martedì 26 novembre 2013

Voci lontane, sempre presenti / 1 (Valle Aurelia, Vittorio Mallozzi e altre cose)


G. Luca Chiovelli

[cliccare per ingrandire] [Qui la seconda parte]


Vi sono ancora luoghi, a Roma, che non hanno subito le ingiurie, o le gratificazioni, della modernità. Il viaggiatore che, senza fretta, si spinga fuori della città ricalcando i tragitti delle antiche strade consolari, o, meglio, si serva degli itinerari ferroviari, non tarderà a scoprirli: quasi inavvertiti all'occhio profano essi riservano, invece, piaceri nascosti all'iniziato, a mezzo fra l'ammirazione per le forme di ciò che non più e una nostalgia tanto più pungente in quanto non riusciamo a definirne la scaturigine.

Si pensi alla campagna romana, piatta e misteriosa, che atterrì Gioachino Belli, ai suoi casali scialbati presagiti dai portici in pietra, all'architettura di scalinate  che rifugge da qualsiasi utilità immediata, alle linee delle antiche coltivazioni, alla toponomastica che confessa, nonostante tutto, eventi ormai dimenticati. Orme di esistenze non più vissute e dileguate per sempre.
All'interno di Roma questi sortilegi stentano a presentarsi. Non parlo di luoghi consacrati alla celebrazione dell'antichità, debitamente catalogati (monumenti, cattedrali, edifici patrizi), dove il passato parla in modo mediato, addomesticato, dotto, ma di minuscole regioni in cui, nonostante il frastuono e la strafottente sbrigatività del quotidiano, esso traspare ancora immediato, fievole, agitato da un breve palpito.


Roma vista da Monte Ciocc

Di rado tali luoghi eccedono l'esigua vastità di una piazzola, d'un vicolo. Anzi, spesso si riducono a un archetto, a una targa settecentesca, a una finestra a colonnine, un'iscrizione murata, un affresco popolare sfibrato dalle intemperie. E, quasi sempre, pur visibili, rimangono nascosti all'occhio, come la casa maledetta e sfuggita di Lovecraft.
Nella periferia nord di Roma, fra i quartieri Prati e Primavalle, esiste una di queste regioni dell'anima. Valle Aurelia. Non la borgata di recente costruzione, ovviamente, ma ciò che resta di una comunità popolare ottocentesca ancora attiva nei primi anni del dopoguerra.

Valle Aurelia nacque come agglomerato di operai delle fornaci. 



Attorno agli opifici di mattoni e laterizi, all'ombra delle ciminiere, i lavoratori delle ceramiche (braccianti che sfuggivano alla fame dalle regioni attorno alla capitale, ma vennero giù pure dal Nord), presero a tirar su, come animali stanziali, le proprie tane, i propri rifugi. Non si limitavano a dormire e lavorare. Sentivano, con quella vaghezza teorica che forma, spesso, nella realtà vissuta, le legioni più quadrate, che il destino dell'uomo era in una patria superiore. Erano socialisti, comunisti, e piantagrane assortiti. E se la grande patria era avvolta nelle nebbie dell'avvenire (custodita dalle menti dei compagni che ne sapevano di più), la piccola patria dei lavoratori era li, a portata di mano. E infatti la costruirono proprio lì, pietra su pietra: mattoni, calce, malta, intonaco, non elementi estranei, ma gli stessi oggetti e lo stesso prezzo delle loro fatiche. Sorsero prima baracche, poi abitazioni vere e proprie, un vero borghetto di lavoratori. Valle Aurelia, già Valle dell'Inferno, secondo un'etimologia falsa, ma profondamente cara, che associa la terra del diavolo alle fiamme di quelle fornaci.
La Casa del Popolo
Valle Aurelia, la parte vecchia, si discosta dalle arterie cittadine per spegnersi alle pendici del parco della Pineta Sacchetti: dà quindi l'impressione d'esser quasi del tutto deserta, nonostante recenti ristrutturazioni. In tale immobilità silenziosa il passeggiatore immaginoso può, quindi, riascoltare le fatiche e speranze di molti e i sogni d'una vita decente; il passato, minuto e povero, parla tramite le cose grazie ai sortilegi della magia contagiosa: le ciminiere immobili che tagliano il cielo azzurro; le travature schiantate; la statua nell'edicola di san Giuseppe; le smussature delle pietre; i gradini; la piazzetta coi sampietrini consumati, sorvegliata misteriosamente da fichi selvatici, e solitaria come una tela di De Chirico; le stradine perpendicolari, gravide di un'attesa ritmata dallo stillicidio d'una fontanella che riesce dallo spesso perimetro d'un muro di cinta.
A questa atmosfera, sospesa sul ciglio d'una rivelazione impossibile, si arriva per gradi.
Il passeggiatore curioso può arrivare nella valle con mezzi moderni; la metropolitana A o la tratta Ostiense-Bracciano-Viterbo si intersecano nelle vicinanze, apportando quel vorticoso disordine che siamo abituati a chiamare efficienza.
Subito, però, appena scesi, l'occhio e il sentire subiscono le prime avvisaglie d'un mondo altro. Sulla sinistra, su due importanti vie parallele, Via Cipro e Via Angelo Emo, campeggia un ponte ferroviario abbandonato, residuo d'una linea morta agli inizi degli anni Trenta: sui binari rugginosi, sospesi a circa trenta metri, e ritenuti da bassi parapetti in muratura, bivaccano, quasi invisibili ai frettolosi, alcuni senzatetto.


Son quasi sempre occupati, a frugare gli angoli freddi della sopravvivenza: riadattare un bidone di alluminio, una graticola, un materasso. Ne vidi uno, anni fa, nero, barbuto, rincagnato, compreso nella via di fuga dei binari cespugliosi, che se stava li, sospeso su quelle campate possenti e derelitte dai tempi, sfregiato dal vento gelato, assolutamente immobile, a fissare lungamente quelle ferrate che si spegnevano nella galleria buia, quasi a presagire il fardello inutile della pena che gli mancava da scontare sulla terra; la terra maledetta. Binari che scorrevano paralleli, come la sua vita alle nostre, e di cui intuiva, forse, la metafora beffarda.

Quella galleria buca il fianco di Monte Ciocci, un'altura recentemente riadattata a parco urbano, sulla cui sommità, nel 1975, Ettore Scola fissò le immagini di Brutti, sporchi e cattivi, storie ulteriori di miseria bestiale e senza redenzione.

Per il borgo di Valle Aurelia occorre però scendere, sulla destra. Dopo poche centinaia di metri ci accolgono i piloni di un'altra ferrovia sopraelevata e abbandonata: la Flaminio-Vigna Clara, che entrò in funzione solo per qualche giorno durante i Mondiali del 1990. Ora riposa, residuo patente dello spreco, esposta alle piogge e ai predatori di metallo, figure post atomiche che popolano la nazione in disfacimento.



Ma questi piloni, monumentali come le vertebre d'un brontosauro tecnologico appena dissepolto, assolvono, nel nostro viaggiare, una funzione sacrale. Come l'atrio porticato d'una basilica antica, riparo ai penitenti e ai catecumeni, e passaggio, fisico e spirituale, fra mondo volgare e interno spirituale, così quelle colonne d'una religione insensata e materiale introducono definitive, come inconsapevoli colonne d'Ercole, a quel borgo fantasmatico, celato, già ora, ai frastuoni della città.

Subito notiamo il Viale di Valle Aurelia, lungo e diritto. Ai lati mura sbrecciate, innervate dalla vegetazione, che stritola dolce e implacabile le opere dell'uomo. Una vecchia iscrizione: un cancello sostenuto da colonne in pietra, un ex casale riadattato a magazzino. Si prosegue. A sinistra la vecchia casa del popolo, ancora di proprietà del comune. La casa è abitata. Ne escono abusivi motivi caraibici. Fuori, una congerie di giocattoli, ciarpame, assi di legno, una lavatrice arrugginita, ma ancora attiva; da improvvisati fili di nylon pendono lenzuola immacolate, gonfiate da un vento fresco e docile, come vele tranquille di un battello corsaro. Immigranti, i nuovi fornaciai. Si spostano silenziosi all'interno; ne sento i tramestii, le figure che passano svelte inquadrate dalle finestre. Solo donne. Probabilmente, nei loro andirivieni casalinghi, passano indifferenti di fronte alla lapide che ricorda i morti di Valle Aurelia. I cinque resistenti del borgo uccisi durante l'occupazione tedesca, i Martiri di Valle Aurelia: Alberto Cozzi, diciannove anni, meccanico, ammazzato alle Fosse Ardeatine, assieme a Vittorio Fantini e Andrea Casadei, beccati per una delazione vicino casa, a Vicolo dei Fornaciai; e poi Augusto Paroli  e Vittorio Mallozzi, fucilati a Forte Bravetta.



Mallozzi era un bel tipo. Fornaciaio, nel 1936 si arruolò nelle Brigate Internazionali, in Spagna, per combattere i nazionalisti di Franco e il fronte nazifascista suo alleato. La guerra civile di Spagna, i bianchi e i neri contro i rossi: anarchici, socialisti, comunisti; sì, quella di Guernica; quella del quadro di Picasso che possiamo acquistare comodamente in carta lucida e che esorna, in copia ovviamente, le distratte aule del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, a New York. Mallozzi, che, mentre combatteva, ignorava il futuro, l'Onu e, forse, pure il compagno Picasso, partecipò alla difesa di Madrid, e fu a Guadalajara, quando il Fronte Popolare, fra cui militava il comandante Ilio Barontini (un nome che era, esso stesso, una guerra) sostenne l'urto dei franchisti e dei volontari italiani, guidati dai generali del Regio Esercito Mario Roatta e Annibale ‘barba elettrica’ Bergonzoli. Fu una guerra fra spagnoli, ma anche una guerra, civile, fra italiani. In un incidente Vittorio perse l'uso d'una gamba; fatto prigioniero, fu confinato al campo di Le Vernet d'Ariège assieme a Longo, Valiani e Pajetta. Rispedito in Italia, marcì a Ventotene, sino all'8 settembre 1943, giorno dell'armistizio; o della calata di brache, a seconda dei gusti. Libero, prese a battere la strada della resistenza urbana: sabotare, boicottare, rendere la vita difficile. In città non ci si scontra a viso aperto, non si offre il petto nudo al nemico come in un quadro oleografico, tutti lo sanno, lo sapevano pure quei bei tipi del Risorgimento, ecco perchè bazzicavano la Massoneria, altro che il procomberò sol io di quell'anima bella di Giacomino Leopardi. Vacci tu a procombere, gli avrebbero detto quelle canaglie, con un piede di là e uno di qua, perché nella guerriglia a volte si spara, a volte ci si imbosca.

La seconda ciminiera

A Roma, nei primi mesi del '44, si opera sottotraccia, si fa il doppio gioco, si ruba, si inganna, si passa sotto il naso; ci si insinua, lenti, nelle istituzioni, nei trasporti, nelle stamperie, a costo di farsi la nomea di banditi, di vigliacchi. E si delimitano melliflui i porti franchi: a Valle Aurelia ci si nascondeva bene, ci si nascondeva a centinaia (quanti? Trecento, quattrocento?) e a Valle Aurelia neanche i nazisti entravano per lo scontro aperto. Si preferivano le spie. E furono le spie a far beccare Mallozzi. Allora le notizie non circolavano. Vittorio sparì per un mese; e riapparì, da morto, in un trafiletto delle edizioni del pomeriggio. Fu così che si seppe della morte del partigiano medaglia d'oro Vittorio Mallozzi; e lo venne a sapere pure un altro compagno, il trentenne Vasco Pratolini:

‘Il compagno piu caro, un fornaciaio, colui  che aveva ... dato una disciplina al nostro entusiasmo, alle nostre stesse discussione ideologiche; colui che ci aveva organizzato nel nostro ardore ... fu arrestato a dicembre ... di ciascuno di noi conosceva vita, morte e miracoli ... Ma nessuno di noi pensò a trovarsi un rifugio diverso, di trasportare le armi, di cambiare deposito. Avrebbero potuto scorticarlo vivo, era sicuro; avrebbe detto ahi, forse, non altro ... Passò un mese preciso, era il 31 gennaio ... Faceva freddo, sui viali della periferia tirava un vento diaccio che pigliava allo stomaco. A mezzogiorno mi incontrai col compagno che curava l'organizzazione militare del settore: uno studente in medicina ... Un cuore allegro; con lui si rideva ...[all'edicola] comprammo ciascuno una copia e subito ... cadde lo sguardo su un neretto di prima pagina che recava i nomi di dieci patrioti fucilati. Vittorio Mallozzi era il terzo della lista. Io sentii un freddo più intenso; quando si dice che il sangue gela nelle vene, ora so che è una cosa reale ... Guardai il mio compagno ... Aveva gli occhi lustri. Lui parlo per primo. Disse: ‘Ammapelo! Annamo bene, annamo!’ La sua voce era strozzata”

Vittorio Mallozzi venne fucilato a forte Bravetta dalla PAI, Polizia dell'Africa Italiana, perché in Africa, nel 1944, non avevamo più nulla da difendere e i residui dell'Impero li spedivano qua a sbarcare il lunario.
E cosi finì la vita del partigiano Mallozzi, che, dalle mie parole, sembra infinita, ma che si spense a trentacinque anni. Non tutte le vite si assomigliano, e quella di Vittorio Mallozzi potrebbe ingoiare centinaia delle nostre.




Il casale abbandonato
Il ponte ferroviario anni Trenta

3 commenti:

  1. Sì, non c'è bisogno della firma, la scrittura tradisce il suo autore, però almeno per il lettore occasionale, una sigla, un nom de plume, Alceste come negli ultimi tempi, sarebbe opportuno.
    Di questi pellegrinaggi alle porte di Roma, delle puntate successive, che ci auguriamo in gran numero, Monteverdelegge potrebbe trarre un libretto...
    P.S. Il povero fornaciaio ignorava il compagno Picasso e per fortuna ignorava anche che in quei medesimi giorni della Roma 'città aperta', nella Parigi occupata il sommo artista spagnolo riceveva con grande cordialità nel suo studio - secondo la testimonianza di Ernst Iünger - gli ufficiali tedeschi più sensibili alla pittura, attatto dagli elogi di militari assai colti, dimentico dei bombardamenti durante la guerra civile spagnola che gli avevano ispirato quel quadro brutto quanto di facile fama.

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    1. Jünger è più affidabile di Céline e gli crediamo.
      Quanto a Picasso: gli concediamo corrispondenza d'artistici sensi fra nemici, come ne La grande illusione il francese e il tedesco, entrambi aristocratici, si apprezzano su un terreno comune.
      E posso aggiungere questo: che il compagno Picasso, rispetto agli attuali gaglioffi, aveva il pregio d'essere Picasso.

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  2. La mancanza di firma sarà un refuso, un errore di stampa, di battitura al computer (che ne permette tanti), come quelli che costellano il mio commentino qui sopra. Almeno due da corregger subito per renderlo comprensibile: si legga dunque 'da questi pellegrinaggi, dalle puntate successive, Monteverdelegge potrebbe trarre ecc. ecc.'. E 'attatto' sta per 'attratto'. Spesso al pc si clicca e poi si rilegge.

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