Maria Teresa Carbone
“Se
ho scelto di fare il fotografo e non il giornalista, è per pigrizia:
chi scrive deve faticare di più” dice Mario Dondero, e lo dice con
un tono così garbato e convincente, che quasi ti viene voglia di
credergli e di dimenticare che questo signore di 85 anni suonati
trascorre ancora gran parte della vita tra un treno e l'altro – e
quanto al passato, basta sfogliare Dalla
parte dell'uomo,
il catalogo della mostra che gli ha dedicato il Palazzo Ducale di
Genova nel 2012 (testi di Nanni Balestrini, Letizia Lodi, Massimo
Raffaeli, Rosaria Gioia, Edizioni Il Canneto) per accorgersi che di
posti nel mondo dove Dondero non è stato ce ne sono pochi. Il
contrario della pigrizia, insomma.
Eppure
qualcosa di vero c'è, nel suo desiderio di evitare gli sforzi
inutili, e te ne accorgi dal fatto che lui viaggia leggero, niente a
che vedere con il cliché del fotografo bardato di un ingombrante
armamentario, e più ancora dalla sua inclinazione per la mossa del
cavallo, quella che ti spiazza e riporta il gioco in mano a lui. Come
in questa intervista, dove le domande servono semplicemente come
segni di interpunzione in un flusso di parole che appartiene tutto a
Dondero, il quale (ha scritto Massimo Raffaeli) “così come ha
abolito la nozione di confine geografico, ignora a priori qualsiasi
gerarchia di classe e di genere”.
E che dunque, sovvertendo
l'ordine delle cose, esordisce prima ancora che gli sia stata rivolta
una domanda: “Nella mia vita ho fotografato migliaia di
manifestazioni, un po' perché i miei committenti erano per lo più
giornali di sinistra, un po' perché a Parigi, dove ho vissuto per
quarant'anni, abitavo in place du Temple e le manifestazioni
passavano sotto casa mia, per cui bastava che mi affacciassi alla
finestra e facessi clic. Ma in realtà, fotografare le manifestazioni
non serve, bisogna andare dove ci sono le cause delle manifestazioni,
in quelle fabbriche dove le persone stanno male per i vapori cattivi
che respirano, dove le donne perdono i capelli perché sono obbligate
tutto il giorno a stare con le cuffie di plastica in testa”.
Muoversi
di continuo, andare alle radici delle cose... Per un giovane
fotografo oggi, però, la situazione è più complicata, gli spazi di
movimento si sono ristretti.
Sì,
è così. Per chi comincia adesso e soprattutto per chi cerca di
muoversi liberamente, il mestiere è più difficile, forse anche più
pericoloso di un tempo. I giornali tendono a incastonarti in un ruolo
e se vuoi sopravvivere, ti tocca ubbidire. Per la verità, non è una
cosa nuova, è toccato anche a me in Francia, dove per anni sono
stato considerato il fotografo degli scrittori, perché ho scattato
una immagine, che poi è diventata celebre, con tutti i protagonisti
del Nouveau Roman. Ma io sono contrario a questa specializzazione,
che oggi è sempre più rigida e che corrisponde solo a esigenze
commerciali. Quello che interessa a me, è andare in profondità e
spesso, più del soggetto generale, sono i dettagli minimi a
raccontare meglio quello che accade.
Il
catalogo dell'esposizione genovese rispecchia una attenzione al mondo
che non si lascia ingabbiare dalle categorie: ci sono i ritratti di
scrittori e le foto di guerra, la stazioncina di Illiers cara a
Proust e i griots depositari della tradizione orale in Mali...
Per tanti anni mi sono rifiutato di fare mostre perché ti costringono a essere un certo giorno in un certo posto e puoi stare sicuro che quel giorno succederà qualcosa altrove e tu non ci sarai. Una delle prime, negli anni Ottanta, me l'hanno organizzata i ferrovieri, che insieme ai portuali sono i lavoratori che preferisco. Così ho scoperto che Il bello delle mostre è che ti permettono di colloquiare in modo più tranquillo con le persone. In fondo, il fotografo è un viaggiatore solitario, costretto a incontri e ad amori un po' casuali, ma il mondo è pieno di persone affascinanti che meritano di essere conosciute. Questa curiosità verso gli altri, del resto, è la molla che mi ha sempre guidato: penso che un bravo fotografo debba possedere una buona cultura generale, leggere tanto, informarsi il più possibile, ma la cosa davvero importante, quella senza la quale tutto il resto vale poco, è che deve amare il mondo. Il fotografo a cui fin dall'inizio ho cercato di ispirarmi, Robert Capa, è sempre riuscito a inserire nelle sue immagini una grande tenerezza, un senso di profonda umanità per le persone che ritraeva.
Per tanti anni mi sono rifiutato di fare mostre perché ti costringono a essere un certo giorno in un certo posto e puoi stare sicuro che quel giorno succederà qualcosa altrove e tu non ci sarai. Una delle prime, negli anni Ottanta, me l'hanno organizzata i ferrovieri, che insieme ai portuali sono i lavoratori che preferisco. Così ho scoperto che Il bello delle mostre è che ti permettono di colloquiare in modo più tranquillo con le persone. In fondo, il fotografo è un viaggiatore solitario, costretto a incontri e ad amori un po' casuali, ma il mondo è pieno di persone affascinanti che meritano di essere conosciute. Questa curiosità verso gli altri, del resto, è la molla che mi ha sempre guidato: penso che un bravo fotografo debba possedere una buona cultura generale, leggere tanto, informarsi il più possibile, ma la cosa davvero importante, quella senza la quale tutto il resto vale poco, è che deve amare il mondo. Il fotografo a cui fin dall'inizio ho cercato di ispirarmi, Robert Capa, è sempre riuscito a inserire nelle sue immagini una grande tenerezza, un senso di profonda umanità per le persone che ritraeva.
Il testo integrale di questa intervista a Mario Dondero si può leggere sull'ultimo numero della rivista "il Reportage", in uscita nei prossimi giorni in libreria.
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