giovedì 28 maggio 2015

Archivi al macero a Monteverde. Con le consuete, inutili, riflessioni.


Gianluca Chiovelli

La biblioteca Umberto Barbaro, ospitata presso la Casa dei Teatri a Villa Pamphili, Municipio XII, è sotto sfratto; questo accade nonostante un contratto di comodato valido sino al 2028.
Ignoro i contenuti e gli addentellati giuridici della vicenda, ma la sostanza è questa, in un guscio di noce.
La biblioteca Barbaro possiede un patrimonio di circa 25.000 unità (sceneggiature, saggistica, periodici nazionali e internazionali) che trattano quasi esclusivamente di cinema.
La sede originaria era in Via Nazionale, presso il Palazzo delle Esposizioni; la Umberto Barbaro migrò una prima volta nel 2000; rimase quindi in un limbo per 5 anni; nel biennio 2005-2006 trovò, come detto, una propria collocazione all'interno della Casa dei Teatri (occupava tutto il secondo piano).
Da allora subì una morbida escalation di espropri: alcune sale vennero donate ad altre associazioni e realtà dell'ambito teatrale; un grande spazio fu, invece, riservato alla sala per incontri e proiezioni. Una sorta di mobbing alla vaselina.
A tutt'oggi gli indiani della Biblioteca Barbaro vivono, mal sopportati, in una riserva d'un trenta metri quadri.
Da luglio, però, dovranno mettersi in marcia di nuovo.
Il Comune di Roma (o il Municipio) ha individuato, evidentemente, alcune realtà irresistibilmente più importanti della Biblioteca di cui stiamo discorrendo e che meritano, altrettanto irresistibilmente, d'essere parcheggiate nell'invidiato spazio immerso nel verde della storica villa. Si può far aspettare questi novelli Shakespeare? No, ovviamente. Ubi minor maior cessat.
Il trasloco è, perciò, imminente.

[I quindicimila volumi stipati nella terra di nessuno, ovvero presso l'ex Fiera di Roma, area dismessa da anni. Un patrimonio alla mercé dell'incuria, dei ladri, di tutti: da un decennio].

Il patrimonio contenuto nella sede della Casa dei Teatri dovrà, in tutta fretta, essere inscatolato e portato altrove. Tale patrimonio (circa 10.000 unità) non esaurisce l'intero archivio della Biblioteca. Una parte doppiamente consistente (400 casse, 15.000 unità) è parcheggiata, da parecchi anni, presso la sede dismessa e fatiscente della Fiera di Roma, sulla via Cristoforo Colombo.
Dove andranno a finire i nostri profughi? Verranno forse ospitati nella sede del Movimento Operaio e Democratico (a Ostiense); l'ex AAMOD, altra realtà cacciata da Monteverde. O forse no. Queste notizie le conosco de relato, devo quindi applicarvi un dubbio.
Forse verranno ospitati. O forse no.
[L'ex Fiera di Roma sulla via Cristoforo Colombo. Una immagine degna di un film post apocalittico di Romero, L'alba dei morti viventi o La città verrà distrutta all'alba].

In ogni caso (ospitati o meno) una parte dell'archivio dovrà essere soppressa; causa spazio.
La Biblioteca non ha i fondi per pagare, purtroppo, l'affitto annuale d'un magazzino.
In ogni caso (questa è una mia deduzione, ma sono sicuro di non sbagliare): se anche i nostri eroi dovessero salvare tutti i libri, tutti, sin all'ultima pagina, questi sarebbero, di fatto, al macero.
Se gli archivi vengono messi in condizione di non essere consultati, infatti, essi non esistono.
Se gli archivi e le biblioteche vengono, di volta in volta, riposizionati in luoghi sempre più esotici e fuori mano, come un soprammobile regalato dalla suocera, essi cessano d'avere qualsiasi utilità e funzione sociale per assurgere a pura testimonianza e deperire, quindi, nell'indifferenza.
[Qui sopra il kipple, come presagito da Philip K. Dick: "Il kipple è fatto di oggetti inutili, inservibili, come la pubblicità che arriva per posta, o le scatole di fiammiferi dopo che hai usato l’ultimo, o gli involucri delle caramelle o l’omeogiornale del giorno prima. Quando non c’è più nessuno a controllarlo, il kipple si riproduce. Per esempio, se quando si va a letto si lascia un po’ di kipple in giro per l’appartamento, quando ci si alza il mattino dopo se ne trova il doppio. Cresce, continua a crescere, non smette mai".]

Cosa accadrà, insomma, al patrimonio della nostra biblioteca sfrattata?
Quale sarà il destino di tali libri, volumi, atti, periodici, spesso unici?
Non ho alcun dubbio a tal riguardo: si suicideranno.
Sembra una battuta, vero? Ma è un fenomeno usuale. L'ha illustrato anche Pasolini. Vi ho scritto anche qualcosa sopra. Se un libro o un essere vivente o un oggetto qualsiasi (un paesaggio, una chiesa, un affresco, un animale, un anziano) non sono amati d'un amore vero, ma solo sopportati (per viltà, convenienza, ipocrisia) essi pongono fine alla propria esistenza, al di là del naturale decadimento.
Un libro, ad esempio: perde baldanza, s'accartoccia su se stesso, si sforma, s'abbatte sugli altri compagni, fratelli nella disfatta; le legature cedono, la carta ingialla; esso abbandona, quindi, ogni difesa, lasciandosi sopraffare da topi, pesciolini d'argento, tarme, fioriture, improvvise muffe. È così. Un libro è il passato, e, quindi, il presente e il futuro. E quando si sbriciola definitivamente l'amore per la memoria, i libri (e le biblioteche e gli archivi), latori d'essa, seguono nel lento annichilimento, consapevoli d'essere di troppo, così come i vecchi Hopi si consegnavano alla morte nei pueblos abbandonati.
[L'ex gloriosa entrata della Fiera di Roma, ma anche il rovescio del capitalismo illimitato che divora se stesso e rilascia le scorie del proprio corpo devastato. La morte di ogni umanesimo].

È la vittoria del menefreghismo, dell'ignavia politica, locale e nazionale, dell'ignoranza crassa, della sciatteria, della stupidità eletta a sistema, certo; siamo consapevoli d'essere governati, anche nei quartieri, da criminali e gaglioffi.
Ma è soprattutto la vittoria dell'eterno presente, un modo di vivere postmoderno imposto dallo spirito dei tempi - tempi in cui non c'è spazio per la tradizione, per i maestri e per l'insegnamento che viene dal passato, più o meno recente.
L'eterno presente ha forgiato un nuovo uomo, quello riprovato da Eraclito: uno sciocco per cui il sole è nuovo ogni giorno; egli non ricorda nulla, né il sole del giorno innanzi, né quelli dei giorni precedenti, nulla; s'appaga del momento, come un cretino senza tempo.


È la vittoria anche d'una particolare concezione del libro.
Il libro come puro contenuto, il libro aereo, digitale.
Ormai si ragiona: perché devo stampare l'Ulisse di Joyce in edizione acconcia, (copertina rigida e di buon materiale, cuciture, carta preziosa e duratura, caratteri aggraziati, nitidi, ben impressi, illustrazioni curate) quando posso editare una brossura qualsiasi o smaterializzarlo in epub, pdf, kindle, guadagnandoci il doppio o il triplo?
Il contenuto è lo stesso!
Una concezione mercantile inoppugnabile.
Peccato che l'Ulisse di Joyce in pdf o in brossura non sia lo stesso libro, ma un decadimento gnostico dell'originale, un mister Hyde di quarta mano.




Il rapporto con una edizione smaterializzata o mediocre non offre lo stesso piacere, lo stesso godimento, e il coinvolgimento emotivo che ci fa capire più profondamente l'opera. I nostri sensi (vista, tatto, olfatto) non son certo mutati solo perché gli editori hanno deciso di massimizzare i margini di profitto.
Una copia smaterializzata o mediocre è brutta. Brutta. Ovvero: non è bella. A volte è ripugnante. Allontana i sensi, la curiosità, la partecipazione dell'anima, l'entusiasmo. Anche se il contenuto è lo stesso.
Una copia smaterializzata o mediocre non fa parte della tradizione; non forma un patrimonio di famiglia; non ha valore intrinseco; non è culturalmente trasmissibile. È un'usa e getta, nel migliore dei casi, o una pura alterazione del silicio nel pc.
Una copia smaterializzata o mediocre è indistinta, fungibile. Tra Joyce e la Mazzantini le differenze si assottigliano inevitabili. Alla fine non si legge più Joyce, poi neanche la Mazzantini.
Una copia smaterializzata o mediocre rifugge dalla cultura, dal bello, dal ricercato; si stabilizza entro territori standardizzati dalla propaganda: è mediocrità sempre più mediocre che riproduce se stessa; è l'innesco d'un circolo vizioso in cui la grossolanità e il gusto triviale richiedono ancora grossolanità e faciloneria.
Il libro, così concepito, si riduce inevitabilmente entro territori consueti e risaputi (sempre gli stessi) che escludono ferocemente larghe porzioni di sapere, quelle più profonde e significanti, alternative, inconsuete; il destino di queste ultime, le sole che suscitino la curiosità e lo zelo per la conoscenza, e una visione eccentrica e originale, è l'oblio; l'oblio e, perciò, la progressiva distruzione.
Le sceneggiature originali, i pressbook, le riviste introvabili, gli atti dei convegni, le carte olografe di Antonioni e Visconti, tutto il materiale della Umberto Barbaro, insomma, rappresenta una di tali regioni della cultura e della memoria avviate alla scomparsa irrimediabile.
Come Hal 9000, il computer di 2001: Odissea nello spazio, veniva lentamente svuotato delle unità di memoria sino a ridursi all'infantilismo catatonico ("Giro giro tondo, io giro intorno al mondo/Le stelle d'argento costan cinquecento ..."), così sarà per noi, appagati dal mediocre a getto continuo, spossessati d'ogni capacità di analisi del reale, di ogni capacità di discernimento del bello, d'ogni carica eversiva.

[Facciamo notare, en passant, che la Nuova Fiera di Roma sta sprofondando, dopo pochi anni, in un terreno paludoso (come la Casa Usher?), è carica di 200 milioni di buffi e si appresta a chiudere a sua volta, salvo miracoli (leggi: saccheggi di casse pubbliche).
Ma il progresso deve andare avanti, perbacco].

sabato 16 maggio 2015

La poesia della domenica - Yunus Emre, Con i monti con le pietre

Yunus Emre (1240?-1321?) è il poeta nazionale turco, il Dante della Turchia. Lo conoscete? Ovviamente no. A mia memoria solo uno studiosa italiana, Anna Masala, lo ha tradotto con continuità nella nostra lingua, in due riprese: nel 1978 (due volumi per i tipi dell'Università degli Studi di Roma) e nel 2001 (Semar Edizioni).
Una selezione delle poesie di Yunus può ritrovarsi nel recente Poesia popolare turca, a cura di G. Chaliand (Argo, 2005).
Scrive Anna Masala: "Quando i Turchi Selgiuchidi giunsero in Anatolia, nel secolo XI, l'eredità romana di Bisanzio era ridotta a ben povera cosa. I barbari oguzi dell'est costruirono scuole, fontane, caravanserragli, moschee, ospedali, osservatori, mentre le chiese cristiane crollavano più per mano cristiana che per odio musulmano.
L'Anatolia ... veniva ripopolata da una gente guerriera piena di fede, di amore sociale, che comprendeva il dolore dei servi della gleba autoctoni e si integrava con essi nel multiforme volto dell'Anatolia dei poveri.
Portavano i conquistatori turchi il fuoco mistico del Khorasan e si integravano mirabilmente con il substrato popolare anatolico, contadini senza terra cui l'aristocrazia bizantina prometteva benesseri celestiali e non materiali. 
Da questo sodalizio di semplici nacque il popolo turco d'Anatolia, di cui fu rappresentante poetico Yunus".
Non è facile definire Yunus, figura presto ammantata di leggenda (numerose località ne rivendicano la sepoltura). I suoi versi calorosi e umani si intendono subito, colmi del piacere della verità e di un senso morale universale: può tuttavia intuirsi, pur nella traduzione, un sostrato religioso complesso e di cristallina aristocrazia: per questo vi sono tradizioni che lo vogliono o pastore semianalfabeta o, al contrario, studioso dotto e cosmopolita. La seconda ipotesi, condivisibile, rende ragione del suo stato di derviscio, ovvero seguace del sufismo: egli fu probabilmente un ricercatore mistico individuale che rigettava le lusinghe del mondo in una visione quasi panteista del Tutto (senza scostarsi dall'osservanza islamica: Muhammad, Maometto, fu la radice della speculazione sufi).
La poesie che segue esemplifica tale eccezionale afflato oltremondano.

Con i monti, con le pietre che io chiami Te, Signore,
nelle albe con gli uccelli che io chiami Te, Signore,
coi pesci negli abissi dei mari, con le gazzelle nel deserto,
fattomi derviscio, con il grido 'O Dio', che io chiami Te, o Signore.

Nei cieli con Gesù, sul Monte Sinai con Mosè,
col bastone di romeo nella mano che io chiami Te, o Signore.
Con Giobbe dai molti dolori, con Giacobbe pieno di pianto,
con il tuo Amico, Muhammad, che io chiami Te, O Signore.

Con lode e ringraziamento, con il grido 'Tu sei Dio',
salmodiando il nome di Dio, che io chiami Te, Signore.
Ho conosciuto lo stato del mondo, ho rinunciato alle sue vanità,
a capo scoperto, a piedi nudi, che io chiami Te, Signore.

Yunus recita in tutte le lingue, con le colombe e gli usignuoli,
con gli uomini che amano Dio, che io chiami Te, Signore.

Traduzione di Anna Masala, da Yunus Emre, II, 1978

martedì 12 maggio 2015

In uscita i Bibliosonetti di Paul Verlaine su MVL Cartoni (per la prima volta in Italia)


Sono disponibili, in edizione numerata di 50 esemplari, i Bibliosonetti di Paul Verlaine, tradotti (con testo originale a fronte, 40 pagine), impaginati, cuciti a mano e assemblati a cura del laboratorio di microeditoria di Monteverdelegge: MVL Cartoni.
Assemblati solo con materiale da riciclo: vecchi cartoni, vecchie stoffe, bottoni, ritagli etc

Come si legge nell'introduzione:


"I bibliosonetti furono commissionati a Paul Verlaine dal direttore della Revue icono-bibliographique, Pierre Dauze, sul finire del 1895. Dauze gli ordinò una serie di 24 sonetti (due a settimana), di argomento bibliofilo, da pubblicare sulla rivista ...
Al fondo di questi versi, sarcastici, dolenti e preziosi, è un uomo che ama intimamente bellezza, libri, poesia e intelligenza; il cui ammonimento è raccolto nell’incipit di Bibliomania:

Leggere è niente; bisogna aver letto; si deve; è necessario!"

Non esistono in Italia traduzioni complessive dedicate ai tredici sonetti: questa è la prima volta (in centoventi anni!) in cui tali poesie di uno dei più grandi lirici moderni vengono trasposte nella nostra lingua.



Sopra la bellissima poesia Bibliofilia (Bibliophilie) con testo a fronte:

Il vecchio libro che si è letto e riletto tante volte!
a pezzi, ferito, straziato, reso orribile dall'uso,
d'improvviso rieccolo fresco e pimpante, volto giovane
e fine al tocco, delizia per occhi e dita.

A dir la verità questa è anche la terza traduzione complessiva dedicata ai Bibliosonetti nel mondo: di precedenti ne esistono, infatti, solo due: una cecoslovacca (del 1932, introvabile) e l'altra, in portoghese-brasiliano, piuttosto libera, del 2010.

Questi piccoli poemi furono ideati dallo scrittore francese a pochi giorni dalla propria morte. 

"I bibliosonetti costituiscono, di fatto, il testamento olografo di uno dei maggiori lirici ottocenteschi; scritti in punto di morte, essi non mentono: al di là delle forzature (onde aderire agli obblighi della committenza), traspare da tali versi  il dolore per il tempo presente, che vede il poeta povero e malato, il rimpianto per la gioventù, la forza satirica, e, soprattutto, l'amore per i libri - una bibliofilia autentica e vissuta – come possiamo arguire dall'uso sempre ben appropriato dei termini tecnici".

Tredici poesie, insomma, che testimoniano la conclusione di una parabola personale e di un'epoca storica ben precisa: il decadentismo francese.


Chi ne volesse una copia può mandare una mail presso Monteverdelegge o a uno dei responsabili oppure recarsi personalmente presso la sede di Via Colautti 30 (lunedì, 15-19; martedì-giovedì-venerdì 17-19).
Altri libri curati da MVL possono rintracciarsi presso il sito cartonlibri.blogspot.com.
Ecco una prima reazione alla lettura (da parte di Lorenzo):

"Questo pomeriggio ho 'manipolato' (toccato, accarezzato, sfogliato, letto, comparato con i testi originali, ecc.) il bel volumetto che ho avuto la fortuna di ricevere questa mattina.
Vorrei ... fare i miei più vivi complimenti a tutti coloro che hanno collaborato a questa vostra bellissima ultima realizzazione. Io la mia copia la conserverò comme on ecouterait la Muse ..."

Buona lettura.

sabato 9 maggio 2015

La poesia della domenica - Marianne Boruch, Alla casa di Keats, Roma

                          
ALLA CASA DI KEATS, ROMA

Quanto durerà ancora questa mia vita postuma?
                                 - John Keats, 1821, il mese prima di morire

Solo a pensarci, anche solo in parte—
Disegna e basta, pensai.
E annota il colore della stanza per dopo perché
che caos farei lì dentro.    
Così scrissi parole, il muro
non proprio uovo di pettirosso, il pavimento, una vecchia patina rosso
scuro. Feci uno schizzo
a matita: finestra, quelle mattonelle sotto i piedi,
scarabocchi incorniciati come quadri,          
un grande letto a barca di mogano lucido, i miei versi
a malapena, per quel che potevano
valere alla fine, una guida alla Roma di una volta,
quasi dall'altra parte del pianeta.
                                                   E le settimane slitterebbero
avanti di un'ora o due,
i miei acquerelli, a casa: a lavorare
come si fa con le poesie, come la memoria annoda e slega,
il verbo più immediato —è è è— che baratta
ogni vita passata con l'eterno presente, scherzo della luce come se
non ci fosse ombra. Keats l'ha fatto,
poi non è stato meglio.
La sua stanza è in parte una menzogna, la sua tisi a torto:
equiparata alla peste su cui soffiavano le trombe
della legge vaticana. Il letto vero? Bruciato.
E le lenzuola, le pesanti tende, la carta da parati strappata
dal soffitto al pavimento. Dio non voglia
che rimanga nell'aria il suo respiro. Lettere che non riusciva
ad aprire, coraggiosi
a conservarle, forse illegali, suppongo          
più indelicate, sepolte con lui,
una pala, dieci minuti
di terra che cade. Non senza stelle, senza luna.
Strano, seppelliamo la gente
quando ha chiuso con noi.              
                                            Chiunque guarda
vede la scalinata di Piazza di Spagna da
quella finestra, il suo salire e rovinare sbilenco come un’enorme,
vecchia fisarmonica dove l'emozione arriva
quando si allarga, un lento movimento vorticoso, estenuante.                                              
E l'ansimare—
benché sentissi solo grida, risate, rumore di traffico.
Pure la fontana là in mezzo, un'opera modesta
dell'altro Bernini, il padre poco noto
dello scultore, che segna il punto più lontano             
raggiunto dal Tevere in piena , la forma
una piccola barca che affonda, un frantume di pietra,
e lo spruzzo —comunque, comunque
delicato, continuo.
                                              Il rumore qualche volta può                            
essere musica. O un frammento,
una frase. O mese che oscura  mese
può capovolgersi, luminoso come raggi X. La mano
regge una matita per trovare — finalmente! per un attimo,
nessun attimo. Questo vuol dire                     
fare disegni.  Quelli sparsi fanno strada
come se felice
e triste si incontrassero meglio in qualche
sfocato aldilà dove nessuno saprà mai
più dell'altro. Keats. La sua maschera mortuaria sta sospesa
in quella sorta di scatola di plexiglass fissata al muro,
gli occhi-di-un-tempo chiusi, la faccia-di-un-tempo
una faccia, un gesso bianco verdastro inquietante.
                                                                    Cancellai e disegnai di nuovo.
Sembra che stia sognando,                             
non è vero? Chi c'era nella stanza,
lei naturalmente capivo
quello che diceva, che non era sola dove
il suo inglese strideva ma in tutta Roma— Roma! —
questo luogo sacro proprio per quella lingua.                             
Sogno, il codice comune per mistero,
per raffigurare ogni frammento rimasto: il passato nel presente,
vita, morte, grandi poesie,
nessuna poesia degna di essere letta
o scritta da qualcuno. O lei era solo              
gentile, voleva essere gentile, da sconosciuta a sconosciuta, perché quella
lingua per strada
come Keats deve averla sentita— parte frastuono,
parte nota alta trattenuta, e per lo più
un velo. La mia distratta                 
                                             assenza di risposta
fu scortese. E nemmeno
sincera. Vedi, la finestra doveva essere giusta,
il soffitto riportato dalla matita
alla carta, stesso stesso                    
fiore, intarsio dopo intarsio inciso
in modo maniacale là sopra.
                                              Ha una sua
bellezza, disse, incerta
come una traduzione.


AT THE KEATS HOUSE, ROME

                        How long is this posthumous life of mine to last?
                                   - John Keats, the month before his death, 1821

Even to think, any of it— 
Just draw, I thought.
And note color in his room for later because
what a mess I’d make in there.
So I wrote words, the wall
not quite robin’s egg, the floor’s old dark
a maroon.  I sketched
with pencil: window, those tiles underfoot,
scribbles framed for paintings,
a big boat bed of shiny mahogany, my lines
barely, as long as they would
mean in the end, a guide for Rome once,
halfway across the planet.
                                           And weeks would slip
before an hour or two,
my watercolors, at home: to work
the way poems get made, like memory knots and unties,
most immediate verb—is is is—trading up
any past life to eternal present, trick of light as if
there is no shade.  Keats did,
then he didn't get better.
His room is part-lie, his TB wrongly
exactly the Plague where Vatican law aimed            
its trumpets.  The real bed? They burned it. 
And bedclothes, the heavy curtains, wallpaper ripped
ceiling to floor.  God forbid
what he breathed out stay.  Letters he couldn’t
bear to open, brave
keeping those, probably illegal, think
more unpretty, buried with him
a shovel, ten minutes
of falling dirt.  Not starless, moonless
Funny, we put people in the ground
when they're done with us.
                                                    Whoever looks
sees the Spanish Steps from
that window, their rise and ruin crooked as an old,
vast accordion where the thrill is
it widens, a giddy slow-motion, exhausting. 
And the wheeze—
though I heard only shouts, laughter, traffic sounds. 
The fountain there too, a modest affair
of the other Bernini, the sculptor’s
unfamous father, marking the most distant spot
the Tiber flooded, its shape
a small boat that foundered, broken thing of stone,
and the spray—anyway, anyway
delicate, continual.
                                           Noise can sometimes
be music.  Or a fragment,
a sentence.  Or month blackening month
can reverse, luminous as x-ray.  The hand
holds a pencil to find—at last! for a moment,
no moment.  That’s what it is
to make drawings. The loose ones give way
as though happy 
and sad meet best in some
blurry afterlife where neither will ever know
more than the other.  Keats. His death mask floats                  
in that kind of plexiglass box screwed to the wall,
his once-eyes closed, his once-face
a face, eerie greenish white plaster.
                                               I erased and drew again.
Looks like he’s dreaming,
doesn’t it?  Who was that in the room,
her of course I’d get
what she said, that she wasn’t alone where
her English jarred but in all of Rome— Roma! —
this sacred place for it. 
Dream, the usual code for mystery,
for figuring any last bit: past into present,
life, death, great poems,
no poems worth the reading or why anyone
would write them.  Or she was simply
nice, being nice, stranger to stranger, because that
language in the street
how Keats must have heard it—part racket,
part high-held note, and mostly
a veil. My distracted
                                      no answer at all
was unkind.  And not
even true.  See, the window had to be right,
the ceiling brought down by pencil
to paper, same same
flower, inlay after inlay carved
to a madness up there.
                                    He’s sort of
beautiful, she said, tentative

as translation.

Traduzione a cura del Laboratorio di Traduzione di Monteverdelegge     

giovedì 7 maggio 2015

Una poetessa della Corte Imperiale del Giappone: Ono no Komachi

Ono no Komachi (?825-?900) fiorì nel primo periodo Heian; le notizie biografiche sono rare. È incerto se ella ricoprì il ruolo di concubina imperiale; probabile che fosse, almeno, elemento di spicco della corte.
Tali sparuti ragguagli sfumano perciò nella leggenda: in tal modo, fortunatamente per chi ama la poesia, la produzione lirica e la vita si fondono inestricabilmente e concrescono inevitabili.
Una parte della leggenda la vuole bellissima, talmente bella che il nome, Komachi, è usato tuttora per indicare fanciulle di particolare venustà.
Un'altra la vuole in disgrazia nella seconda parte della sua vita; forse, più che perdere i favori imperiali, ella si convertì a un più fervente spirito religioso, quello buddista. A questa tradizione si ispira una celeberrima opera del teatro No, Komachi in Sekidera: in essa un prete buddista reca i propri allievi presso una donna centenaria che, si dice, possiede l’arte della vera poesia: e sarà la vegliarda a rivelarsi agli sbalorditi visitatori come la grande Komachi.
Di Ono no Komachi sopravvivono circa cento composizioni, scritte nella forma waka: brevi liriche di trentuno sillabe disposte in cinque versi (5-7-5-7-7). Ad esempio (Ero persa in pensieri d’amore):
omoitsutsu
nureba ya hito no
mietsuramu
yume to shiriseba
samezaramashi o

Le poesie entrarono a far parte della silloge poetica Kokinshū, curata, per volere imperiale, dal poeta Ki Tsurayuki durante la prima decade del decimo secolo.
Le sottostanti versioni si basano sulla traduzione in inglese operata da Jane Hirschfield e Mariko Aratani nell'agile antologia The ink dark moon. Si è cercato, nella resa in italiano, di rispettare almeno il ritmo waka (5-7-5-7-7) alternando, piuttosto rozzamente, settenari e novenari.
Una manciata di composizioni di Komachi compaiono nell’antologia Il muschio e la rugiada, curata da Mario Riccò e Paolo Lagazzi (la prima edizione è del 1996; l’ultima del 2013). 
Non sono riuscito a trovare altre traduzioni.
Evidentemente, ad appena undici secoli di distanza, i nostri editori hanno meglio da fare; per loro vale il detto: ubi minor maior cessat.

I

Troppo forte la voglia,
non può tenerla alcun limite.
Che nessuno mi biasimi
almeno, se la notte a te vengo,
a te, per il cammino dei sogni.

II

Un canto di cicale
nel tramonto che il giorno chiude
lassù - al mio villaggio.
Chi mai verrà a farmi visita
stasera - chi, se non il vento?

III

Lunga solo a parole
scorre la notte dell'autunno.
Cosa facemmo allora
se non fissarci l'un con l'altra?
Ed ecco, già spuntava l'alba.

IV

No, non posso vederlo
stanotte, scura notte senza luna.
Son distesa, ancor desta,
e per la voglia brucio, nel petto
un fuoco scorre, in fiamme è il cuore.

V

Ero persa in pensieri
d’amore quando gli occhi io chiusi?
Allor egli m’apparve.
Capire ch’era un sogno!
Mai, oh, mai mi sarei destata.