con quella stessa immagine diventata corazza difensiva, rassicurante per sé e per tutti gli altri familiari. L'altro fratello Bob, gemello di Susan, è la vittima designata del dramma, ruolo cui aderisce perfettamente, identificandosi in esso, e come tale la sua esistenza è una serie di fallimenti, sentimentali e lavorativi. Anche lui come Jim vive a New York, in fuga dal Maine: una fuga che vive in modo estraniato e confuso, abbarbicato com'è al fratello maggiore, sostituto paterno e alla moglie di questi, Helen, ritratta nel suo cercare come ripararsi dalla possibilità di non corrispondere al cliché della donna / moglie felice.
Susan è rimasta là, dove sono le radici familiari, scomode da portare nel proprio Dna psichico, vive chiusa e abituata a sentirsi infelice, ferma in una illusoria attesa di qualcuno, qualcosa che la risarcisca di ciò che sente mancante, perso. Zachery è il figlio diciannovenne, chiuso nel rapporto asfittico con la madre, anche lui solo, incapace di stabilire rapporti con i coetanei. L'assenza ingombrante del padre del ragazzo, tornato a vivere in Svezia, il bisogno di sentirsi valorizzato da questo lo porta a compiere un atto sacrilego verso la comunità somala - lancia una testa di maiale in una moschea durante le celebrazioni del Ramadan - rischiando un'incriminazione grave per il reato commesso.
Questo evento coagula nuovamente attorno a sé la presenza dei fratelli nel tentativo di scongiurare la condanna che si profila per Zachery, ma la storia esce ovviamente dai confini familiari investendo la città, chiusa in se stessa ma "aperta" verso atteggiamenti di matrice razzista nei confronti della comunità somala che da anni vi abita. Il racconto si snoda includendo così tematiche socio-geografiche e culturali contemporanee, memorie individuali e collettive nelle quali ricordi e esperienze sono fortemente condizionate da violenza e traumi indotti.
Alla storia dei ragazzi Burgess, delle loro vulnerabilità e del loro graduale procedere verso la possibilità di riscattare le loro vite fino ad allora mai vissute interamente e con consapevolezza, l'autrice affianca quella del popolo somalo costretto a migrare dalla propria terra, territorio simile a molti altri, nei quali la vita viene costantemente sfigurata da abusi individuali e collettivi, anche in quei campi profughi, luoghi-nonluoghi, che fanno dell'accoglienza uno stato di costante precarietà senza diritti e senza identità/cittadinanza.
Elizabeth Strout si interroga costantemente su alcuni contenuti che ritroviamo anche in questo libro, nel quale ancora una volta siamo invitati a riflettere sull'isolamento delle persone nei contesti familiari e nelle comunità, mettendo tale tema in relazione all'esperienza del dolore emotivo rimosso, all'abitudine di non farsi domande e alla difficoltà di esprimere sentimenti ed emozioni.
La scrittura sobria ed efficace della scrittrice scava in profondo nella psiche delle figure che compongono lo scenario umano narrato, accompagnandole però con fermezza empatica nei loro conflittuali itinerari psicologici e relazionali. Anche in questo romanzo il senso ineluttabile di declino accompagna i tipi umani descritti e le angosce esistenziali che li attraversano e che, in questo caso, possono affrontare soltanto dopo aver rinunziato a indossare le maschere sociali. Il recupero della parte più autentica di sé, suggerisce Strout, avviene attraverso il contatto diretto con ricordi e situazioni non più indefinite e inesprimibili. In questo modo si potranno compiere scelte dettate da un vero senso di responsabilità e questo, insieme alla capacità' di "per-donare", rende possibile modificare quel processo di decadimento morale e dei valori che investe i protagonisti dei suoi scritti.
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