Giulia Caminito
Il noto proverbio turco recita: chi non ha il pane, ma compra fiori è un poeta. Mario Dondero racconta che da bambino sua madre gli dava i soldi per il cappuccino e lui li spendeva sempre per un libro usato alla bancarella. Si definisce un grande lettore, a cui più volte è stato chiesto di scrivere libri. Finora però, tranne qualche racconto, ha preferito parlare con le immagini, narrando attraverso la fotografia quel mondo che con piacere aveva trovato tra le pagine. Ascoltare Mario Dondero (lo abbiamo avuto ospite da Plautilla il primo Luglio) è come immergersi in una vasca di immagini. Ci sono viaggi, memorie, persone, vite, ma soprattutto sguardi. Cosa vuol dire oggi raccontare per un fotografo e cosa ha significato finora?
La
fotografia, dice Mario Dondero, non si apprende da altri, come lo scrivere, lo
si impara dal guardare, dal saper cogliere, dall’immaginare. Servono le regole
grammaticali, le consulenze tecniche, la penna giusta e la giusta macchina
fotografica, ma l’occhio e la mano vivono per conto loro. Mario Dondero è stato
un giornalista che per caso ha iniziato a fare fotografie, perché era più
comodo farsi i reportage da solo che cercare un fotografo di professione. Poi
le immagini, la libertà, i viaggi, la voglia di raccogliere attimi storici su
pellicola sono diventate le nuove guide del suo percorso professionale. La
fotografia è divenuta per lui un lavoro serio, di quelli che all’inizio non si
arrivava a fine mese, perché i fotografi facevano la fame e quando si entrava
nelle redazioni rimanevano alla porta mentre il giornalista la varcava.
Socialmente poco protetti, sempre in pericolo di venir incolpati di
mistificazione, di aver costruito le loro foto, come il celebre miliziano di Robert
Capa, immortalato mentre la morte lo porta via.
Questo
mestiere per Dondero ha sempre avuto un ruolo sociale, anche quando la società
non lo considerava neanche un lavoro. Preservare la memoria delle persone
nell’impressione su pellicola, vincere il tempo per altro tempo e prolungare lo
sguardo più avanti. Ma non sempre raccontare è facile. Fin dove può spingersi
il fotografo? Quand’è che non può superare certi limiti? Per Mario Dondero il
fotografo deve essere spregiudicato, ma anche educato, paziente, rispettoso.
Deve ritagliarsi lo spazio d’azione senza pestare i piedi a nessuno. La
fotografia è relazione, un filo tra l’obiettivo e il soggetto, uniti nel lasso
di tempo di un click. Quella relazione va creata e nutrita, senza che il filo
venga tirato troppo, senza che diventi un rubacchiare immagini dalla realtà.
Non si
è mai asettici nel fotografare, clinici e spietati, perché secondo Dondero
la fotografia non è aggressiva, non è ladra della vita delle persone
o del mondo, ma custode forse, ancella della realtà. E il fotografo vive la
difficoltà di dover fotografare chi soffre: i malati, i morenti, i piangenti.
Una "bella" foto del dolore porta con sé il senso di colpa per averla
scattata. Ci vuole educazione e consenso, prima di scattare, saper preservare
quel momento per salvare la macchina fotografica da divenire un fucile puntato
contro l’intimità delle persone.
Bisogna
essere pronti a vivere la contraddizione e lo sconcerto per questa difficoltà.
Il fotografo deve saper rispettare
anche, forse soprattutto, se stesso e le proprie emozioni verso ciò che
incontra, la necessità di non fotografare ciò che ha di fronte. A Dondero è
capitato di recente durante il reportage al Porto di Genova che ha concluso da
poco. Il giorno del crollo della torretta non ha voluto fare fotografie perché
l’emozione era troppa. La sua, e quella della città.
Quando
si fotografano fatti di cronaca nera, quando si viaggia per le zone di guerra,
quando si collabora con associazioni di aiuti internazionali, i drammi a cui il
fotografo assiste non possono non coinvolgerlo. Instaurare legami con
realtà diverse impreziosendoli di gentilezza e interesse per il territorio
diventa allora la priorità. Un altro modo di avere cura, attraverso
l’obiettivo. Quando si incontra il pudore bisogna saperlo riconoscere e far
proprio per lasciare all’altro la propria libertà. La libertà delle zone
d’ombra, come foto non stampate e pulsanti non premuti.
Oggi
che tutti fanno fotografie, attraverso i cellulari e le condividono rapidamente
cosa si può dire del racconto per immagini? Per Mario Dondero le macchine
fotografiche digitali hanno reso la fotografia democratica e incredibilmente
celere. Per i giornali la possibilità di ricevere attraverso il web le immagini
è stata una grande rivoluzione. Ce lo dice un fotografo che era costretto a
stampare le sue foto nel bagno dell’albergo e cercare qualcuno che le facesse
viaggiare sul treno per portarle alla redazione del giornale, come un tempo si
consegnavano pacchetti al porto verso gli States per parenti emigrati in cerca
di fortuna.
Eppure
gli è rimasto l’amore per l’analogico, per la nascita della foto sotto gli
occhi di chi la stampa, per l’impossibilità di cancellarla e di poterla
guardare nella sua interezza solo mentre sta già apparendo, ormai stampata. Le
nuove tecniche però non vengono demonizzate. E in alcuni casi, come per esempio
quello del multi scatto, possono rivelarsi seducenti e impreviste. Sicuramente
il digitale ha portato a un surplus di immagini e di racconti, la foto privata
è stata sdoganata dagli album impilati nelle librerie da sfogliare insieme alla
domenica ed è approdata nello spazio web condiviso. Si può forse parlare di
eccesso di fotografia, una nuova fame quella per l’immortalità di ogni attimo,
non più solo quello scelto sapientemente con un click gentile.
Quindi
cosa si può consigliare oggi ai giovani che ancora vogliono fare i
fotografi? Immaginare. Fare leva sulle proprie conoscenze, investire energie in
progetti ragionati, in idee feconde maturate attraverso l’interesse, coltivate
fino a sentirle così a fondo da poterle trasformare in sguardi. La grande
fortuna dei fotografi viene anche dalla specializzazione, dal campo in cui ci
si applicano e dalla capacità di trovare una modalità d’espressione che sappia
raccontare bene, o meglio degli altri.
Di lui
spesso si è detto che è un fotografo letterario, specializzato in foto di
scrittori. Come la famosa foto del circolo del nouveau roman che
lo ha reso celebre in tutto il mondo. Ma sarebbe come dire che Doisneau è un
fotografo di baci. Dondero si definisce un onnivoro che ha amato fotografare i
mestieri, le ballerine, i paesaggi e persino le mucche. In ogni soggetto ha
trovato qualcosa da raccontare e conservare. Un fotografo libero che preferisce
la categoria dei freelance perché non lega la fotografia a una testata di
appartenenza e lascia libero anche lo sguardo di poter vagare su ciò che più lo
colpisce. Fare il fotografo ha significato per lui conoscere personaggi del
panorama intellettuale e politico mondiale, ma soprattutto viaggiare, molto e a
lungo.
Racconta
per esempio uno dei suoi ultimi viaggi in Russia, durato ben quarantacinque
giorni, alla ricerca di ciò che in quel Paese è rimasto del
Wellfare. Parla della Russia come di un luogo poetico e misterioso, ricco di follia.
Ed è proprio nel mistero che il fotografo raccoglie immagini.
Anche
nella fotografia bisogna sempre mettere in conto gli imprevisti e i cambiamenti
di percorso dovuti agli incontri e alle derive. Ma forse per questo la
fotografia, come ogni viaggio, ha ancora molto da dire e da raccontare anche
nell’era dell’esplosione visiva e turistica.
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