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Foto e testi di Giulia Caminito
Foto e testi di Giulia Caminito
Questo è solo uno sguardo. Il mio viaggio in Polonia è nato
all’improvviso, in pochi giorni, si è rivelato anche nel suo svolgimento
inaspettato. Sono andata ad Auschwitz e Birkenau con tante immagini nella
testa, ma non sapendo cosa avrei effettivamente trovato.
La mia è la testimonianza parziale di una ragazza nata negli
anni in cui tutto questo è un ricordo o una narrazione, la generazione di chi
ha studiato la deportazione, chi ha guardato documentari, letto libri,
apprezzato film; di chi non ha mai visto la guerra.
Piangere non mi è mai stato difficile, provare empatia tanto
meno, e questo credevo mi attendesse ai campi, ma c’era dell’altro, che non ho
mai sentito altrove.
È l’esperienza dell’impensabile, del punto zero, dell’alfa
privativo dell’umanità, che non è bestiale, non è inumana, è assente. L’assenza
feroce di qualcosa che noi stessi abbiamo celebrato e creato, l’humanitas,
proprio nel cuore dell’Occidente, nei campi arriva a diventare il nulla. Questo
vuoto, questa mancanza non ha generato in me il pianto, l’empatia, la
disperazione, ma il terrore, lo smarrimento, lo sradicamento dell’universo in
cui sono nata e cresciuta. La a-umanità è solo nostra, non può essere di piante
e animali, di stelle e di cieli, è roba nostra, fatta da noi, rovescio di una
pericolosa e viscida medaglia.
Quel senso che noi ci siamo dati, quando diventa a-senso
racchiude un buio che la nostra mente, piena di nozioni e concetti, categorie,
idee, immagini, pensieri non può immaginare.
Non lo capiamo. Famiglia, amore, sesso, vita, casa, lavoro, legge,
proprietà, amicizia, bene, male, giusto, sbagliato, bravura, fallimento … tutto
sbaraccato, tutto portato via, tutto fuori.
Lì non ci si muove a tentoni, perché non c’è più nulla.
La giornata della memoria è un monito a mio avviso non solo
per le azioni orribili, immonde, ingiuste, per il dolore, per la compassione,
ma per ricordare a tutti noi chi possiamo essere al nostro punto zero.
Non c’erano pazzi scellerati lì, ma uomini a-umani. Di loro
io ho paura.
Gli ebrei, i rom, gli omosessuali, gli zingari nudi, privati
dei loro averi, chiusi nelle camere a gas, trattati come ciocchi di legno,
erano ancora umani anche se resi inumani sotto costrizione, dall’altra parte il
vuoto li guardava, e da quel vuoto dobbiamo difenderci ogni giorno. Non solo il
27 gennaio.
Credo che tutti dovrebbero andarci, credo che vada bene
così, con le teche, la guida, le cuffie, le scritte, le fotografie, la navetta,
la zuppa di cavolo, tutto lì serve.
A me è sicuramente servito a guardare ognuno di voi in modo
diverso, ma soprattutto a guardare me stessa.
* * * * * *
Stazione di Oswiecim, il treno ha impiegato tre ore, andando
piano.
Ai caselli abbiamo incontrato almeno dieci donne, dietro a
tende di pizzo, che scrutavano vagoni.
Occhi sbarrati e bocche orizzontali.
Chissà perché solo donne ai caselli. Chissà perché le tende
di pizzo ai caselli.
Dobbiamo prendere un autobus per arrivare al campo, sotto la
pensilina siamo in dieci, fuori batte una pioggia fitta. Passano autobus che
sembrano furgoncini, alle nostre spalle gli orari, nessuno tarda neanche di un
minuto. Ma il nostro è lontano da venire.
Sembra in qualche modo tutto all’indietro, anni sessanta,
quando noi qui di certo non saremmo mai venute.
Tiriamo su i cappucci degli impermeabili, saliamo.
Tutto pare come i tram al centro di Cracovia, dove siedono
ragazze vestite da spagnole che vendono rose, ma non nei vagoni, sanno dove
scendere e solo da lì in poi si incamminano, col cesto di vimini sotto braccio.
L’autista ci indica un punto, non parla e ci fa scendere.
Alla nostra sinistra un immenso parcheggio pieno di pullman,
da museo.
Da lì in poi saremo turisti.
Attraversiamo e iniziamo a guardarci intorno, cercando
chissà quali segnali, aspettando che monti sotto alle costole già un po’ di tristezza.
Eppure nulla, c’è una tavola calda che serve zuppa di cavolo,
ai bagni pubblici si fa la fila, all’angolo si vendono cartoline. Per ora
ancora non si piange.
Pensiamo: più avanti, di certo più avanti, si piangerà.
Sediamo, ordiniamo frittelle di patate, unte da asciugare
con i fazzoletti.
A quel punto ci mettiamo in fila per il biglietto e ci viene
fatto notare che la mattina si entra solo con la guida, il gruppo italiano sta
per partire.
Piangeremo in gruppo, e in italiano, non abbiamo molta
scelta.
Paghiamo il nostro biglietto ed entriamo, provano a
consegnarci le cuffie con cui sentire meglio la guida a distanza, ma rifiutiamo
le cuffie. Stiamo bene così, se non sentiamo magari leggiamo, magari chiediamo.
Ma poi questa storia non la conosciamo già tutti?
Il piazzale di ghiaia e sopra “il lavoro rende liberi”. La
guida parla come a messa, da dietro non si sente. Meglio così; ci mettiamo a
fissare la scritta. Ce n’è una uguale, ma diversa, al museo d’arte
contemporanea di Cracovia, dice “l’arte rende liberi”, attorniata da lucine
colorate.
L’arte rende liberi, al neon. E ora c’è quella vera di
ferro, riportata da poco, forse, la guida lo dice, ma da dietro non si sente. Tutto
sommato va bene così.
Entriamo, ci sono le mense e si inizia a camminare. Ci sono
almeno altri venti gruppi, tutti con guida e auricolari, tutti vicini perché
non ci si può allontanare.
Prima tappa, seconda tappa, facciamo foto, poi lei parla,
non si sente quasi nulla, leggiamo targhe in inglese, cose che in parte già sappiamo.
Ci aspettiamo di piangere, e invece niente.
Ognuno è diventato un piccolo compartimento del museo: si
vede dove stavano i sacchi a terra, si vede dove ci si lavava sommariamente, si
vedono la iuta, le sedie, la paglia, le grate, le scale, i corridoi, le
fotografie. Ogni stanza è piena di gente, si passa a turno per osservare cosa
c’è dalle feritoie e gli affacci nelle stanze.
Orinatoi vuoti, divise vuote, ciotole vuote. Non c’è più
nessuno.
Altri edifici, altre immagini, altre targhe. Fuori piove,
dentro ci sono stufe mai usate.
Ci pare ci sia troppa gente lì, gente che non c’entra nulla,
gente con le cuffie. Noi.
Arriva la mostra degli oggetti, centinai di cappelli,
occhiali da vista, denti, scalpi, tazze, piatti, valigie, centinai di scarpe,
anzi corridoi di scarpe e noi camminiamo con le nostre ai piedi e ci chiediamo:
quando si piange qui?
Nessuno lo fa, né noi né gli altri.
E attorno abbiamo oggetti di chissà chi, oggetti rubati,
oggetti morti, oggetti una volta comprati e venduti, poi bruciati e ora qui
tutti insieme.
Ci sono le celle dove stare in piedi. Due, tre, quattro
giorni in piedi e sotto uno sportello da cui passavano il cibo all’altezza dei
piedi, unica fonte d’aria che chissà ogni quanto veniva aperta.
Il gruppo s’è disperso o abbiamo voluto perderlo. Nelle
celle siamo sole.
Noi e quattro muri dove stare in piedi. Cerchiamo graffi e
scritte, parole. Sono solo muri, oltre una grata qualcuno ha messo una candela
e una rosa rossa, come quelle sul tram.
Una sola candela per tutti; che poi questi tutti quanti
saranno?
Abbiamo visto i cappelli, le valigie, gli occhiali. Ma loro
dove sono?
Rimbomba il suono sulle pareti, ci diciamo che Cristo Santo
quattro giorni o anche un solo giorno là dentro è peggio di tutto. Eppure no,
non è peggio di tutto. Ci manca ancora da vedere. Ci sono posti dove non esiste
uno sportello da cui passare il cibo. Ci sono posti dove non esiste il cibo e
neanche la cella. Ma noi non li abbiamo visti, continuiamo a camminare.
Andiamo lungo il muro delle esecuzioni, sempre mattoncini
rossi, sbarre alle finestre, c’è spazio dove far cadere e raccogliere. Le celle
in piedi restano la cosa peggiore. L’unica candela.
Niente, il gruppo è perduto, siamo con tutti quelli che non
hanno voluto le cuffie, sei, ognuno parla una lingua diversa. C’è un ragazzo in
carrozzella.
Attraversiamo il filo spinato, due, tre file di filo
spinato, corridoi interi, cartelli minacciosi e vediamo una bassa casupola con
un comignolo bello grande.
Non ci serve un cartello per capire. Entriamo, altre rose,
altre candele, zone transennate, ci accorgiamo che sono arrivate le unghiate
sui muri. Solchi e macchie di bruciato.
Ora dovremmo sentire qualcosa, qualcosa deve arrivare, non
si può stare impassibile davanti alle tracce, quei graffi dicono che qualcuno
non voleva morire.
Eppure lì ci sono rose e candele, e fa fresco e le persone
stanno in silenzio.
Non ce la facciamo proprio a capire.
La visita deve finire, non si può stare per sempre lì e
provare a sentire. Non c’è tempo.
Fuori sale il vento, le pozzanghere sono torbide, fanno da
specchio ai mattoni rossi.
Pensiamo che le celle e i graffi sono stati orribili, le stanghette degli occhiali, i capelli arruffati e senza radici, le stufe mai accese, la paglia a terra. Orribile. Lo sanno tutti, lo sapevamo anche prima.
Però c’erano gli edifici, c’erano le prigioni, c’era la
parvenza di un carcere, lo spauracchio.
C’erano tracce e aloni, macchie, fotografie alle pareti di
persone dai capelli rasati, uomini donne, compresi quelli che sorridevano per
il riflesso tipico della fotografia, che quando te la scattano devi sorridere,
perché sei in posa; e loro erano in posa denutriti e pelati, senza trucco e
senza vestiti.
Troppi, che non si distinguono più e noi siamo una carovana
di turisti che fanno foto: io, lei, la signora col cappello impermeabile, il
ragazzo dalla felpa verde, noi, loro, le fotografie, le cuffie e quelle lacrime
che non scendono a nessuno. Cosa siamo venuti a fare.
Il lavoro che rende liberi, il campo di lavoro, fin lì è
orribile, ma può diventare assurdo?
Al secondo campo si entra da un cancello, ora tira vento,
perché non ci sono gli edifici, non c’è la tavola calda, non ci sono i
mattoncini, né le celle, né le stanze, né nulla. Lì non c’è nulla.
C’è chi poggia la macchina fotografica sui binari verso
l’ingresso, lì c’è una prospettiva davvero suggestiva. Rabbrividiamo.
Ritroviamo il gruppo iniziale, ma la guida è cambiata, c’è
un ragazzo più giovane, che racconta senza microfono e la voce si sente sempre
meno, quindi non sappiamo tante cose, di nuovo.
In lontananza si intravede un monumento bianco, passano
gruppi di studenti con il capo coperto, le bandiere sulle spalle, la stella.
Siedono in circolo e parlano, davanti a loro le macerie
crollate di una casupola col comignolo.
Ce ne erano tante, nessuna è rimasta in piedi. Qua c’era
tanto, tanto da far tacere, uno, due tre, quattro comignoli, e poi le stalle.
Lunghe stalle, mezze sono crollate, mezze erano di legno,
erano stalle di legno nel nulla della campagna polacca. Ora è agosto e fa già
freddo, attraversare tutto il campo è faticoso.
Noi siamo turisti affaticati ad agosto, piove e tira vento.
Le foto dalle rotaie hanno una prospettiva migliore.
Tutto è sparito, dentro ci sono scompartimenti in legno,
nelle stalle.
Tre piani di legno, con la paglia, il pavimento di terra
battuta, le pietre alle pareti, non sono rosse.
Stavano in dieci su ogni ripiano, immobili. Scheletri.
Guardiamo il ripiano e ci pare impossibile, lì al massimo si
sta in quattro, è chiaro, dieci in che senso? Erano su un fianco, erano
coricati, erano bambini, erano donne minute, ma neanche loro, neanche dieci
bambini alti mezzo metro entrano là dentro.
Quindi quanti erano? Contiamo bene, perché questo ripiano è
piccolo, troppo piccolo.
Dieci su ogni livello, trenta per scompartimento. Nella
stalla.
Perché?
Fa buio lì dentro, non ci sono neanche le finte stufe che
nessuno accendeva.
Legno, paglia, terra e nulla.
E non viene da piangere, perché non si riesce a immaginare
quella stalla piena.
Cosa siamo venuti a fare, tutti noi e quel ragazzo che parla,
le macchine fotografiche?
Poi come li hanno portati via? Nelle carriole. Facevano
carriole che bruciavano come legna da ardere. E la paglia e i loro umori e il
cibo e le ossa e i capelli e i denti e le vene e i loro pensieri.
A cosa pensavano tutti loro, chi portava la carriola, chi
vedeva la carriola, chi gettava la carriola? Avanti il prossimo, avanti,
poggialo lì, buttalo qua, piegalo così, lancialo laggiù, rompilo, schiaccialo,
è arrivato il suo turno.
Cosa pensavano?
Si vedevano gli occhi, li vedevano o no? Cosa vedevano in
quella stalla?
Al buio quei cento, duecento, trecento, occhi, chiusi,
aperti, a lacrimare, a vedere.
Parlavano? Di che parlavano fuori e dentro, la notte, a meno
dieci gradi, al caldo.
Di cosa parlava l’ultimo, quello infilato all’interno.
L’ultimo dei dieci, proprio lui, infilato in trenta
centimetri di legno.
Chi non aveva la forza neanche per contare in quanti stavano
su quella paglia.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove,
dieci.
Siamo nudi e lì non c’è nulla.
Non si riesce. Troppo assurdo.
A Oswiecim non c’è nulla.
A Oswiecim ci siamo noi.
grazie per questa testimonianza. quando è tutto troppo folle la mente lo rifiuta..e congela le emozioni. ci si sente devastati.
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