giovedì 21 novembre 2013

Doris Lessing, l'intervista buttata al vento


Un'intervista a uno scrittore famoso può riservare sorprese non sempre gradevoli. Ne sa qualcosa Luciano Minerva (autore di Una vita non basta, al centro di una recente conversazione da Plautilla) che, come potete leggere nel racconto inedito qui sotto, di fronte a Doris Lessing è stato colto da un attacco di panico, decisamente insolito per un giornalista culturale di lunga esperienza come è lui.

Luciano Minerva
Tra le oltre 150 interviste a scrittori di tutto il mondo che ho avuto l’occasione e la fortuna di fare nell’arco di otto anni, una sola mi ha portato a scrivere un racconto: quella con Doris Lessing, al Festivaletteratura di Mantova del 2004, tre anni prima dell’assegnazione del Nobel. E’ un racconto che ho scritto subito, a caldo, nelle tre ore successive, scusandomi con la scrittrice che avrei dovuto intervistare nel pomeriggio e annullando l’appuntamento con lei. Un racconto terapeutico, da post-trauma. Perché l’intervista con Doris Lessing per me è stata un vero trauma, anche se forse dal risultato del video che ne è venuto fuori non appare, perché il suo mestiere di scrittrice e la mia esperienza di intervistatore hanno permesso che qualcosa di discreto e di accettabile, persino interessante, ne venisse comunque fuori. Ma se non avessi scritto questo racconto, guardandomi dall’esterno e prendendomi un po’ in giro, forse non avrei più potuto affrontare nessuno scrittore davanti alle telecamere senza una grande paura. Per lei ero uno di quei mille giornalisti di cui parla in questa stessa intervista. Per me no. E l’ho sempre ringraziata, dentro di me, per avermi offerto quest’occasione e quest’esperienza. Doris Lessing resta e resterà per me una scrittrice unica.
 
La goccia di sudore scende sulla tempia destra, quella rivolta verso il muro, nascosta alla vista di chi mi sta dietro. Ma lei, che mi è di fronte e che da sempre nota ogni dettaglio della realtà che la circonda, la vede di certo. Sono passati tre minuti dall’inizio dell’intervista, mi ero già asciugato poco fa il sudore per la corsa dal centro stampa al mio albergo, dal mio albergo al centro stampa dal centro stampa al suo albergo. Cinque minuti di ritardo sull’appuntamento, troppi per un’intervista per cui te ne hanno concessi quarantacinque comprensivi di presentazioni piacere come sta mi hanno molto colpito le cose che ha scritto le dico un attimo di che programma si tratta eccetera eccetera. Un file dimenticato sul computer, quello con gli appunti per l’intervista, via di corsa verso il computer poi alla stampante poi all’appuntamento. In ritardo. E col fiatone. Avevo provato a fare qualche respiro profondo, ma il rosso del viso non posso mascherarlo. “Non correre! non sudare! Lo vedi che diventi tutto rosso?” Avrei dovuto capirlo già da quando me lo diceva mia madre, con le buone o con le cattive, che non dovevo sudare, a costo di non giocare a pallone. “Quando cominci a sudare devi smettere.” Chissà perché ce l’aveva tanto col sudore e col rosso, e chissà come facevo a lasciare la partita in cortile, a salutare tutti lasciando la squadra con uno in meno, per quanto schiappa fosse. E chissà come ha fatto lei a non sudare mai in una vita fatta tutta di corsa e senza mai perdere un attimo di tempo perché il tempo è denaro e come il denaro va risparmiato fino all’ultima goccia.

La goccia intanto scende, appoggio leggermente una mano sul bracciolo della poltroncina perché si fermi e non prosegua nel suo cammino verso il collo e l’interno della camicia. “Ma era un'intervista televisiva?” mi aveva chiesto cinque minuti prima, subito dopo la stretta di mano formale e il sorriso di pura cortesia. “Sì, non gliel’avevano detto?” “No, ma quanto dura?” “Il programma finito dura dodici minuti, ma di solito la conversazione dura trenta – quaranta minuti … “ Dunque tagliate” e fa un gesto eloquente con le dita, quello delle forbici.” Sì, ma solo per il video. Tutto quello che lei dirà, l’intervista integrale, andrà su internet.” La lezione materna (lei che racconta sempre l’infanzia dei suoi personaggi me lo insegna) mi è rimasta impressa: non si butta nulla, si conserva tutto, non si sa mai, può sempre servire. Internet è una cabina guardaroba illimitata, non è come l’armadio di casa, dove non c’è mai posto per una giacca nuova e allora non la ricompri finché non ne puoi buttare una. Lì ci puoi mettere dentro tutto, parola per parola, magari nessuno userà mai niente, ma almeno non butti niente, non si sa mai può sempre servire a qualcuno.
Dunque la famosa scrittrice non sapeva delle telecamere, chissà se avrebbe voluto truccarsi, ma non fa una piega, si siede sulla poltroncina un po’ scomoda e si sottopone per la millesima volta al solito rito: il ricevitore piazzato sulla poltrona, il filo che le passa sotto la camicetta, le mani del tecnico attente a non toccare, prego faccia da lei, il microfono che rispunta fuori poco sopra il seno e viene clippato sul colletto. Dica qualcosa. Uno due tre prova. “Le spiego la nostra tecnica di ripresa delle interviste. Le farò prima la domanda in inglese, poi prima di rispondere dovrà attendere la mia domanda in italiano. Questo è meglio per la versione italiana.” Stai zitto, cosa c’entra la versione italiana? Ne hai mai fatta una in inglese? E’ chiaro che lei ti chiede subito qualcosa sulla versione inglese, gliel’hai suggerito tu. Ma cosa dice? Qualcosa che riguarda l’inesistente versione inglese, non capisco bene, ma preciso. “No, abbiamo solo la versione italiana. Ma se lei non capisse la mia domanda, se il mio inglese fosse poco comprensibile, anzi mi dispiace I dislike so much di non parlare un inglese come lei si meriterebbe, ecco in caso mi fermi, stop". Mi aiuto con la mano, stop si capisce sempre però mi viene naturale alzare la mano destra e aiutarmi col linguaggio del corpo, lo fa anche chi telefona in treno per la strada al ristorante. Dunque mi fermi, non abbia problemi.
Sarà almeno la mia ventesima intervista in inglese, non ho mai avuto difficoltà particolari, le parole sconosciute delle domande me le cerco prima e me le appunto, se non capisco qualche parola delle risposte non importa, il senso generale mi arriva sempre e non mi sfugge, mi basta per legare la domanda successiva o per cambiarla all’ultimo momento. Una volta in Giamaica ho persino risposto io a un’intervista in inglese, stando per la prima volta dall’altra parte. “Come state realizzando questo filmato su Ben Johnson?” E avevo spiegato con una certa ricchezza di particolari il progetto, il lavoro della troupe, l’interesse per il loro eroe. Del doping non si sapeva ancora nulla o non si voleva sapere. E allora era eroe per la Giamaica (jamaican born) e per il Canada, lieto di ospitare e di incamerare medaglie e ricevere in Parlamento l’uomo più veloce del mondo. Poi, appurato che prendeva medicine per cavalli, nessuno l’ha più voluto rivendicare come suo. Ma lo sport ormai è acqua passata, la lingua con cui hai a che fare oggi è quella dei letterati, di chi la maneggia, la plasma, la modella meglio di tutti.
Silenzio, pronti, si gira. Mi devo subito portare in vantaggio, farmi apprezzare, far capire che mi preparo, io, che i quattro libri che ho sparso ben in vista sul tavolo con i fogliettini gialli a segnare le pagine li ho letti. Anche se staccavo spesso gli occhi dalle pagine per guardare le Olimpiadi e gli eredi di Ben Johnson, le mie belle millecinquecento pagine me le sono digerite. Certo, nulla in confronto alle centomila che avrà scritto in vita sua, ma cosa c’è di meglio della lettura di una autobiografia torrenziale per cogliere il nocciolo dei suoi cinquant’anni di scrittura? Dunque, signora, non si aspetti di trovarsi davanti quel modello di giornalista che si trova in troppi racconti, anche suoi, in romanzi, confidenze, esperienze dirette, che dà una scorsa alla quarta di copertina e apre qualche pagina a caso per darsi un’idea e poi fa la domanda più neutra possibile. No, io, signora, sono preparato. E anche particolarmente acuto e intelligente. Vedrà anche lei, nonostante l’esperienza navigata e la corazza che indossa (a proposito, poi ne parliamo).
Prima domanda. (Sono certo che questo nessuno l’avrà notato). Prima la versione inglese. “Nel distico che precede entrambi i volumi della sua autobiografia lei cita un autore della terra dove è nata, l’Iran. E’ come un ritorno alle origini?” La risposta è prontissima, senza aspettare la versione italiana, lo sguardo maschera una certa supponenza, il sorriso racconta la compassione: “Idris Shah non è iraniano, è afgano”. Come ho potuto non controllare. Come ho potuto pensare che chiunque studi il sufismo sia iraniano perché i maestri sufi dei secoli passati erano persiani. Come ho potuto non dare un’occhiata ai suoi libri che ho a casa. “…Volevo dire il sufismo, la Persia, quella cultura”, lo specchio su cui provo ad arrampicarmi non mi regge. Il sorriso adesso mi pare stranamente appena un po’ più comprensivo e sincero. “Non importa, era una domanda di prova, un test. Ricominci da un’altra cosa.” Provo a riprendermi. “Ok, the second first question.” A quel punto la goccia di sudore si affaccia sulla tempia e scende fino alla mia mano gelando ogni velleità di scioltezza e di spirito. Provo a respirare, forse. Ma non mi viene, devo passare subito alla seconda domanda, per recuperare un po’.
“La guerra. Ecco. Lei dice di essere figlia della guerra e che siamo un po’ tutti figli della guerra. Però dice anche che i movimenti della pace da soli non bastano perché non sono i movimenti pro o contro la guerra a determinare la direzione degli eventi…". “Mi sta chiedendo se sono pacifista?” “No, no, (ecco, adesso pensa che sono il solito giornalista che vuole risposte politiche e sull’attualità) mi dica, è vero che siamo tutti figli della guerra?” Se lo scrive, se lo ha scritto più volte, se ha analizzato la storia dei movimenti dove tutto si deteriora perché non sappiamo imparare dalla storia e non ci basta la prima guerra mondiale né la seconda e se pensa che l’Europa deve aspettarsi una prossima guerra in casa me lo saprà pure dire bene, riassumere meglio di come non sappia fare io. Risponda, la prego, mi aiuti.
La risposta, la prima risposta inglese alla domanda italiana arriva. Comincia a parlare, ma un po’ troppo rapidamente, quasi dentro se stessa, con una voce che mescola pronuncia stretta mal di gola e problemi di dentiera. Faccio fatica a capire quello che dice, provo a cogliere qualcosa di più dall’espressione, ma l’espressione è color neutro inglese. Delle parole quasi nulla. E’ come aver dimenticato all’improvviso l’inglese che so o che sapevo, quello che ho ascoltato centinaia di volte, quello che ho già usato nelle interviste, persino con quel mostro sacro che aveva sceneggiato Ben Hur e aveva scritto di non poter sopportare i giornalisti perché erano impreparati e non conoscevano l’inglese, la conversazione era decollata subito dalla prima domanda azzeccata, era scivolata via come l’olio e mi aveva fatto sentire promosso all’esame più difficile. Ma allora non ti ricordi Eduardo, gli esami non finiscono mai, e tu sei qui di fronte a un altro mostro sacro e dovresti aver preparato tutto e non hai imparato che non si arriva di corsa agli appuntamenti, perché sudi, diventi rosso, non respiri bene e ti presenti male. Fai brutta figura, il massimo del disonore per mamma e papà. Ma adesso non penso alla figura, penso a come portare a casa l’intervista. Vai avanti non pensarci. Il primo ostacolo sembra superato, passo all’altra domanda, lei accenna un sorriso, alla terza risposta sembra essersi sciolta. Ma cosa starà dicendo, cosa sta rispondendo alla mia domanda quasi spiritosa sulla corazza che si mette addosso nelle interviste, quando si protegge e indossa la maschera pubblica che ha poco a che vedere con la sua persona? Non so, ma adesso non importa, l’importante è andare avanti. Se riuscissi a stare più attento forse capirei meglio quello che dice e potrei legarmi alle sue parole per andare avanti. Il sogno. E’ il momento del sogno, lei dice che ha sogni ricorrenti, come quello della lucertola. La lucertola!!!! Come si dice lucertola in inglese? Perché questa volta non ho cercato le parole-chiave sul vocabolario? Neppure su quello nuovo che ho comprato qui, sette euro e mezzo, più sette e mezzo per quello francese, che l’ho comprato a fare. Ce l’ho in borsa ma mi sembra brutto aprirlo adesso nel bel mezzo dell’intervista per cercare il nome di una lucertola uscita da un sogno che non è neanche mio. Mi giro indietro verso i pochi spettatori che mi hanno chiesto il permesso di seguirmi. Lo chiedo a loro, fin qui non li ho nemmeno sentiti. “Lizard” mi dicono. Io capisco lucert e lo ripeto, ma va bene lo stesso, lei si ricorda i suoi sogni e risponde. Poi mi diranno, mia figlia per prima, che tremavano e tifavano tutti per me. La mia tensione moltiplicata per quattro e neppure la sentivo.
Il mio inglese fa sempre più acqua, anche la lucertola è passata, adesso la scrittrice mi sta addirittura raccontando il suo sogno ricorrente di questo periodo, quello di un lupo rosso, che in un sogno inglese va tradotto con “volpe” e di una donna che la fronteggia con sempre maggior sicurezza. Beata quella donna. Prestatemi la sua pelle o almeno quella del lupo rosso -volpe, fatemi uscire da questo incubo. Gocce di sudore non ce ne sono più e anche se ci sono non me ne accorgo, il mio volto deve essere tra lo spaventato e il terreo, ammesso che ci sia differenza di graduazione tra il volto spaventato e quello terreo. Lascio stare i fogli degli appunti, provo ad essere il più naturale possibile. A ricordarmi qualcosa. Eppure avevo studiato tanto, ero preparato, mi pareva di averla capita, di poter fare i collegamenti giusti. Ma intanto continuo a non capire quasi nulla di quello che dice. Perdo il filo ma devo infilare un’altra domanda senza fermarmi.
“Un suo libro è stato un manifesto per il femminismo, ma poi lei con il femminismo è stata molto critica.” “No, io sono stata critica con molte donne che hanno aderito al femminismo.” “Bene, ci riassume queste critiche?” Ampi gesti con entrambe le braccia. “Ci vorrebbero due giorni”. Scusi, andiamo avanti, magari facendo riferimento al suo ultimo libro. “Le sembra giusto che gli anziani (the old people sarà esatto?) siano considerati una categoria, un mondo a sé?” Ormai l’ho fatta, ma cosa c’entra? Perché gliel’ho fatta, così e adesso? Le ho dato praticamente della vecchia, a lei che a ottantacinque anni si ostina a dire che si sta avvicinando alla vecchiaia. Fatemi uscire. Datemi dell’acqua. O almeno un sorriso. O il segno che mancano cinque minuti alla fine. Eccolo. Si affaccia la sua editor, appare nello specchio che sta dietro la scrittrice. “Stop. Si è visto qualcuno nello specchio, dobbiamo ripetere. Signora, per favore, può ripetere la sua risposta?”
“Certo” (purché si finisca). Anche gli ultimi cinque minuti scorrono tra le mille domande che mi si affacciano in disordine alla mente senza riuscire ad incrociarsi in parole sensate e le sue ultime stanche, e per me incomprensibili, risposte. Non si preoccupi signora, qui non si butta nulla, le sue parole tradotte da chi capisce l’inglese finiranno in Internet, le mie no, c’è sempre modo di aggiustarle, dopo. Magari ne verrà pure fuori una bella intervista. In fondo lei dice sempre cose intelligenti e io posso tagliare a dovere le mie domande, o farle scomparire.
Ci alziamo. Mi viene in mente Troisi: “Perché non leggi?” “Perché io sono uno e loro sono tanti, non ce la farò mai a leggere tutto.”
Grazie molte, signora, mi scusi, avevo letto troppo e non ho saputo riassumere in mezz’ora. Allarga le braccia. Dice qualcosa che riguarda the questions. “Those were the questions” potrebbe aver detto, o una cosa del genere, perché non so se nel suo inglese che fa scuola nel mondo “quelle erano le domande” si dice in un altro modo. Io ho fatto del mio meglio, voleva dire, ma … the questions le ha fatte lei.
Grazie, signora. L’ho letta volentieri, anche se è un po’ prolissa, e mi ha convinto a riiscrivermi al British.

2 commenti:

  1. grazie del racconto e anche dell'intervista!
    ho molto sorriso leggendo il racconto, un sorriso empatico: come la capisco!

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  2. molto divertente benché vagamente.... ansiogeno

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