Dal lockdown ad oggi
Un aggiornamento dal Laboratorio di traduzione di poesia Monteverdelegge
Fiorenza Mormile
Se pur con accessi ridotti, aver ripreso quest’autunno gli incontri dal vivo intorno al tavolone dell’amata sala di Plautilla ci ha dato una profonda emozione. SI dimezza così (un incontro mensile sui due in cui abitualmente ci riuniamo) la pratica ormai annosa del lavoro da remoto, imposto dal lockdown da marzo 2020. Lavorare in gruppo online è infatti faticoso e rallentante, per il sovrapporsi di voci, per i vari inconvenienti tecnici, per la mancanza di contatto umano. Ci ha permesso tuttavia di arrivare alla nostra terza pubblicazione: un’antologia dai libri della poetessa statunitense Alexis Rhone Fancher: Stiletto killer, trad. del Laboratorio Monteverdelegge: Maria Adelaide Basile, Marta Izzi, Giselda Mantegazza, Fiorenza Mormile, Paola Maioli, Anna Maria Rava, Anna Maria Robustelli, Jane Wilkinson; a cura di M. A. Basile, Ed. Ensemble, Roma 2022.
In quel tetro periodo di isolamento Fancher, trasportandoci idealmente nelle luci e ombre di Los Angeles ci ha salvato dalla depressione, dandoci uno obiettivo condiviso per cui lavorare di buon grado a tappe forzate. Ci siamo dedicate successivamente a Máighréad Medbh, un’autrice irlandese che al lockdown dedica la sezione “Lockdown Diary” in Imbolg, Arlen House, Dublin 2020, descrivendone con efficacia l’atmosfera sospesa e stagnante. Abbiamo poi iniziato a tradurre testi dell’iraniana Mina Gorji (sotto, in foto), trasferitasi ancora bambina in Inghilterra dopo la rivoluzione islamica, ritornando poi in modo sistematico sul suo primo libro Art of Escape, Carcanet 2020 (di prossima uscita per Fuorilinea) dopo una pausa incentrata su The Waste Land di T. S. Eliot. Per il ricorrere nel 2022 del centenario della sua pubblicazione abbiamo esaminato, confrontandole, una dozzina di diverse traduzioni della prima sezione, La sepoltura dei morti, dandone anche una nostra versione. Quest’anno abbiamo scelto la poetessa statunitense Sandra Beasley di cui stiamo effettuando una prima selezione. Per un’idea sui temi affrontati dalle varie autrici rimandiamo ai link che ne offrono vari testi e un inquadramento critico.
Per chi non ci conoscesse ancora, anche se ormai operiamo da tredici anni e sul sito ci sono molti nostri apporti, ripetiamo qualcosa su di noi e sul nostro modus operandi. Siamo un gruppo mobile, benché uno zoccolo duro sia rimasto pressoché invariato nel tempo (purtroppo è mancata
nell’agosto 2022 Anna Maria Rava, attiva dalla prima ora). Ci sono state delle variazioni, pur limitate, come si riscontra dai nomi sugli articoli dei link. Requisiti base dei componenti sono una buona conoscenza dell’inglese, l’amore per la poesia, una sensibilità fonico-ritmica e un’ampia padronanza del lessico italiano. Poi ci sono gli aspetti caratteriali, che devono tendere, oltre al rispetto del testo, alla capacità di mediazione e a una certa umiltà, assumendo che il prodotto di un gruppo è superiore a quello del singolo se si sa, quando serve, rinunciare alla propria soluzione. Assegnata per un incontro una certa poesia ognuno prepara la sua versione che viene confrontata con le altre per arrivare punto per punto del testo a quella che ai più appare la soluzione migliore. Le “battaglie” verbali sono forse la parte più divertente dell’impresa, che comunque richiede moltissime sedute di revisione minuta prima di arrivare alla versione definitiva. Anche se la versione definitiva nella traduzione di fatto non esiste.
Plautilla ospita diversi laboratori, tra cui anche il laboratorio di traduzione poetica di MVL, a cura di Fiorenza Mormile.
Il laboratorio di traduzione di poesia di Monteverdelegge dedica il suo quarto anno di attività alla poetessa anglo-indiana Sujata Bhatt, autrice di otto raccolte di poesia, impegnata anche nella traduzione (la cura di un’antologia di poetesse contemporanee indiane in inglese) e nella realizzazione di progetti educativi innovativi.
Sujata Bhatt
Nata nel 1956 ad Ahmedabad, antica capitale del Gujarat e cresciuta nella città di Pune, sull’altipiano del Deccan, si è trasferita nel 1968 a New Orleans con la famiglia. Da molti anni vive in Germania, a Brema, insieme al marito, lo scrittore Michael Augustin e alla figlia.
La nostra scelta di testi è tratta dalla sua ultima raccolta poetica: Poppies in Translation, Carcanet, 2015. Prevalgono il tema della memoria linguistica e familiare, e quello della difficoltà di conciliare le diverse stratificazioni della propria esperienza. Le varie opzioni linguistiche: l’indiano Gujarati, l’inglese (nella variante statunitense di New Orleans, poi ricondizionata in inglese britannico dalle suore della scuola frequentata) e il tedesco assediano la poetica di Bhatt, che in un’intervista dichiara di considerarsi “un’indiana che vive fuori dall’India”. Benché l’inglese sia la lingua scelta per la scrittura e abbia dunque prevalso sulla lingua materna, questa rispunta nel sogno, a marcare un rapporto profondo e incancellabile. Nei suoi testi ricorrono anche riferimenti alla natura e all’arte. Nel 2000 Sujata Bhatt è stata ospite di Romapoesia. Nel 2005 è uscito per Donzelli Il colore della solitudine, a cura di Paola Splendore, con una scelta di testi dalle prime cinque raccolte (Fiorenza Mormile).
Su Eleanor Wilner il laboratorio di traduzione di poesia 2014-2015
Il laboratorio di traduzione di poesia, giunto al suo terzo anno di attività, si incentra su una scelta di testi della poetessa americana Eleanor Wilner. Come di consueto, il laboratorio è gratuito e aperto a tutte/i gli iscritti all'associazione, anche se è preferibile avere una buona padronanza della lingua inglese. Chi desidera partecipare è invitato a mandare un'email a monteverdelegge@gmail.com
Ritratto di Eleanor Wilner (a cura di Fiorenza Mormile)
Eleanor Rand Wilner è nata in Ohio nel 1937, e vive a Philadelphia. Poetessa, traduttrice, saggista e docente universitaria nelle sue sette raccolte di poesia fonde politica, cultura, storia e mito in una sintesi originale, in costante equilibrio tra le ragioni della mente e del cuore. Schierata da sempre su posizioni pacifiste e a difesa dei diritti dei più deboli rifugge dal taglio personalistico della scrittura della sua generazione, adottando una visione più culturale e collettiva della memoria. Spaziando dal mito classico alla Bibbia, dalle fiabe all’arte, dal diluvio universale alle guerre contemporanee, Wilner individua nuove prospettive, ribalta luoghi comuni, dà voce e dignità a chi non ha avuto la possibilità di esprimere il proprio punto di vista, privilegiando sempre i sommersi ai salvati. Alicia Ostriker ne loda l’ampiezza visionaria e l’intelligenza rivoluzionaria, Christian Wiman sottolinea come sia raro trovare un poeta in cui l’intelligenza morale si abbini a un così acuto senso estetico, e la perizia tecnica sia tanto adeguata all’altezza e alla complessità delle tematiche.
BIBLIOGRAFIA
Poesia
- Maya, University of Massachusetts Press (Amherst, MA), 1979.
- Shekhinah, University of Chicago Press (Chicago, IL), 1984.
- Sarah's Choice, University of Chicago Press, 1989.
- Otherwise, University of Chicago Press (Chicago, IL), 1993.
- Reversing the Spell: New and Selected Poems, Copper Canyon Press (Port Townsend, WA), 1998.
- Precessional (limited edition), lithografie di Enid Mark, ELM Press (Wallingford, PA), 1998.
- The Girl with Bees in Her Hair, Copper Canyon Press (Port Townsend, WA), 2004).
- Tourist in Hell, University of Chicago Press (Chicago, IL), 2010.
Miscellanea
- Gathering the Winds: Visionary Imagination and Radical Transformation of Self and Society, Johns Hopkins University Press (Baltimore, MD), 1975.
- Ha inoltre tradotto Medea (con Inés Azar): Euripides 1: Medea, Hecuba, Andromache, The Bacchae, edito da David Slavitt e Palmer Bovie, University of Pennsylvania Press, 1997.
- Ha composto il libretto per l’ oratorio Orpheus on Sappho's Shore, musica di Luna Pearl Woolf.
Presente in numerose antologie: Best Poems of 1976: Borestone Mountain Poetry Awards, Pacific Books, 1977; The Best American Poetry, 1990 Scribners and Macmillan/Collier, 1990; The Norton Anthology of Poetry, quarta edizione, W. W. Norton, 1996.
- Pubblica anche poesie, saggi critici e recensioni sui giornali letterari.
Nostre traduzioni
(I testi, tratti da Tourist in Hell, The University of Chicago Press, 2010
sono qui riprodotti per gentile concessione dell’Autrice)
LA RAGAZZA DI VERMEER. UNA RESTITUZIONE
Un'intensità erotica che esige in cambio qualcosa di altrettanto reale e umano. Benché il rapporto sia solo con un'immagine, esso coinvolge tuttavia tutto quanto l'arte dovrebbe tenere sotto controllo. – Edward A. Snow, A Study of Vermeer, 1979
Per un attimo, la vedo, prima che il suo volto diventasse un cliché,
dove era appesa, sulla parete accanto alla porta d’ingresso,
ai piedi della scala, nella piccola casa
della nostra infanzia, sospesa su di noi, una presenza
costante, silenziosa, accanto alla porta stile
olandese, di cui d’estate spalancavamo la parte alta.
Hanno sporcato La ragazza con l’orecchino di perla,
sottoposta al loro sguardo impudico, romanzata,
erotizzata, ridotta a pettegolezzi e insinuazioni,
raccontata come serva, spina nel fianco
di una moglie, oggetto di desiderio, figlia della miseria, muta
per timore e diffidenza sociale, quasi potesse conoscere
l’opinione dei posteri sul pittore– tutto ciò
da un bagliore misterioso e un’espressione indecifrabile,
l’illusione di essere visti dal suo sguardo, un luccichio
di perla, pennellate di lapislazzuli, frantumati a intensificare
l’azzurro.
Sovraesposta, anche al cinema,
dove l’hanno seguita fino alla buia stamberga
della sua famiglia, fino alle pietre bagnate del mercato dove
incontrò il figlio del macellaio, sposato poi
per la carne–dio mio, non potevano lasciarla
in pace, nella regione occulta dell’arte dove lei è,
così splendidamente, nessuno–né serva, né amante,
né la figlia Maria, ma anonima,
segreta, che nessuno può nominare, puro mistero
dell’essere, restituita nel tempo
dall’arte, che non tiene nulla sotto controllo.
VERMEER'S GIRL, A RESTORATION
An erotic intensity that demands something just as real and human in return. The relationship may be only with an image, yet it involves all that art is supposed to keep at bay. -Edward A. Snow, A Study of Vermeer, 1979
For an instant, I see her, before her face was cliché,
where she hung, on the wall by the front door,
at the foot of the staircase, in the little house
of our childhood, and floated above us, a presence,
always there, silent, by the Dutch-style
door, whose top we swung open in summer.
They have sullied The GirI with the Pearl Earring,
subjected her to their prurient gaze–novelized,
eroticized, reduced her to gossip and innuendo,
backstoried her as servant, thorn in the side
of a wife, object of desire, poverty's child, mute
with class diffidence and awe, as if she could be
aware of posterity's view of the painter–all this
from a mysterious glow and unreadable expression,
the illusion of being seen by her gaze, a shimmer
of pearl, brush strokes of lapis lazuli, crushed
to intensify blue.
Overexposed, even in film,
where they followed her to her family's dark
hovel, to the wet stones of the market where
she met the butcher’ s son she would marry
for meat–my god, couldn' t they leave her
alone, in the nether region of art where she is,
so beautifully, no one– not servant, or mistress,
or his daughter Maria, but anonymous,
secret, what no one can name, pure mystery
of being, restored across time
by art, which keeps nothing at bay.
I FIORI PIÙ PALLIDI/CENERE, NEVE.
Constance Merrit, "Partial Rose"
Inverno nelle parole, fiocchi di neve
gli unici fiori, abbondanza di
freddo perfetto che tiene calda
la terra. Sepolto là, niente
tomba, solo l’orso in letargo,
enorme nella tana, che lentamente consuma
il banchetto estivo nella silenziosa notte invernale,
battito rallentato, cervello
intorpidito, la vita il debole ronzio
del sistema messo al minimo,
a basso consumo, dolce dormire,
anche se, ogni tanto, una luce
balugina sul fiume
sonnolento di un sogno, dove
salmoni lucenti nuotano sempre
controcorrente…
la grande mole
di pelliccia orso si scuote
al salto del pesce, la zampa si tende
in un lampo di artigli, si chiude
sul muscolo che si dimena;
in sogno, va bene tutto: il salto,
la presa, lo scontro ineluttabile
degli appetiti– uno per il torrente
di casa, l’altro per la carne contro l’inverno
mentre fuori , la neve cade lieve
sempre più fitta, custodendo
la creatura che dorme
raccolta come una mano
nel caldo guantone
della terra, ignara del
freddo mondo di sopra:
schiene curve, imprecazioni,
raschiare di pale–
quella leggerezza,
il suo terribile peso.
THE PALEST FLOWERS/ASH, SNOW
Constance Merrit, "Partial Rose"
Winter in the words, flakes of snow
the only flowers, abundance of
perfected cold that keeps the ground
so warm. Buried there, no
grave, but the hibernating bear,
huge in his den, slowly using summer’s
feast in the silent night of winter,
pulse idling, brain grown
somnolent, his life the slow hum
of the system turned down low,
fuel efficient, sweet sleep,
though, now and then, a light
glimmers on the drowsing
river of a dream, where
the bright salmon forever swim
upstream ...
the great fur
mound of the bear stirs
as the fish leaps, the paw's out
in a flash of claws, closes
on the flailing muscle;
in dream, it is all good: the leap,
the catch, the helpless clash
of appetites–one for the home
stream, one for flesh against winter–
while outside, the snow softly falls
thicker and thicker, holding
the creature who sleeps
curled like a hand
in the warm mitten
of earth, unaware of
the cold world above:
backs bending, curses,
the scraping of shovels–
that softness,
its terrible weight.
ANCHE A QUESTA DISTANZA, GLI ALBERI
Anche a questa distanza gli alberi
non hanno perso del tutto il loro splendore di sogno,
un luccichio che quieto oscura il bosco vivo,
emanazioni delle foreste della mente –
nella memoria confusa, sveglia e in cammino
per le strade autunnali- il ricordo improvviso
di quei tronchi: così alti, i rami più elevati
persi nella luce accecante: la corteccia
di ognuno segnata e spaccata, come se l'albero
si fosse aperto, per tutta la lunghezza, un invito
agli appetiti dell'aria,
perché a cavallo di ogni
tronco, i picchi ne percorrevano la parete,
becchettando su e giù–
ma, inspiegabilmente,
i boschi che dovevano riecheggiare
del suono martellante di becchi predatòri,
erano fermi, un silenzio che penetrava
come quei becchi, ma di un tipo diverso,
benevolo, come se la scena fosse incantata:
niente di predatorio, e nemmeno un’ombra di danno.
Gli uccelli erano bellissimi nel loro
tremolare: bianchi e neri, stroboscopici mentre si muovevano
nella luce filtrata che si riversa attraverso
gruppi d’alberi - con a tratti
uno schizzo di rosso lungo la gola o
sulla testa del picchio. Osservavo e aspettavo
che la scena si facesse
più chiara, qualcosa che potesse essere nominato,
qualcosa che l'io al risveglio
potesse portar via – un segno: una piuma
rimasta sul pavimento della camera da letto,
una traccia di
resina sulla guancia, fango attaccato
alla suola delle scarpe...
Quello che rimane non ha bisogno
di talismani: i tronchi d’argento, fessurati,
gli uccelli in movimento su e giù –
il sogno una scala di Giacobbe.
TREES, EVEN AT THIS DISTANCE
Trees, even at this distance
have not quite lost their dreamlike sheen,
a glimmer that quietly outshines the living wood,
emanations from the forests of the mind--
in the half-recall, awake and walking
the fall streets- the sudden memory
of those trunks: so tall, the highest branches
were lost in the blinding light: the bark
of each one seamed and split, as if the tree
had opened, all along its length, an invitation
to the hungers of the air,
for astride each
trunk, woodpeckers walked its wall,
racheting up and down–
but, inexplicably,
the woods which should be resonant
with the percussive sound of hunting beaks,
were still, a silence penetrating
as those beaks, but different in kind,
benign, as if the scene were charmed:
no predation, and not the slightest hint of harm.
The birds were beautiful in the flicker
way: black and white, strobed as they moved
in the filtered light that pours through
groves of trees--with now and then
a splash of red along the throat or
on the flicker's head. I watched and
waited for the scene to make itself
more clear, something that might be named,
something for the waking self
to take away--some sign: a feather
left on the bedroom floor, a smear of
tree sap on the cheek, mud clinging to
the soles of shoes...
What lingers needs
no talisman: the silver, fissured trunks,
the moving birds going up and down--
the dream a Jacob's ladder.
PIÙ GRANDE PER CHI RESTA
Più grande per chi resta
Dopo il flagello, l’anno
in cui morirono i pini
e l’aria un tempo verde divenne grigia
di segatura dai denti
d’acciaio che abbattevano gli alberi
morti- quell’anno l’esodo
iniziò. Per settimane la partenza
intasò le strade; se ne andavano a frotte,
incapaci di sopportare oltre la nudità
e l’assenza d’ombra- il modo in cui il sole
picchiava sulla piastra di ferro
del terreno; il modo in cui il vento,
senza più pini da suonare, si era
ammutolito, muovendosi per la terra
vuota, come una mano su un’arpa senza corde.
Ma per quelli di noi che restarono, l’assenza
degli alberi diventò più grande, e con essa,
il cielo, che cominciò la sua vasta ritirata
nel passato, distante anni luce. Come la materia
oscura dell’universo che non si può vedere
nè conoscere se non dagli effetti,
l’assenza dei pini
cambiò la forma delle cose,
e come le stelle lontane, le galassie,
la cui velocità sfida la legge di gravità,
e inspiegabilmente aumenta via via che scompaiono
alla vista, i boschi vuoti cominciarono a crescere
come da un’oscura energia, sfidando perfino
le leggi dell’attrito nell’aria del posto:
l’altalena che smetti di spingere rallenta.
Camminiamo nelle ombre oscure della mente, ora,
nel verde sfocato dei pini scomparsi,
e il vento suona di nuovo tra i rami
perduti, da cui pendono i nidi caduti,
e gli uccelli non nati – dio, come cantavano.
LARGER TO THOSE WHO STAY
Larger to those who stay
After the blight, the year
when the pines had succumbed
and the once-green air grew gray
with sawdust from the teeth
of steel that gnawed the dead trees
down - that year the exodus
began. For weeks departure
clogged the roads; they left in droves,
unable to bear for long the bareness
and the lack of shade-the way the sun
beat down on the iron griddle
of the ground; the way the wind,
without the pines to play, had grown
silent, moving across the empty
land, like a hand on an unstrung harp.
But for those of us who stayed, the absence
of the trees grew larger, and with it,
the sky, which began its vast retreat
into the past, light years away. Like the dark
matter of the universe that can't be seen
or known except by its effects,
the absence of the pines
changed the shape of things,
and like the distant stars, the galaxies,
whose speed defies the laws of gravity,
and inexplicably increases as they disappear
from view, the empty groves began to grow
from some dark energy, defying even
the laws of friction in the local air:
the swing you stop pushing slows down.
We walk in the mind's dark shades now,
in the green blur of the missing pines,
and the wind plays again in the lost
branches, where the fallen nests hang,
and the unborn birds–my god, how they sang.
DI UNA PAROLA
Di una parola
L’inglese
chiede: Che significa?
L’italiano
chiede: Che vuol dire?
Io
chiedo alla maniera italiana, che dà alle parole il desiderio,
come
vuol essere detta materia grigia. Si
solleva
dal
dormiveglia, si fa strada verso l’acqua, riempie la proboscide,
poi
la fa oscillare, tracciando con l’acqua un ampio arco, in cui
viene
catturata la luce del sole. Intanto, nella lezione di poesia,
l’insegnante
chiede dell’immagine: “Che vuol dire?”
e
l’elefante, che ora è di una stazza
che
vuole uscire dall’ambito della riduzione,
si
avvia su per il ripido sentiero
della
montagna dove il cielo invade le vette,
dove
si avvolge in nuvola, il tipo di oscurità
cui
un elefante accorto è incline ad abbandonarsi
quando
braccato fino alla tana.
E là,
sul
pendìo, dove le nuvole vanno alla deriva
dentro
e fuori dai massi, molto al di sopra della linea degli alberi,
una
parola grande, elegia, con
un’ampiezza d’ala di tre metri,
vuol
essere detta come un condor, uno salvato
dall’estinzione
e da poco restituito alla natura.
Si
assesta su un dirupo accanto alla nuvola
grigia
che interpreta come un elefante,
per
quanto oscura appaia. Il condor,
che
è una specie di avvoltoio, ha la pelle grinzosa rosa sporco, e
l’occhio
freddo, ma è sensibile e molto cordiale e ha piacere
di
condividere con l’elefante questo nido sicuro, dove le parole
sono
dette come vogliono loro - pesanti o
alate
a loro piacimento: pesanti ma leggere
come
sono le nuvole, o in volo in cerca dei morti.
OF A WORD
Of a word
English asks: What does it mean?
Italian asks: How does it want to be said?
I ask in the way of Italian, which gives to words desire,
how gray matter wants to be
said. It lumbers
up from drowse, makes its way to water, fills its trunk,
then swings it, making of water a wide arc, in which
the sunlight is caught. Meanwhile, in the poetry class,
the instructor asks of the image: "What does it mean?"
and the elephant, which by now is
a tonnage
that wants to get out of the range of reduction,
is making its way up the steep trail
of the mountain to where sky invades the peaks,
where it wraps itself in cloud, the kind of obscurity
that a wary elephant is willing to indulge in
when tracked back toward its lair.
And up there,
on the cliffside, near where the clouds are drifting
in and out of the boulders, far above the tree line,
a large word, elegy, with a nine foot wing span,
wants to be said as a condor, one
saved from
extinction and recently released to the wild.
It settles down on a bluff next to the gray
cloud which it understands as an elephant,
however obscure it appears. The condor,
who is a vulture of sorts, has dirty pink wrinkled
skin, and a cold eye, but is sensitive and quite
warm-hearted, and is pleased to consort with
the elephant in this safe aerie, where words
are said as they wish to be said-weighty or
winged as they please: heavy but light as
clouds are, or soaring in search of the dead.
QUELLO CHE AMA, PORTA
VIA
Se il naso del porcellino nel mercato di Firenze
ha perso la sua patina opaca e brilla, come ottone,
anche nella penombra; se il santo del mosaico
sul pavimento della Basilica è quasi sparito,
consumato dal gravare di solide suole, il calpestìo
della devozione; se le braccia di Venere sono rientrate
nella pietra, prese dal tempo, suo eterno amante,
che mutila perfino il ricordo della bellezza;
la madre, che si nasconde col suo bambino
dall’incalzare degli squadroni della morte,
se lei, cercando di farlo stare
zitto, di non farsi trovare,
gli preme la mano sulla bocca, lo stringe
a sé sempre più forte, finché lui cessa
se il restauratore- cercando di riportare
alla perfezione il capolavoro segnato dal suo
transito nel tempo, rimuove
per errore, il sorriso misterioso…
ama, e amore è, porta via ciò che intende
questo allora è il luogo dove fare
silenzio, bene intenzionati ma a rischio
di distruggere ciò che vorremmo celebrare, incapaci
di fare altro che
consumare i gradini
di marmo per l’altare, soffocare il fuoco
che vorremmo salvare dalla minaccia del vento,
dalla nostra paura, solleviamo il coperchio dalle braci, e
nella notte riarsa, un volo di scintille,
incendiarie, ansiose
di attecchire altrove,
affamate di combustibile, il passato, la sua fascina secca
esca di luce e calore, preludio
al freddo, e alla cenere.
WHAT LOVES, TAKES
AWAY
If the nose of the pig in the market of Firenze
has lost its matte patina, and shines, brassy,
even in the half light; if the mosaic saint
on the tiles of the Basilica floor is half gone,
worn by the gravity of solid soles, the passing
of piety; if the arms of Venus have reentered
the rubble, taken by time, her perennial lover,
mutilating even the memory of beauty;
the mother, hiding with her child from
the death squads closing in,
if she, trying to keep the child
quiet, to keep them from being found out,
holds her hand over his mouth, holds him
against her, tighter and tighter, until he stops
if
the restorer-trying to bring back
to perfection the masterpiece scarred by its
transit through time, wipes away
by mistake, the misterious smile…
loves, and love is, takes away what it aims
then here is the place to fall
silent, meaning well but in danger
of marring what we would praise, unable
to do more than wear
down the marble
steps to the altar, smother the fire
we would keep from the wind’s extinction,
of our fear, we lift the lid from the embers, and send
abroad, into the parched night, a flight of sparks,
incendiary, dying to catch somewhere,
hungry for fuel, the past, its dry provision
tinder for brilliance and heat, prelude
to cold, and to ash ...
* * * * * *
Omaggio al Poeta in visita: MARIANNE BORUCH
a cura del Laboratorio di Traduzione Monteverdelegge
Roma, 17 marzo 2015
Fotografia di Will Dunlop
La paura genera poesia (a cura di Fiorenza Mormile)
Il
laboratorio ha deciso di introdurre accanto all’attività già avviata (dedicata
quest’anno ad Eleanor Wilner) un quaderno di traduzioni in omaggio ad un poeta
in visita a Roma: la statunitense Marianne Boruch, che ha tenuto un reading
alla John Cabot University il 17 Marzo 2015. In quell’occasione tre poesie sono
state lette anche nella nostra traduzione. Questa iniziativa ne ha tirata dietro
un’altra: il laboratorio di microeditoria di MVL ha raccolto in un cofanetto
artigianale fatto a mano tutte le poesie “romane”
della
Boruch, che in passato ha soggiornato a Roma come borsista ospite dell’American
Academy. Del cofanetto è stato fatto dono -molto apprezzato- all’Autrice. Qui
di seguito presentiamo invece l’intera silloge di poesie tradotte dal Laboratorio
di Traduzione. Ad eccezione di The Hawk, che risale al 2004, le altre poesie
tradotte sono tratte da Cadaver, Speak, edito dalla Copper Canyon Press nel
2014. Nella pur breve scelta si individuano tematiche ricorrenti: la violenza,
la paura, l’attenzione ai corpi e alla loro fragilità, l’insistenza sulla loro
disgregazione. Come in Hands, la sala di disegno e quella di anatomia si
affiancano, necessarie entrambe. Il falco che divora la sua preda, smembrandola
meticolosamente, sembra anticipare la dissezione anatomica della mano (Hands),
le statue mutile del foro (At The Forum), così come i martoriati martiri di Old
Paintings. La minaccia -della morte e non solo- aleggia costantemente sui vivi
e la paura è l’inevitabile risposta, come ben sanno l’uccello che dall’alto
assiste allo scempio della gracola (The Hawk) e la viaggiatrice notturna
terrorizzata dai continui tentativi di forzare la porta del suo vagone letto
(Old Paintings). “The old
story. Threat meet dread” ci riconferma anche un passaggio chiave di Rom, Du
Bist Ein Welt. Ma appare in Boruch anche un altro timore, quello di non
ricordare tutto, di non riuscire a ricomporre a distanza, in una poesia, le
forti emozioni del momento. Ecco quindi gli schizzi da Grand Tour nella casa di
Keats, come la registrazione puntuale di tutti gli stimoli visivi e sonori
(silenzio compreso), siano quelli di un cortile pieno di uccelli, dello
sbatacchiare di ferraglia di un treno di notte o del vociare
che dalla
scalinata di Piazza di Spagna penetra nella silenziosa casa-museo. Boruch sa
accendere anche inaspettati sprazzi di humour, consolidato antidoto alla
melanconia: il braccio del cadavere che continua ad alzarsi (Hands), la statua
del foro che “non tradisce il dolore per il pene smarrito” (At The Forum), l’aureola
dei santi che sembra un piatto da torta (Old Paintings). E dimostra anche
grande capacità di sintesi: secoli di storia romana riassunti nel giro di pochi
versi. La pratica di derivazione etrusca del seppellimento simbolico del
fulmine ripropone indirettamente il tema della minaccia e della paura insieme a
modalità antiche di esorcizzarle. Ma anche scrivere poesie, sembra dire
Marianne Boruch, funziona.
Da Poems:
New & Selected, Oberlin Press, 2004
THE HAWK
He was halfway through the grackle
when I got home. From the kitchen I
saw
blood, the black feathers scattered
on snow. How the bird bent
to each skein of flesh, his muscles
tacking to the strain and tear.
The fierceness of it, the
nonchalance.
Silence took the yard, so usually
restless with every call or quarrel,
titmouse, chickadee, drab
and gorgeous finch, and the sparrow
haunted
by her small complete surrender
to a fear of anything. I didn't know
how to look at it. How to stand
or take a breath in the hawk's bite
and pull, his pleasure
so efficient, so of course, of
course,
the throat triumphant,
rising up. Not
the violence, poor grackle. But the
sparrow, high above us, who
knew
exactly.
IL FALCO
Era
a metà della gracola
quando
tornai a casa. Dalla cucina vidi
il
sangue, le penne nere sparpagliate
sulla
neve. Come l'uccello si piegava
su
ogni matassa di carne, i muscoli
protesi
allo sforzo e allo strappo.
La
ferocia del tutto, la noncuranza.
Il
silenzio catturò il cortile, di solito
scosso
da liti o richiami,
cinciallegra,
passero e fringuello cinerino
e
quello sgargiante, e la cincia tormentata
dalla
sua piccola resa totale
alla
paura di ogni cosa. Non sapevo
come
guardare. Come restare lì
o
prendere fiato tra i morsi
e
gli strappi del falco, il suo piacere
così
efficiente, così naturale, naturale,
la
gola in trionfo,
che
si sollevava. Non
la
violenza, povera gracola. Ma la
cincia,
alta sopra di noi, che
capiva
ogni cosa.
Da
Cadaver, Speak, Copper Canyon Press, 2014
HANDS
A whole roomful of hands
drawing hands! Then I know I'm
thinking too much.
My teacher said keep
looking when I figured
done, the broken-off
conte crayon in my fingers.
Early spring, wired urgent with
spring
means the catbird
never lets up, his small chaos
falling
again, again to the tell-tale whiny
note,
the meow of no cat
I ever heard. In reflexology, you
press hard
between third finger and the little
one
to dull such ringing in the ear.
The hand in cadaver lab– the first
fully human thing
we did, I thought. No hands alike,
raging
small vessels run through them–
you'd never
believe how many ribbons. The arm
kept springing up, no
not to volunteer. We tied it down
with ordinary rope
you'd get at the hardware store, and
even then–
The catbird is gray and dark gray
but you can't
see him, not with the trees
leafed out. That hurry in a throat,
no sound
like another he repeats
sideways, down,
inside out.
A whole room of hands drawing hands!
I still love that. Look away then.
You should
look anywhere else
in that other room, hands with a knife
to dissect
the hand, no fat there to speak of,
busy
traffic of nerve and vein and tendon
and trust me,
it
stops.
MANI
Tutta
una stanza di mani –
che
disegnano mani! Lo so che sto pensando troppo.
L'insegnante
disse continua a guardare quando credevo di
aver
finito, il carboncino
spezzato
tra le dita.
Inizio
di primavera, elettrizzato pronto a scattare
significa
che l'uccello gatto
non
smette mai, il suo piccolo caos ricade
ancora
e ancora in una nota pettegola e lamentosa,
un
miao che non ho mai sentito
da
nessun gatto. In riflessologia, premi forte
tra
il medio e il mignolo
per
smorzare quel suono nell'orecchio.
La
mano nella sala di anatomia– la prima cosa umana
che
abbiamo fatto, pensai. Non ci sono mani uguali,
attraversate
da piccoli vasi furiosi– non
crederesti
mai quanti filamenti. Il braccio
continuava
a scattare su, no,
non
per offrirsi. Lo fissammo con una comune corda
che
si trova dal ferramenta, e anche così–
L'uccello-gatto
è grigio e grigio scuro ma non
lo
vedi, non con gli alberi
pieni
di foglie. Quell'urgenza nella gola, nessun suono
uguale
all'altro ripete
di
lato, in giù,
dentro
fuori.
Un'intera
stanza di mani che disegnano mani!
Mi
piace ancora. Guarda da un'altra parte, allora. Dovresti
guardare
altrove
in
quell'altra stanza, mani con un coltello per dissezionare
la
mano, senza un filo di grasso, traffico
intenso
di nervi e vene e tendini e credimi,
si ferma.
AT THE
FORUM
Outside, one statue keeps its head.
And inside the museum, so many
puzzle pieces missing
in the frescoes. Missing: a belly, a
neck, an arm.
Among the upright stone figures, one
can't really bear it, another
leans in to the touch. Heads
crooked, eyes closed–
pain or ecstasy, who can tell.
Sleepers dream like that, passing
through tunnels
of rest, unrest.
The point is sweet or not sweet at
all, a face
staring down or straight on.
Hair curls uncombed until a headband
stops it.
So many noses
just not there. Skin, like skin, ribs
rough enough
shine under. The fragile scrotum,
made of
stone now too, belies its grief
that the penis is gone. Shoulders
draped
in the most opulent scarves fierced
out, shattered,
soothed by mallet, by chisel. Opulent.
I never wrote
that word before. Others rise like
some moon-soaked cloud: Subgrundaria,
graves under the eaves. Bidentalia, places struck
by lightning– toxic, dangerous.
A rock buried there equals bolt. So that's
settled.
Just in case, a fence went up around
it.
More marking: Pratica
di Mare, Ficana and Ardea – the edge
they buried infants, children under
ten,
to claim property, 620 B.C. It
works. The wind cries.
In the museum, it's over and over how
those who walk and look
gaily ape the statues for the
photograph home,
arm raised when
a stone arm is up, head turned
the same frozen angle.
To see and see. What to say. The
bent figure of a woman
made of that stone.
A small hand on her lower back.
Nothing else left of the child once
attached to it.
AL FORO
Fuori,
una statua ha ancora la testa.
E
dentro il museo, tanti i pezzi mancanti
negli
affreschi. Mancano: una pancia, un collo, un braccio.
Tra
le figure di pietra in piedi, una
si
regge appena, un'altra
si
inclina al tocco. Teste storte, occhi chiusi–
dolore
o estasi, chi può dirlo.
Chi
dorme sogna così, attraversando tunnel
di
riposo, di non riposo.
Il
punto è dolce o niente affatto dolce, un viso
che
fissa in basso o davanti a sé.
Riccioli
scompigliati finché una fascia non li ferma.
Tanti
nasi
non
più lì. Pelle, come pelle, costole appuntite
spiccano
da sotto. Il fragile scroto, ora
anch'esso
di pietra, non tradisce il dolore
per
il pene sparito. Spalle avvolte
nel
drappeggio più opulento strappate a forza, spaccate,
placate
dal mazzuolo, dallo scalpello. Opulento.
Non
ho mai scritto prima
questa
parola. Altre si levano come
nuvole
intrise di luna: Subgrundaria,
tombe
sotto le grondaie, Bidentalia, luoghi colpiti
dal
fulmine– tossici, pericolosi.
Una
pietra sepolta là uguale folgore. Così la cosa è risolta.
Per
sicurezza, una recinzione tutto intorno.
Altri
segni: Pratica di Mare, Ficana e Ardea– il confine
dove
seppellivano neonati, bambini sotto i dieci anni,
per
rivendicare la proprietà, 620 a.C. Funziona. Il vento piange.
Nel
museo, è un continuo di gente che cammina e guarda
scimmiottando
allegramente le statue per la foto ricordo,
braccio
alzato quando
un
braccio di pietra è in su, testa voltata
bloccata
nella stessa rigida angolatura.
Vedere
e vedere. Che dire. La figura piegata di una donna
fatta
di quella pietra.
Una
piccola mano sul fondo della schiena.
Nient'altro
rimane del bambino che vi era attaccato.
|
Giovanni Battista Nolli, Nuova topografia di Roma (1748) |
ROM, DU
BIST EINE WELT
– from the
headstone of Hans Barth, buried near Keats in Rome
One vast ceiling in this city–
of course of course, Adam reaching a
long way
to touch fingers with a god who
maybe is curious.
Two panels over, Eve takes an apple
from
a human hand. We know better.
It never was a garden, how that arm
morphs
from the snake of all snakes
a few feet away.
The old story. Threat,
meet dread. The deepest deep sea.
Or outer space with its
light years flashing through dark.
But never to end
loops and still breaks, color
violent, muddied, murdered in the
making.
Paint toxic, a blue scarce-brilliant
of
Khyber and Persia, scaffolding so
look
down, day grueling
day, the most
twisted position to do
an angel's wing right. Years, the
swearing
up there, swirl and swell of rage,
the bad light
huge in the eye
that blinks back an ocean.
ROM, DU BIST EINE WELT
– dalla lapide di Hans Barth,
sepolto a Roma vicino a Keats
Un'unica
immensa volta in questa città–
certo
certo, Adamo si allunga fino a
toccare
il dito di un dio che
forse
è curioso.
Due
pannelli più avanti, Eva prende una mela da
mano
umana. Noi la sappiamo più lunga.
Questo
non è mai stato un giardino, come quel braccio prende forma
dal
serpente dei serpenti
a
poca distanza.
La
vecchia storia. Minaccia,
incontra
terrore. Il più profondo dei mari profondi.
O
lo spazio infinito con i suoi
anni
luce che lampeggiano nel buio.
Ma
senza mai finire
s'incurva
e ancora si spezza, colore
violento,
torbido, ucciso nel farsi.
Pittura
tossica, un azzurro poco brillante ottenuto da
Khyber
e Persia, un'impalcatura così
guarda giù, ogni giorno più estenuante, la posizione
più
contorta per fare bene
l'ala
di un angelo. Anni, a imprecare
lassù,
la rabbia che turbina e monta,
la
cattiva luce
enorme
nell'occhio
che
rimanda un oceano.
OLD
PAINTINGS
Someone always lifted into heaven–
the Son, Mary, the Holy Ghost in
perpetual
hover, any number
of saints alone. Or a murder of them,
those martyrs, their gorgeous flight
north
reward for fire, for stones, hot
breath in the ear.
Tooth and claw, human style,
down centuries like a drip.
Night trains now, one from Milano to Roma,
blue blanket, blue sheets in the
sleeping car,
a sink, a shelf, all racketing,
lurching
over mountain, vineyards, cutting
goat trails in half.
Human nature. The ticket guy
won't warn us about it: someone
keeps trying
our locked door all night. I hear
that.
Then I dream that.
Violent too, how the paintings
rest, gallery after gallery
at the Vatican. Saint Sebastian, his
arrows in deep,
up to their feathers. And the
crucifixions– this is the deadest
dead
Christ we've seen, my husband says, the skin
pasty gray unto green, the head
lolling.
Then Saint Bartholomew (my grade
school named for him,
I walked through his door), he can't
unlove
being flayed, standard
pie plate of halo off-gassing golden
behind him.
I thought that ended it, passing
into funny
because of distance. Could.
It didn't. Not the train,
not the door and door all night,
the rattle, dark
window of it nailed right to the
wall.
DIPINTI ANTICHI
Qualcuno
saliva sempre al cielo–
il
Figlio, Maria, lo Spirito Santo in perpetua
sospensione,
un gran numero
di
santi solitari. O il loro assassinio,
quei
martiri, il loro splendido volo verso nord
ricompensa
per fuoco, pietre, fiato caldo nell'orecchio.
Zanne
e artigli, alla maniera umana,
per
secoli, uno stillicidio.
Treni
notturni ora, il Milano-Roma,
coperta
azzurra, lenzuola azzurre nel vagone letto,
un
lavabo, un ripiano, tutto traballante, sbandando
per
montagne, vigneti, tagliando a metà sentieri di capre.
La
natura umana. Il tizio dei biglietti
non
ci dice niente: tutta la notte qualcuno cerca
di
forzare la nostra porta. Lo sento.
Poi
lo sogno.
Violento
anche il modo in cui i dipinti
riposano,
sala dopo sala
al
Vaticano. San Sebastiano, frecce conficcate
fino
alle alette. E le crocifissioni– è
il Cristo morto
più morto che abbiamo visto, dice mio marito, la pelle
terrea
tendente al verde, la testa che pende.
Poi
San Bartolomeo (la mia scuola elementare aveva il suo nome,
ho
varcato la sua porta), non può non amare
di
essere scuoiato, il solito piatto
da
torta dorato per aureola che sprizza dietro.
Pensavo
che finisse lì, diventando
divertente
col
tempo. Avrebbe potuto.
Non
è andata così. Non il treno,
non
la porta e tutta la notte la porta,
lo
sferragliare, il suo oscuro
finestrino
inchiodato proprio alla parete.
AT THE
KEATS HOUSE, ROME
How long
is this posthumous life of mine to last?
— John Keats, the month before his
death, 1821
Even to think, any of it —
Just draw, I thought.
And note color in his room for later
because
what a mess I’d make in there.
So I wrote words, the wall
not quite robin’s egg, the floor’s
old dark
a maroon. I sketched
with pencil: window, those tiles
underfoot,
scribbles framed for paintings,
a big boat bed of shiny mahogany, my
lines
barely, as long as they would
mean in the end, a guide for Rome
once,
halfway across the planet.
And weeks would slip
before an hour or two,
my watercolors, at home: to work
the way poems get made, like memory
knots and unties,
most immediate verb—is is is—trading
up
any past life to eternal present,
trick of light as if
there is no shade. Keats did,
then he didn't get better.
His room is part-lie, his TB wrongly
certain the plague where Vatican law
aimed
its trumpets. The real bed? They
burned it.
And bedclothes, the heavy curtains,
wallpaper ripped
ceiling to floor. God forbid
what he breathed out stay. Letters
he couldn’t
bear to open, brave
keeping those, probably illegal,
think
more unpretty, buried
with him,
a shovel, ten minutes
of falling dirt. Not starless, moonless.
Funny, we put people in the ground
when they're done with us.
Whoever looks
sees the Spanish Steps from
that window, their rise and ruin
crooked as an old,
vast accordion where the thrill is
it widens, a giddy slow-motion,
exhausting.
And the wheeze—
though I heard only shouts,
laughter, traffic sounds.
The fountain there too, a modest
affair
of the other Bernini, the sculptor’s
unfamous father, marking the most
distant spot
the Tiber flooded, its shape
a small boat that foundered, broken
thing of stone,
and the spray—anyway,
anyway—
delicate, continual.
Noise can sometimes
be music. Or a fragment,
a sentence. Or month blackening
month
can reverse, luminous as x-ray. The
hand
holds a pencil to find—at last! for
a moment,
no moment. That’s what it is
to make drawings. The loose ones
give way
as though happy
and sad meet best in some
blurry afterlife where neither will
ever know
more than the other. Keats. His
death mask floats
in that kind of plexiglass box
screwed to the wall,
his once-eyes closed, his once-face
a face, eerie greenish white
plaster.
I erased and drew again.
Looks
like he’s dreaming,
doesn’t
it? Who was that in
the room,
her of course I’d get
what she said, that she wasn’t alone
where
her English jarred but in all of
Rome— Roma! —
this sacred place for it.
Dream, the usual code for mystery,
for figuring any last bit: past into
present,
life, death, great poems,
no poems worth the reading or why
anyone
would write them. Or she was simply
nice, being nice, stranger to
stranger, because that
language in the street
how Keats must have heard it—part
racket,
part high-held note, and mostly
a veil. My distracted
no answer at all
was unkind. And not
even true. See, the window had to be
right,
the ceiling brought down by pencil
to paper, same same
flower, inlay after inlay carved
to a madness up there.
He’s
sort of
beautiful,
she said,
tentative
as
translation.
Giovanni Battista Nolli
ALLA CASA DI KEATS, ROMA
Quanto durerà ancora questa mia
vita postuma?
—John
Keats, 1821, il mese prima di morire
Solo
a pensarci, anche solo in parte—
Disegna
e basta, pensai.
E
annota il colore della stanza per dopo perché
che
caos farei lì dentro.
Così
scrissi parole, il muro
non
proprio uovo di pettirosso, il pavimento, una vecchia patina rosso
scuro.
Feci uno schizzo
a
matita: finestra, quelle mattonelle sotto i piedi,
scarabocchi
incorniciati come quadri,
un
grande letto a barca di mogano lucido, i miei versi
a
malapena, per quel che potevano
valere
alla fine, una guida alla Roma di una volta,
quasi
dall'altra parte del pianeta.
E
le settimane slitterebbero
avanti
di un'ora o due,
i
miei acquerelli, a casa: a lavorare
come
si fa con le poesie, come la memoria annoda e slega,
il
verbo più immediato —è è è— che baratta
ogni
vita passata con l'eterno presente, scherzo della luce come se
non
ci fosse ombra. Keats l'ha fatto,
poi
non è stato meglio.
La
sua stanza è in parte una menzogna, la sua tisi a torto
equiparata
alla peste su cui soffiavano le trombe
della
legge vaticana. Il letto vero? Bruciato.
E
le lenzuola, le pesanti tende, la carta da parati strappata
dal
soffitto al pavimento. Dio non voglia
che
rimanga nell'aria il suo respiro. Lettere che non riusciva
ad
aprire, coraggiosi
a
conservarle, forse illegali, suppongo
più
indelicate, sepolte con lui,
una
pala, dieci minuti
di
terra che cade. Non senza stelle, senza luna.
Strano,
seppelliamo la gente
quando
ha chiuso con noi.
Chiunque
guarda
vede
la scalinata di Piazza di Spagna da
quella
finestra, il suo salire e rovinare sbilenco come un’enorme,
vecchia
fisarmonica dove l'emozione arriva
quando
si allarga, un lento movimento vorticoso, estenuante.
E
l'ansimare —
benché
sentissi solo grida, risate, rumore di traffico.
Pure
la fontana là in mezzo, un'opera modesta
dell'altro
Bernini, il padre poco noto
dello
scultore, che segna il punto più lontano
raggiunto
dal Tevere in piena, la forma
una
piccola barca che affonda, un frantume di pietra,
e
lo spruzzo —comunque, comunque—
delicato,
continuo.
Il
rumore qualche volta può
essere
musica. O un frammento,
una
frase. O mese che oscura mese
può
capovolgersi, luminoso come raggi X. La mano
regge
una matita per trovare — finalmente! per un attimo,
nessun
attimo. Questo vuol dire
fare
disegni. Quelli sparsi fanno strada
come
se felice
e
triste si incontrassero meglio in qualche
sfocato
aldilà dove nessuno saprà mai
più
dell'altro. Keats. La sua maschera mortuaria sta sospesa
in
quella sorta di scatola di plexiglass fissata al muro,
gli
occhi-di-un-tempo chiusi, la faccia-di-un-tempo
una
faccia, un gesso bianco verdastro inquietante.
Cancellai
e disegnai di nuovo.
Sembra che stia sognando,
non è vero? Chi c'era nella stanza,
lei
naturalmente capivo
quello
che diceva, che non era sola dove
il
suo inglese strideva ma in tutta Roma— Roma! —
questo
luogo sacro proprio per quella lingua.
Sogno,
il codice comune per mistero,
per
raffigurare ogni frammento rimasto: il passato nel presente,
vita,
morte, grandi poesie,
nessuna
poesia degna di essere letta
o
scritta da qualcuno. O lei era solo
gentile,
voleva essere gentile, da sconosciuta a sconosciuta, perché quella
lingua
per strada
come
Keats deve averla sentita— parte frastuono,
parte
nota alta trattenuta, e per lo più
un
velo. La mia distratta
assenza
di risposta
fu
scortese. E nemmeno
sincera.
Vedi, la finestra doveva essere giusta,
il
soffitto riportato dalla matita
alla
carta, stesso stesso
fiore,
intarsio dopo intarsio inciso
in
modo maniacale là sopra.
Ha una sua
bellezza, disse, incerta
come
una traduzione.
traduzione del Laboratorio di traduzione di
monteverdelegge
(costituito
nel 2015 da:
Maria Adelaide Basile, Eleonora
D'Amico, Michela Dentamaro, Diana Marchionni, Fiorenza Mormile, Anna Maria Rava, Anna Maria Robustelli, Paola
Splendore, Jane Wilkinson)
I
testi sono stati riprodotti per gentile concessione dell’Autrice.
Marianne Boruch e parte del gruppo del Laboratorio di Traduzione alla Cabot
Il Laboratorio di microeditoria di monteverdelegge è costituito da:
Anna Maria Rava, Daniela Lasorsa, Gianluca Chiovelli, Giovanna Ferraro, Graziella Chiarcossi, Leda Fonti, Luciana Mafodda, Maria Vayola.
* * * * * *
Il laboratorio di traduzione di poesia 2013-2014 ha come oggetto la raccolta Failure del poeta americano Philip Schultz, che proprio per questi testi ha vinto nel 2008 il premio Pulitzer. Come di consueto, il laboratorio è gratuito e aperto a tutte/i, anche se è preferibile avere una buona padronanza della lingua inglese. Chi desidera partecipare è invitato a mandare un'email a monteverdelegge@gmail.com
Le poesie tradotte
_________________
Il laboratorio di traduzione 2012-2013
Stevie Smith
|
Stevie Smith |
Riprendendo il filo conduttore del rapporto fra madri e figlie, già trattato in una stagione precedente, il laboratorio di traduzione 2012/2013 curato da Fiorenza Mormile ha avuto come oggetto alcuni testi della poetessa e romanziera inglese Stevie Smith.
Qui di seguito i testi originali e le versioni elaborate nel corso degli incontri.
A
House of Mercy
It
was a house of female habitation,
Two ladies fair inhabited the
house,
And they were brave. For although Fear knocked loud
Upon
the door, and said he must come in,
They did not let him
in.
There were also two feeble babes, two girls,
That Mrs.
S. had by her husband had,
He soon left them and went away to
sea,
Nor sent them money, nor came home again
Except to borrow
back
Her Naval Officer's Wife's Allowance from Mrs. S.
Who gave
it him at once, she thought she should.
There was also the
ladies' aunt
And babes' great aunt, a Mrs Martha Hearn Clode,
And
she was elderly.
These ladies put their money all together
And
so we lived.
I was the younger of the feeble babes
And when
I was a child my mother died
And later Great Aunt Martha Hearn
Clode died
And later still my sister went away.
Now I am
old I tend my mother's sister
The noble aunt who so long tended
us,
Faithful and True her name is. Tranquil.
Also Sardonic. And
I tend the house.
It is a house of female habitation
A
house expecting strength as it is strong
A house of aristocratic
mould that looks apart
When tears fall; counts despair
Derisory.
Yet it has kept us well. For all its faults.
If they are faults,
of sternness and reserve,
It is a Being of warmth I think; at
heart
A house of mercy.
Una
casa di misericordia
Era
una casa tutta di donne
Due leggiadre signore abitavano la casa,
E
avevano coraggio. Perché, anche se Panico bussava forte
Alla
porta, e diceva di dover entrare,
Lo lasciavano fuori.
C'erano
anche due fragili creature, due bimbe,
Che la signora S. aveva dal
marito avute,
Lui presto le lasciò e prese il mare,
E non
mandò denaro, né più fece ritorno
Se non per
reclamare
l’indennità di moglie di addetto navale
dalla
signora S. che gliela diede subito, pensava fosse giusto.
C'era
anche la
zia delle
signore
E
prozia
delle creature, tale
signora
Martha
Hearn
Clode,
Ed
era in
là con gli anni.
Queste
signore misero
i loro soldi tutti
insieme
E
abbiamo campato così.
Ero
la minore delle
fragili creature
E
quando ero
bambina mia
madre morì
E
più tardi morì la
prozia Martha Hearn
E
poi anche
mia sorella se ne è andò .
Ora
sono vecchia
e accudisco la sorella di
mia madre
la
nobile
zia che
così a lungo
si è presa cura di noi
Fedele
e Vera /Fedele e Sincera è
il suo nome .
Tranquilla.
Anche
sarcastica.
E
curo la casa.
È
una casa tutta di donne
Una
casa in
attesa di forza
in quanto forte
Una
casa di
stampo
aristocratico
che distoglie lo sguardo
Quando
cadono le lacrime;
irride
la disperazione.
Eppure
ci ha tenute
bene.
Con tutti i suoi difetti
Se tali sono,
di
durezza e riserbo,
penso sia un’Essenza
di
calore; casa
di misericordia.
Mother
I have a happy nature,
But Mother is always sad,
Mother has been had.
Mamma
Sono felice per natura,
ma la mamma è sempre abbattuta,
io mi godo ogni attimo di vita,-
la mamma è stata avuta.
The sad mother
Darling little baby child,
You lie upon my breast so
mild, Later you must learn to
creep,
But now you are enterily free
to wake or sleep .
La madre depressa
Dolce marmocchietto,
che mite riposi sul mio
petto,
tra un po’ imparerai a
strisciare,
ma ora libero puoi stare
di dormire o vegliare.
"N'est-ce pas assez de ne me point haïr?"
Stand off, Mother, let me go!
The clock upon the shelf is slow
There wants but half a moment
E'er I am celled and barred in thy heart's convent.
Mother, if mother-love enclosure be,
It were enough, my dear, not quite to hate me.
"N'est-ce pas assez de ne me point haïr?"
Sta’
lontana, madre, lasciami andare!
Lento è l’orologio sopra lo
scaffale
manca solo mezzo momento
e sarò chiusa a chiave nel tuo
cuore-convento.
Madre,
se amor di madre clausura diventa
che non mi odiassi, cara, mi
farebbe contenta.
A Dream of Nourishment
I had a dream of nourishment
Against a breast
My infant face was presst
Ah me the suffisance I drew
therefrom
What strength, what glory from that
fattening fluid,
The fattening moist
Was to my infant taste
For oh the sun of strength beat in my
veins
And swelled me full, I lay in brightest
sun
All ready to put forth, all bursting,
all delight.
But in my dream the breast withdrew
In darkness I lay then
And thin,
Thin as a sheeted ghost
And I was famished,
Hankered for a dish
I tought, of blood, as in some
classicist’s
Old tale
To give me hue and substance, make me
hale.
Oh breast, oh Best
That I held fast
Oh fattening draught
Timely reps
Quaffed, presst
And lost.
The breast was withdrawn violently
And oh the famishment for me.
Un
sogno di nutrimento
Ho
fatto un sogno di nutrimento
Contro
un seno premuto
C'era
il mio viso appena nato
Che
suffisance ne ricavavo
Che
gioia che forza da quel fluido nutriente,
Era
il liquido più nutriente
Al
mio gusto neonato
Perché
oh! Il sole della forza mi pulsava nelle vene
E
mi faceva sazia, nel sole piu’ splendente
Tutta
pronta a sbocciare, tutta energia, tutta delizia
Ma
nel sogno il seno si ritraeva
Ed
io rimanevo al buio
Tutta
smagrita,
Smagrita
come un fantasma col lenzuolo
Ed
ero affamata
Smaniavo
per un piatto
Forse
di sangue, come
In
un mito antico
Che
mi desse colore e sostanza, mi ravvivasse.
O
seno, o bene supremo
Che
mi tenevo stretto
O
sorsata nutriente
Provvidenziale
cibo
Avidamente
bevuto, premuto
E
perduto.
Il
seno fu bruscamente allontanato
E
oh! Fu la fame per me.
Mother, among the dustbins
Mother, among the dustbins and the manure
I feel the measure of my humanity, an allure
As of the presence of God, I am sure
In the dustbins, in the manure, in the cat at play,
Is the presence of God, in a sure way
He moves there. Mother, what do you say?
I too have felt the presence of God in the broom
I hold, in the cobwebs in the room,
But most of all in the silence of the tomb.
Ah! but that thought that informs the hope of our kind
Is but an empty thing, what lies behind? --
Naught but the vanity of a protesting mind
That would not die. This is the thought that bounces
Within a conceited head and trounces
Inquiry. Man is most frivolous when he pronounces.
Well Mother, I shall continue to think as I do,
And I think you would be wise to do so too,
Can you question the folly of man in the creation of God?
Madre, in mezzo a letame e spazzatura
Madre, in mezzo a letame e spazzatura
ho la misura della mia umanità, quasi una figura
della presenza di Dio. Sono sicura
Nel letame, nella spazzatura, nel gioco del gatto
c'è la presenza di Dio, e questo è un fatto.
lui c'è. Madre, tu ne prendi atto?
Anch'io ho sentito la presenza di Dio nella scopa
che stringo, nelle ragnatele della stanza,
ma più di tutto nel silenzio della tomba.
Ah, ma il pensiero che impronta la speranza umana
- che c'è dietro?- non è che cosa vana
solo la protesta di una mente inane
che non vuol morire. Questo è il pensiero che rimbalza
dentro una testa pretenziosa e spiazza
l'inchiesta. L'uomo è davvero frivolo quando sentenzia.
Bene madre, continuerò a pensarla a modo mio,
e penso saresti saggia a farlo anche tu
puoi dubitare della follia dell'uomo nel creare Dio?
Chi sei tu?
I’ll have your heart”
(Originally entitled ‘Tu refuses à obeir à ta mère…!’)
I’ll have your heart, if not by gift my knife
Shall carve it out. I’ll have your heart, your life.
I do not love another,
love passed me by
A long time ago,
And now I cry
Doh ray me fah soh.*
*The second verse was omitted when it appeared in Selected Poems
I testi di Stevie Smith sono stati tradotti all'interno degli incontri del Laboratorio di traduzione, a cura di Fiorenza Mormile. Del Laboratorio fanno parte Maria Teresa Carbone, Silvia Esposito, Fiorenza Mormile, Anna Maria Rava, Anna Maria Robustelli, Paola Splendore
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