Un'intervista a uno scrittore famoso può riservare sorprese non sempre gradevoli. Ne sa qualcosa Luciano Minerva (autore di Una vita non basta, al centro di una recente conversazione da Plautilla) che, come potete leggere nel racconto inedito qui sotto, di fronte a Doris Lessing è stato colto da un attacco di panico, decisamente insolito per un giornalista culturale di lunga esperienza come è lui.
Luciano Minerva
Tra le
oltre 150 interviste a scrittori di tutto il mondo che ho avuto
l’occasione e la fortuna di fare nell’arco di otto anni, una sola
mi ha portato a scrivere un racconto: quella con Doris Lessing, al
Festivaletteratura di Mantova del 2004, tre anni prima
dell’assegnazione del Nobel. E’ un
racconto che ho scritto subito, a caldo, nelle tre ore successive,
scusandomi con la scrittrice che avrei dovuto intervistare nel
pomeriggio e annullando l’appuntamento con lei. Un racconto
terapeutico, da post-trauma. Perché l’intervista con Doris Lessing
per me è stata un vero trauma, anche se forse dal risultato del
video che ne è venuto fuori non appare, perché il suo mestiere di
scrittrice e la mia esperienza di intervistatore hanno permesso che
qualcosa di discreto e di accettabile, persino interessante, ne
venisse comunque fuori. Ma se non avessi scritto questo racconto,
guardandomi dall’esterno e prendendomi un po’ in giro, forse non
avrei più potuto affrontare nessuno scrittore davanti alle
telecamere senza una grande paura. Per lei ero uno di quei mille
giornalisti di cui parla in questa stessa intervista. Per me no. E
l’ho sempre ringraziata, dentro di me, per avermi offerto
quest’occasione e quest’esperienza. Doris Lessing resta e resterà
per me una scrittrice unica.
La
goccia di sudore scende sulla tempia destra, quella rivolta verso il
muro, nascosta alla vista di chi mi sta dietro. Ma lei, che mi è di
fronte e che da sempre nota ogni dettaglio della realtà che la
circonda, la vede di certo. Sono passati tre minuti dall’inizio
dell’intervista, mi ero già asciugato poco fa il sudore per la
corsa dal centro stampa al mio albergo, dal mio albergo al centro
stampa dal centro stampa al suo albergo. Cinque minuti di ritardo
sull’appuntamento, troppi per un’intervista per cui te ne hanno
concessi quarantacinque comprensivi di presentazioni piacere come sta
mi hanno molto colpito le cose che ha scritto le dico un attimo di
che programma si tratta eccetera eccetera. Un file dimenticato sul
computer, quello con gli appunti per l’intervista, via di corsa
verso il computer poi alla stampante poi all’appuntamento. In
ritardo. E col fiatone. Avevo provato a fare qualche respiro
profondo, ma il rosso del viso non posso mascherarlo. “Non correre!
non sudare! Lo vedi che diventi tutto rosso?” Avrei dovuto capirlo
già da quando me lo diceva mia madre, con le buone o con le cattive,
che non dovevo sudare, a costo di non giocare a pallone. “Quando
cominci a sudare devi smettere.” Chissà perché ce l’aveva tanto
col sudore e col rosso, e chissà come facevo a lasciare la partita
in cortile, a salutare tutti lasciando la squadra con uno in meno,
per quanto schiappa fosse. E chissà come ha fatto lei a non sudare
mai in una vita fatta tutta di corsa e senza mai perdere un attimo di
tempo perché il tempo è denaro e come il denaro va risparmiato fino
all’ultima goccia.
La
goccia intanto scende, appoggio leggermente una mano sul bracciolo
della poltroncina perché si fermi e non prosegua nel suo cammino
verso il collo e l’interno della camicia. “Ma era un'intervista
televisiva?” mi aveva chiesto cinque minuti prima, subito dopo la
stretta di mano formale e il sorriso di pura cortesia. “Sì, non
gliel’avevano detto?” “No, ma quanto dura?” “Il programma
finito dura dodici minuti, ma di solito la conversazione dura trenta
– quaranta minuti … “ Dunque tagliate” e fa un gesto
eloquente con le dita, quello delle forbici.” Sì, ma solo per il
video. Tutto quello che lei dirà, l’intervista integrale, andrà
su internet.” La lezione materna (lei che racconta sempre
l’infanzia dei suoi personaggi me lo insegna) mi è rimasta
impressa: non si butta nulla, si conserva tutto, non si sa mai, può
sempre servire. Internet è una cabina guardaroba illimitata, non è
come l’armadio di casa, dove non c’è mai posto per una giacca
nuova e allora non la ricompri finché non ne puoi buttare una. Lì
ci puoi mettere dentro tutto, parola per parola, magari nessuno userà
mai niente, ma almeno non butti niente, non si sa mai può sempre
servire a qualcuno.
Dunque
la famosa scrittrice non sapeva delle telecamere, chissà se avrebbe
voluto truccarsi, ma non fa una piega, si siede sulla poltroncina un
po’ scomoda e si sottopone per la millesima volta al solito rito:
il ricevitore piazzato sulla poltrona, il filo che le passa sotto la
camicetta, le mani del tecnico attente a non toccare, prego faccia da
lei, il microfono che rispunta fuori poco sopra il seno e viene
clippato sul colletto. Dica qualcosa. Uno due tre prova. “Le
spiego la nostra tecnica di ripresa delle interviste. Le farò prima
la domanda in inglese, poi prima di rispondere dovrà attendere la
mia domanda in italiano. Questo è meglio per la versione italiana.”
Stai zitto, cosa c’entra la versione italiana? Ne hai mai fatta una
in inglese? E’ chiaro che lei ti chiede subito qualcosa sulla
versione inglese, gliel’hai suggerito tu. Ma cosa dice? Qualcosa
che riguarda l’inesistente versione inglese, non capisco bene, ma
preciso. “No, abbiamo solo la versione italiana. Ma se lei non
capisse la mia domanda, se il mio inglese fosse poco comprensibile,
anzi mi dispiace I dislike so much di non parlare un inglese come lei
si meriterebbe, ecco in caso mi fermi, stop". Mi aiuto con la mano,
stop si capisce sempre però mi viene naturale alzare la mano destra
e aiutarmi col linguaggio del corpo, lo fa anche chi telefona in
treno per la strada al ristorante. Dunque mi fermi, non abbia
problemi.
Sarà
almeno la mia ventesima intervista in inglese, non ho mai avuto
difficoltà particolari, le parole sconosciute delle domande me le
cerco prima e me le appunto, se non capisco qualche parola delle
risposte non importa, il senso generale mi arriva sempre e non mi
sfugge, mi basta per legare la domanda successiva o per cambiarla
all’ultimo momento. Una volta in Giamaica ho persino risposto io a
un’intervista in inglese, stando per la prima volta dall’altra
parte. “Come state realizzando questo filmato su Ben Johnson?” E
avevo spiegato con una certa ricchezza di particolari il progetto, il
lavoro della troupe, l’interesse per il loro eroe. Del doping non
si sapeva ancora nulla o non si voleva sapere. E allora era eroe per
la Giamaica (jamaican born) e per il Canada, lieto di ospitare e di
incamerare medaglie e ricevere in Parlamento l’uomo più veloce del
mondo. Poi, appurato che prendeva medicine per cavalli, nessuno l’ha
più voluto rivendicare come suo. Ma lo sport ormai è acqua passata,
la lingua con cui hai a che fare oggi è quella dei letterati, di chi
la maneggia, la plasma, la modella meglio di tutti.
Silenzio,
pronti, si gira. Mi devo subito portare in vantaggio, farmi
apprezzare, far capire che mi preparo, io, che i quattro libri che ho
sparso ben in vista sul tavolo con i fogliettini gialli a segnare le
pagine li ho letti. Anche se staccavo spesso gli occhi dalle pagine
per guardare le Olimpiadi e gli eredi di Ben Johnson, le mie belle
millecinquecento pagine me le sono digerite. Certo, nulla in
confronto alle centomila che avrà scritto in vita sua, ma cosa c’è
di meglio della lettura di una autobiografia torrenziale per cogliere
il nocciolo dei suoi cinquant’anni di scrittura? Dunque, signora,
non si aspetti di trovarsi davanti quel modello di giornalista che si
trova in troppi racconti, anche suoi, in romanzi, confidenze,
esperienze dirette, che dà una scorsa alla quarta di copertina e
apre qualche pagina a caso per darsi un’idea e poi fa la domanda
più neutra possibile. No, io, signora, sono preparato. E anche
particolarmente acuto e intelligente. Vedrà anche lei, nonostante
l’esperienza navigata e la corazza che indossa (a proposito, poi ne
parliamo).
Prima
domanda. (Sono certo che questo nessuno l’avrà notato). Prima la
versione inglese. “Nel distico che precede entrambi i volumi della
sua autobiografia lei cita un autore della terra dove è nata,
l’Iran. E’ come un ritorno alle origini?” La risposta è
prontissima, senza aspettare la versione italiana, lo sguardo
maschera una certa supponenza, il sorriso racconta la compassione:
“Idris Shah non è iraniano, è afgano”. Come ho potuto non
controllare. Come ho potuto pensare che chiunque studi il sufismo sia
iraniano perché i maestri sufi dei secoli passati erano persiani.
Come ho potuto non dare un’occhiata ai suoi libri che ho a casa.
“…Volevo dire il sufismo, la Persia, quella cultura”, lo
specchio su cui provo ad arrampicarmi non mi regge. Il sorriso adesso
mi pare stranamente appena un po’ più comprensivo e sincero. “Non
importa, era una domanda di prova, un test. Ricominci da un’altra
cosa.” Provo a riprendermi. “Ok, the second
first question.” A quel punto la goccia di sudore si
affaccia sulla tempia e scende fino alla mia mano gelando ogni
velleità di scioltezza e di spirito. Provo a respirare, forse. Ma
non mi viene, devo passare subito alla seconda domanda, per
recuperare un po’.
“La
guerra. Ecco. Lei dice di essere figlia della guerra e che siamo un
po’ tutti figli della guerra. Però dice anche che i movimenti
della pace da soli non bastano perché non sono i movimenti pro o
contro la guerra a determinare la direzione degli eventi…". “Mi
sta chiedendo se sono pacifista?” “No, no, (ecco, adesso pensa
che sono il solito giornalista che vuole risposte politiche e
sull’attualità) mi dica, è vero che siamo tutti figli della
guerra?” Se lo scrive, se lo ha scritto più volte, se ha
analizzato la storia dei movimenti dove tutto si deteriora perché
non sappiamo imparare dalla storia e non ci basta la prima guerra
mondiale né la seconda e se pensa che l’Europa deve aspettarsi una
prossima guerra in casa me lo saprà pure dire bene, riassumere
meglio di come non sappia fare io. Risponda, la prego, mi aiuti.
La
risposta, la prima risposta inglese alla domanda italiana arriva.
Comincia a parlare, ma un po’ troppo rapidamente, quasi dentro se
stessa, con una voce che mescola pronuncia stretta mal di gola e
problemi di dentiera. Faccio fatica a capire quello che dice, provo a
cogliere qualcosa di più dall’espressione, ma l’espressione è
color neutro inglese. Delle parole quasi nulla. E’ come aver
dimenticato all’improvviso l’inglese che so o che sapevo, quello
che ho ascoltato centinaia di volte, quello che ho già usato nelle
interviste, persino con quel mostro sacro che aveva sceneggiato Ben
Hur e aveva scritto di non poter sopportare i giornalisti perché
erano impreparati e non conoscevano l’inglese, la conversazione era
decollata subito dalla prima domanda azzeccata, era scivolata via
come l’olio e mi aveva fatto sentire promosso all’esame più
difficile. Ma allora non ti ricordi Eduardo, gli esami non finiscono
mai, e tu sei qui di fronte a un altro mostro sacro e dovresti aver
preparato tutto e non hai imparato che non si arriva di corsa agli
appuntamenti, perché sudi, diventi rosso, non respiri bene e ti
presenti male. Fai brutta figura, il massimo del disonore per mamma e
papà. Ma adesso non penso alla figura, penso a come portare a casa
l’intervista. Vai avanti non pensarci. Il primo ostacolo sembra
superato, passo all’altra domanda, lei accenna un sorriso, alla
terza risposta sembra essersi sciolta. Ma cosa starà dicendo, cosa
sta rispondendo alla mia domanda quasi spiritosa sulla corazza che si
mette addosso nelle interviste, quando si protegge e indossa la
maschera pubblica che ha poco a che vedere con la sua persona? Non
so, ma adesso non importa, l’importante è andare avanti. Se
riuscissi a stare più attento forse capirei meglio quello che dice e
potrei legarmi alle sue parole per andare avanti. Il sogno. E’ il
momento del sogno, lei dice che ha sogni ricorrenti, come quello
della lucertola. La lucertola!!!! Come si dice lucertola in inglese?
Perché questa volta non ho cercato le parole-chiave sul vocabolario?
Neppure su quello nuovo che ho comprato qui, sette euro e mezzo, più
sette e mezzo per quello francese, che l’ho comprato a fare. Ce
l’ho in borsa ma mi sembra brutto aprirlo adesso nel bel mezzo
dell’intervista per cercare il nome di una lucertola uscita da un
sogno che non è neanche mio. Mi giro indietro verso i pochi
spettatori che mi hanno chiesto il permesso di seguirmi. Lo chiedo a
loro, fin qui non li ho nemmeno sentiti. “Lizard” mi dicono. Io
capisco lucert e lo ripeto, ma va bene lo stesso, lei si ricorda i
suoi sogni e risponde. Poi mi diranno, mia figlia per prima, che
tremavano e tifavano tutti per me. La mia tensione moltiplicata per
quattro e neppure la sentivo.
Il
mio inglese fa sempre più acqua, anche la lucertola è passata,
adesso la scrittrice mi sta addirittura raccontando il suo sogno
ricorrente di questo periodo, quello di un lupo rosso, che in un
sogno inglese va tradotto con “volpe” e di una donna che la
fronteggia con sempre maggior sicurezza. Beata quella donna.
Prestatemi la sua pelle o almeno quella del lupo rosso -volpe, fatemi
uscire da questo incubo. Gocce di sudore non ce ne sono più e anche
se ci sono non me ne accorgo, il mio volto deve essere tra lo
spaventato e il terreo, ammesso che ci sia differenza di graduazione
tra il volto spaventato e quello terreo. Lascio stare i fogli degli
appunti, provo ad essere il più naturale possibile. A ricordarmi
qualcosa. Eppure avevo studiato tanto, ero preparato, mi pareva di
averla capita, di poter fare i collegamenti giusti. Ma intanto
continuo a non capire quasi nulla di quello che dice. Perdo il filo
ma devo infilare un’altra domanda senza fermarmi.
“Un
suo libro è stato un manifesto per il femminismo, ma poi lei con il
femminismo è stata molto critica.” “No, io sono stata critica
con molte donne che hanno aderito al femminismo.” “Bene, ci
riassume queste critiche?” Ampi gesti con entrambe le braccia. “Ci
vorrebbero due giorni”. Scusi, andiamo avanti, magari facendo
riferimento al suo ultimo libro. “Le sembra giusto che gli anziani
(the old people sarà esatto?) siano considerati una categoria, un
mondo a sé?” Ormai l’ho fatta, ma cosa c’entra? Perché
gliel’ho fatta, così e adesso? Le ho dato praticamente della
vecchia, a lei che a ottantacinque anni si ostina a dire che si sta
avvicinando alla vecchiaia. Fatemi uscire. Datemi dell’acqua. O
almeno un sorriso. O il segno che mancano cinque minuti alla fine.
Eccolo. Si affaccia la sua editor, appare nello specchio che sta
dietro la scrittrice. “Stop. Si è visto qualcuno nello specchio,
dobbiamo ripetere. Signora, per favore, può ripetere la sua
risposta?”
“Certo”
(purché si finisca). Anche gli ultimi cinque minuti scorrono tra le
mille domande che mi si affacciano in disordine alla mente senza
riuscire ad incrociarsi in parole sensate e le sue ultime stanche, e
per me incomprensibili, risposte. Non si preoccupi signora, qui non
si butta nulla, le sue parole tradotte da chi capisce l’inglese
finiranno in Internet, le mie no, c’è sempre modo di aggiustarle,
dopo. Magari ne verrà pure fuori una bella intervista. In fondo lei
dice sempre cose intelligenti e io posso tagliare a dovere le mie
domande, o farle scomparire.
Ci
alziamo. Mi viene in mente Troisi: “Perché non leggi?” “Perché
io sono uno e loro sono tanti, non ce la farò mai a leggere tutto.”
Grazie
molte, signora, mi scusi, avevo letto troppo e non ho saputo
riassumere in mezz’ora. Allarga le braccia. Dice qualcosa che
riguarda the questions. “Those were the questions” potrebbe aver
detto, o una cosa del genere, perché non so se nel suo inglese che
fa scuola nel mondo “quelle erano le domande” si dice in un altro
modo. Io ho fatto del mio meglio, voleva dire, ma … the questions
le ha fatte lei.
Grazie,
signora. L’ho letta volentieri, anche se è un po’ prolissa, e mi
ha convinto a riiscrivermi al British.
grazie del racconto e anche dell'intervista!
RispondiEliminaho molto sorriso leggendo il racconto, un sorriso empatico: come la capisco!
molto divertente benché vagamente.... ansiogeno
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