Gravity (Usa 2013)
Regia: Alfonso Cuarón
Con Sandra Bullock e George Clooney
Maria Teresa Carbone
Per
molto tempo, con alcune notevoli eccezioni che portavano appunto, ben
visibile, il marchio di una eccezionale grandeur, la
durata media di un film si è tarata intorno ai novanta minuti. Era
una misura ragionevole, che consentiva a chiunque di infilarsi in un
cinema durante un'ora buca del pomeriggio, o di andare all'ultimo
spettacolo tornando a casa in metrò. Era, anche, l'incarnazione
dell'idea che la vita è la vita e il cinema è il cinema (è il
cinema). E un'ora e mezza basta e avanza per un oggetto che è,
statutariamente, bigger than life. Poi, a un certo punto che
potremmo individuare nei fatidici anni Ottanta, i film – parliamo
naturalmente dei film Usa, ma presto il contagio si sarebbe diffuso
ovunque – hanno avuto bisogno, per dimostrare che c'erano (cioè,
in termini economici, che valevano il costo del biglietto) di
gonfiarsi, di crescere, di raggiungere e superare le due ore, di
passare da uno status di – apparente – interstizio a quello di
“divertimento” a parte intera.
Quello
che è accaduto in seguito – l'ulteriore dilatazione del tempo
cinematografico nella versione home video con l'agglutinarsi dei vari
extra, la sua successiva esplosione nella miriade di frammenti di
Youtube – è sotto i nostri occhi. A contare qui, per il piccolo
discorso che si intende fare, è che Gravity di Alfonso Cuarón
dura novanta minuti.
È, dunque, già a partire dalla misura, un film
antico. Così come è antico, e insieme ineludibilmente
contemporaneo, il suo essere girato per intero – a parte l'ultima
sequenza – in uno studio cinematografico (due per l'esattezza,
Pinewood e Shepperton).
Nulla
di quello che vediamo è “vero”: non l'immensa terra vista dallo
spazio, che spesso riempie, ferma e mutevolissima, l'intero schermo,
non le immagini che si riflettono sui caschi degli astronauti Sandra
Bullock e George Clooney, non i detriti che colpiscono come
proiettili micidiali la navicella, non la danzante apesanteur
all'interno del veicolo spaziale. E non solo tutto questo non è
“vero”, perché è stato realizzato grazie a un uso sapiente
delle tecnologie digitali, ma anche – soprattutto – perché
Cuarón e i suoi collaboratori erano perfettamente consapevoli di, e
determinati a, girare un film, quell'altro reale di cui ha
scritto Edoardo Bruno in un libro del 1978, che meriterebbe di essere
riportato oggi all'attenzione dei lettori.
Accantonate
quindi rapidamente le critiche pedestri degli scienziati veri e
presunti che hanno rimproverato a Gravity le sue, sicuramente
innumerevoli, “inesattezze”, possiamo vedere nel film di Cuarón
un oggetto cinematografico che, come lo Hugo di Scorsese (non
a caso girato negli stessi studios britannici), si proietta
nel futuro, non dimenticando neanche per un attimo la sua storia, a
partire dal grande padre Méliès e dal suo Voyage dans la Lune.
Il viaggio in una dimensione sincrona, dove la corsa solo apparente
della freccia del tempo abbraccia i segnali dei satelliti spaziali e
il latrato primordiale dei cani da slitta è (anche) il viaggio del
cinematografo, un viaggio che – proprio come quello dell'eroina del
film – impone la fatica di una continua rinascita, così come
faticosi e goffi sono i passi di Sandra Bullock sulla terra, la
gravità, finalmente riconquistata.
Novanta
minuti è, anche, la durata di un'orbita intorno alla terra della
Stazione spaziale internazionale: un giorno in un'ora e mezza, la
durata del film.
non ho visto il film...ma la recensione è bellissima. lascia in bocca il sapore della pellicola, di tempo magico...andrò a vederlo. grazie Maria Teresa:-)
RispondiElimina