Mauro Covacich, L'esperimento
Einaudi, pp. 176, euro 18,50
In una lunga intervista pubblicata sulla rivista online "Arabeschi", Mauro Covacich si descrive con le parole di un autore amato, Goffredo Parise: «Io – aveva detto di sé l'autore del Padrone – non sono un letterato. Non appartengo al mondo delle belle lettere, al mondo degli autori che scrivono libri a partire dai libri, che scrivono libri a partire dalla letteratura. Io sono uno scrittore, sono uno che può scrivere soltanto della vita; può scrivere soltanto traducendo a suo modo, metabolizzando a suo modo la vita, non altri libri». Nell'autoritratto di Parise si specchia Covacich e di certo sa di consegnarsi a una zona d'ombra che non esclude forse la fama, ma fa della sua opera un caso atipico nel paesaggio della nostra narrativa contemporanea.
Osservato con diffidenza dai letterati, di rado accoglienti verso chi rivendica di non essere uno dei loro, e noto al pubblico più per i suoi articoli (solitamente molto acuti) sul "Corriere della sera" e su altri giornali, che per i lavori letterari, l'outsider Covacich si è tuttavia guadagnato nel tempo un numero crescente di lettori.
Alcuni hanno imparato a conoscerlo già negli anni Novanta, con il suo libro d'esordio, Storia di pazzi e di normali (uscito nel '93 per Theoria e poi confluito nel catalogo Laterza), tra i primi esempi italiani di una scrittura inclassificabile, al confine tra narrativa e saggistica. Altri lo hanno scoperto di recente, divertendosi a leggere L'arte contemporanea spiegata a tuo marito (Laterza 2011), trenta brevissimi ritratti di artisti da Duchamp a Hockney, all'apparenza frivola galleria nata in origine per “Vanity Fair”, di fatto una guida rapida, ma attendibilissima, al discorso artistico dei nostri tempi.
È però con il romanzo L'amore contro del 2001, e soprattutto con il “ciclo delle stelle”, disteso lungo un arco di otto anni, dal 2003 di A perdifiato fino al 2011 di A nome tuo, che i lettori di Covacich hanno avuto la conferma di trovarsi di fronte a uno sperimentatore tenace e insoddisfatto, deciso a mettersi e a metterli continuamente in gioco, vuoi esponendo sé come personaggio con una brutalità che ben poco ha a che fare con le civetterie dell'autofiction (Prima di sparire, 2008), vuoi affidando all'eteronimo femminile Angela Del Fabbro la descrizione della pena del morire (Vi perdono, 2009, da cui quest'anno Valeria Golino ha tratto il film Miele), vuoi infine calandosi fisicamente nei panni del suo personaggio Dario Rensich, maratoneta e poi artista, filo conduttore del ciclo, nella videoinstallazione L'umiliazione delle stelle.
Nessuna sorpresa quindi che, chiusa la pentalogia, Covacich abbia pubblicato un romanzo programmatico fin dal titolo, L'esperimento (Einaudi, pp. 166). L'esperimento è quello, interno alla trama, di cui è stata oggetto, o vittima, la protagonista (e in parte io narrante) Gioia Husich: suo padre, prima ancora che nascesse, aveva deciso di addestrare lei e le due sorelle maggiori agli scacchi sull'esempio (vero) dell'ungherese László Polgár che, al grido di “La genialità si crea, non nasce da sola”, ha allenato fin da piccolissime le figlie con risultati sorprendenti (tutt'e tre campionesse, una, la mediana Judit, Grande Maestro a poco più di 15 anni, la migliore scacchista donna di tutti i tempi).
Nel romanzo di Covacich anche Gioia è diventata, a differenza delle sorelle, una eccezionale giocatrice e partecipa a incontri internazionali di massimo livello, sebbene la spina bifida da cui è affetta limiti i suoi movimenti. Proprio durante uno di questi incontri – nel tempo minimo ma inverosimilmente dilatato di una mossa – Gioia ha una visione: un uomo e una donna (il re e la regina), che sotto i suoi occhi vivono, nutrendosi a loro volta di altre storie. Così che (ovviamente) anche il romanzo di Covacich è un esperimento, e non solo perché – come in fondo oggi è pratica frequente – intreccia piani narrativi e registri stilistici differenti, ma perché sembra porsi con rara e determinata consapevolezza sul punto di intersezione fra l'infinito delle storie possibili (il gioco degli scacchi, le cui varianti sono più numerose degli elettroni nell'universo) e la descrizione minuziosa (verrebbe da dire un'ecfrasi) di singoli, concretissimi destini. Su questo punto di intersezione Covacich ripropone quelle che negli anni si sono ormai definite come le sue ossessioni – il corpo, il tradimento, il tempo – con un uso della lingua che testimonia una attenzione continua, vigile, dove ogni singola parola ha un senso e un suono preciso. Non a caso l'unico personaggio che sembra unire la “realtà” di Gioia e la “realtà” del re e della regina è una declamatrice di poesie, che agli angoli delle strade recita i versi più noti, quelli che ci suonano nelle orecchie senza saperlo, la donzelletta che vien dalla campagna o chiare fresche dolci acque. E non a caso Covacich nell'intervista di "Arabeschi" spiega di avere scritto molte poesie, mai però pubblicate.
Il risultato finale (così raro oggi in Italia, e non solo) è che il lettore si rende conto di avere avuto fra le mani un romanzo, uno vero e non una pallida copia. Uno di quei testi di cui parla Guido Mazzoni nel bellissimo saggio Teoria del romanzo (Il Mulino 2011) che così si chiude: “Dentro i piccoli mondi locali, ogni posta in gioco ha un valore indubitabile, come se non esistesse più un senso, come se la parola 'senso' non potesse più declinarsi al singolare, ma vi fossero tanti piccoli significati regionali, tutti assoluti nella loro assoluta relatività. È la forma che ha assunto oggi la nostra vita, questo prodotto di forze anonime, questa concrezione impropria che non possiamo oltrepassare, perché è l'unica nostra proprietà, l'unico strato di esistenza che, per un certo intervallo di tempo, ci distingue dal nulla. Nulla è importante se non la vita”.
Nulla è importante se non la vita: è quello che potrebbe dire, che anzi ha detto, Covacich in tutti i suoi romanzi.
Questo articolo è uscito (con minime varizioni) il 18 luglio sul Bo, il magazine online dell'università di Padova, con il titolo Nulla è importante se non la vita.
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