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domenica 2 agosto 2015

A Montemario, Roma, ho visto l'orrore


G. Luca Chiovelli

Il guidatore che scivoli lungo la via della Pineta Sacchetti in direzione Montemario, si troverà, oltrepassato l'ospedale Gemelli, a un bivio: a destra proseguirà per il detto quartiere o per la via Cortina d'Ampezzo e Camilluccia; a sinistra verrà inghiottito dai tunnel della galleria Giovanni XXIII.
Se il nostro viaggiatore è un tipo curioso, o attento ai particolari o, semplicemente, gli sarà sfuggita un occhiata casuale, potrà avvedersi di uno strano manufatto, proprio al di sopra degli imbocchi della succitata galleria, situato su una sorta di terrazzino; un monumento postmoderno, di quelli che il Comune si compiace a inaugurare ogni tanto e che, oggi, da tutti dimenticato, si rivela per quello che è: un rugginoso lascito della stupidità e dell'insensatezza.
Negli anni addietro l'avevo notato molte volte, rimandando, però, la perlustrazione.
Ora, alle soglie dell'agosto, improvvisamente, decido l'avventura.
Lascio l'automobile alle spalle della struttura di cemento sovrastante la galleria; qui, infatti, s'aprono una serie di parcheggi, vasti e deserti. L'asfalto e i marciapiedi sono sbriciolati, il pattume, ereditato da anni d'incuria, si compatta, struggendosi in una nuova entità materica: una sorta d'agente dell'entropia metropolitana, vivo e senziente, e in grado di riprodursi e attaccare ogni organismo ed oggetto che rivendichi un qualsivoglia ordine: ciò che Philip Dick chiamava kipple.


 La vista dalla terrazza: dalle viscere entra ed esce il traffico della galleria Giovanni XXIII


Siamo sulla terrazza, proprio sopra l'imbocco delle gallerie.
Il luogo è fitto di stoppie bruciate dal sole. Un prato di sterpi scarmigliati e spinosi commisto a bicchieri e bottigliette di plastica, confezioni di merendine e gelati, carte luridissime e merde di cane: quasi una nuova flora artificiale. 
Sono circa le quattro del pomeriggio.
Nonostante la vicinanza di due popolosi quartieri, dell'ospedale più grande di Roma nord e di una delle vie più trafficate della capitale, si prova un senso di solitudine schiacciante.
Ma non è la solitudine ristoratrice invocata da Francesco Petrarca nel De vita solitaria, o dal lavoratore che stacca dalla propria occupazione manuale. Questo, al contrario, è un senso di solitudine disperante, che nasce nell'animo dell'uomo quando si rende conto che il luogo in cui vive, il proprio mondo, non è fatto per sé e per i proprio simili.
La canicola smorza ogni suono. Persino i sistri delle cicale ammutoliscono. Si avvertono unicamente due rumori: lo sfrecciare delle auto, poco sotto, incessante, e un cupo bordone sonoro, profondo e cavernoso: probabilmente il borbottio dei macchinari del vicino Gemelli, i cuori meccanici che sorreggono l'intero ospedale, una città nella città.
Questo è davvero un non-luogo: inumano, altro; orribile.


Solo un grande scrittore fantastico è riuscito a trasmettere la verità di tale sensazione. James G. Ballard ne L'isola di cemento. Nel racconto, il protagonista Robert Maitland, un professionista di successo, ha un incidente: dopo essere sbandato con la propria Jaguar lungo una scarpata, si ritrova in un avvallamento incolto e solitario; un terreno ritagliato da veloci passanti autostradali, una sorta di risulta abbandonata dopo enormi lavori di urbanizzazione.
In quel luogo-non luogo Maitland naufragherà, psicologicamente e materialmente; nonostante sia circondato dalle arterie pulsanti della modernità, che pompano continuamente automobili e vite appena sopra di lui. 


Ma lasciamo le vertigini metafisiche per tornare alla fanga del buon senso e dell'attualità.
Questo accrocco sghembo di metallo cos'è?
Un totem  post-apocalittico? Un Minosse idiota che vigila sul traffico inghiottito da tunnel infernali? Un memento del nulla? O una creazione astratta per invogliare i cani a pisciare?
E cos'era in origine?
Avrà significato qualcosa per alcuni urbanisti, architetti, artisti?
Saranno mai esistiti funzionari comunali che hanno vagliato alternative, inoltrato pareri, proposto ubicazioni, targhe, omaggi?
E ci sarà stato un organismo politico che, infine, ha approvato tutto questo?
Un Abu al-Baghdadi comunale a cui addossare una, pur inutile, responsabilità?
Ancora più difficile: c'è mai stato un romano, fra quelli che hanno vantato potere decisionale, a rendersi conto di tale bruttura? A capire che, in tal modo, si strappava alla storia e alla bellezza una parte della città più importante del mondo per consegnarla irreversibilmente alla degenerazione e al degrado?
C'è ancora qualcuno in grado di sentire nell'animo queste atrocità? 
Se mai dovessi stilare un baedeker romano della follia e della depressione questo luogo comparirebbe di sicuro.


A duecento metri dall'orrore, inopinatamente, un'apparizione miracolosa, insperata.
Un mozzicone della campagna romana d'un tempo; le lacerta d'una entrata fondiaria (si è nei pressi dell'antica tenuta di Sant'Agata) oppure un'edicola mariana,  non saprei.
Un residuo prossimo alla cancellazione: Via Trionfale 8062.
Chissà quando capitolerà questo rudere impertinente!
Pian piano, una breccia alla volta.
Magari, dopo una pioggia intensa, deciderà il suicidio, come è spesso avvenuto: come è stato, per esempio, per lo splendido portale barocco delle Mura dei Francesi a Ciampino (vedi il relativo post). Sì, quando il passato si sente trascurato e vilipeso, esso decide il suicidio. 
Un giorno non lontano queste vecchie ossa rovineranno, in una breve nuvola di polvere e pietrisco; la nettezza urbana provvederà a spolverare via il grosso del materiale; l'area verrà, perciò, circondata dai nastri, sotto gli occhi scocciati di qualche vigile. In seguito, quando i nastri scoloriti dal sole e dalla pioggia fluttueranno brancicando ciechi nell'aria, arriverà l'asfaltatura, sollecitata dai solerti comitati di quartiere: e allora si spianerà pure quel moncone invadente: al suo posto una passata di bitume odoroso.
Di questo minuscolo luogo non rimarrà traccia alcuna, se non in qualche riga zelante sepolta in chissà quale libro che nessuno leggerà, ovviamente, perché chi ha interesse, oggi, a leggere cosa eravamo e cosa siamo diventati? Noioso, pedante; uffa! E porta pure jella.
Avverrà questo, è certo, me lo sento nelle ossa.
E tale sarà per Roma. Inutile accanirsi.

giovedì 28 maggio 2015

Archivi al macero a Monteverde. Con le consuete, inutili, riflessioni.


Gianluca Chiovelli

La biblioteca Umberto Barbaro, ospitata presso la Casa dei Teatri a Villa Pamphili, Municipio XII, è sotto sfratto; questo accade nonostante un contratto di comodato valido sino al 2028.
Ignoro i contenuti e gli addentellati giuridici della vicenda, ma la sostanza è questa, in un guscio di noce.
La biblioteca Barbaro possiede un patrimonio di circa 25.000 unità (sceneggiature, saggistica, periodici nazionali e internazionali) che trattano quasi esclusivamente di cinema.
La sede originaria era in Via Nazionale, presso il Palazzo delle Esposizioni; la Umberto Barbaro migrò una prima volta nel 2000; rimase quindi in un limbo per 5 anni; nel biennio 2005-2006 trovò, come detto, una propria collocazione all'interno della Casa dei Teatri (occupava tutto il secondo piano).
Da allora subì una morbida escalation di espropri: alcune sale vennero donate ad altre associazioni e realtà dell'ambito teatrale; un grande spazio fu, invece, riservato alla sala per incontri e proiezioni. Una sorta di mobbing alla vaselina.
A tutt'oggi gli indiani della Biblioteca Barbaro vivono, mal sopportati, in una riserva d'un trenta metri quadri.
Da luglio, però, dovranno mettersi in marcia di nuovo.
Il Comune di Roma (o il Municipio) ha individuato, evidentemente, alcune realtà irresistibilmente più importanti della Biblioteca di cui stiamo discorrendo e che meritano, altrettanto irresistibilmente, d'essere parcheggiate nell'invidiato spazio immerso nel verde della storica villa. Si può far aspettare questi novelli Shakespeare? No, ovviamente. Ubi minor maior cessat.
Il trasloco è, perciò, imminente.

[I quindicimila volumi stipati nella terra di nessuno, ovvero presso l'ex Fiera di Roma, area dismessa da anni. Un patrimonio alla mercé dell'incuria, dei ladri, di tutti: da un decennio].

Il patrimonio contenuto nella sede della Casa dei Teatri dovrà, in tutta fretta, essere inscatolato e portato altrove. Tale patrimonio (circa 10.000 unità) non esaurisce l'intero archivio della Biblioteca. Una parte doppiamente consistente (400 casse, 15.000 unità) è parcheggiata, da parecchi anni, presso la sede dismessa e fatiscente della Fiera di Roma, sulla via Cristoforo Colombo.
Dove andranno a finire i nostri profughi? Verranno forse ospitati nella sede del Movimento Operaio e Democratico (a Ostiense); l'ex AAMOD, altra realtà cacciata da Monteverde. O forse no. Queste notizie le conosco de relato, devo quindi applicarvi un dubbio.
Forse verranno ospitati. O forse no.
[L'ex Fiera di Roma sulla via Cristoforo Colombo. Una immagine degna di un film post apocalittico di Romero, L'alba dei morti viventi o La città verrà distrutta all'alba].

In ogni caso (ospitati o meno) una parte dell'archivio dovrà essere soppressa; causa spazio.
La Biblioteca non ha i fondi per pagare, purtroppo, l'affitto annuale d'un magazzino.
In ogni caso (questa è una mia deduzione, ma sono sicuro di non sbagliare): se anche i nostri eroi dovessero salvare tutti i libri, tutti, sin all'ultima pagina, questi sarebbero, di fatto, al macero.
Se gli archivi vengono messi in condizione di non essere consultati, infatti, essi non esistono.
Se gli archivi e le biblioteche vengono, di volta in volta, riposizionati in luoghi sempre più esotici e fuori mano, come un soprammobile regalato dalla suocera, essi cessano d'avere qualsiasi utilità e funzione sociale per assurgere a pura testimonianza e deperire, quindi, nell'indifferenza.
[Qui sopra il kipple, come presagito da Philip K. Dick: "Il kipple è fatto di oggetti inutili, inservibili, come la pubblicità che arriva per posta, o le scatole di fiammiferi dopo che hai usato l’ultimo, o gli involucri delle caramelle o l’omeogiornale del giorno prima. Quando non c’è più nessuno a controllarlo, il kipple si riproduce. Per esempio, se quando si va a letto si lascia un po’ di kipple in giro per l’appartamento, quando ci si alza il mattino dopo se ne trova il doppio. Cresce, continua a crescere, non smette mai".]

Cosa accadrà, insomma, al patrimonio della nostra biblioteca sfrattata?
Quale sarà il destino di tali libri, volumi, atti, periodici, spesso unici?
Non ho alcun dubbio a tal riguardo: si suicideranno.
Sembra una battuta, vero? Ma è un fenomeno usuale. L'ha illustrato anche Pasolini. Vi ho scritto anche qualcosa sopra. Se un libro o un essere vivente o un oggetto qualsiasi (un paesaggio, una chiesa, un affresco, un animale, un anziano) non sono amati d'un amore vero, ma solo sopportati (per viltà, convenienza, ipocrisia) essi pongono fine alla propria esistenza, al di là del naturale decadimento.
Un libro, ad esempio: perde baldanza, s'accartoccia su se stesso, si sforma, s'abbatte sugli altri compagni, fratelli nella disfatta; le legature cedono, la carta ingialla; esso abbandona, quindi, ogni difesa, lasciandosi sopraffare da topi, pesciolini d'argento, tarme, fioriture, improvvise muffe. È così. Un libro è il passato, e, quindi, il presente e il futuro. E quando si sbriciola definitivamente l'amore per la memoria, i libri (e le biblioteche e gli archivi), latori d'essa, seguono nel lento annichilimento, consapevoli d'essere di troppo, così come i vecchi Hopi si consegnavano alla morte nei pueblos abbandonati.
[L'ex gloriosa entrata della Fiera di Roma, ma anche il rovescio del capitalismo illimitato che divora se stesso e rilascia le scorie del proprio corpo devastato. La morte di ogni umanesimo].

È la vittoria del menefreghismo, dell'ignavia politica, locale e nazionale, dell'ignoranza crassa, della sciatteria, della stupidità eletta a sistema, certo; siamo consapevoli d'essere governati, anche nei quartieri, da criminali e gaglioffi.
Ma è soprattutto la vittoria dell'eterno presente, un modo di vivere postmoderno imposto dallo spirito dei tempi - tempi in cui non c'è spazio per la tradizione, per i maestri e per l'insegnamento che viene dal passato, più o meno recente.
L'eterno presente ha forgiato un nuovo uomo, quello riprovato da Eraclito: uno sciocco per cui il sole è nuovo ogni giorno; egli non ricorda nulla, né il sole del giorno innanzi, né quelli dei giorni precedenti, nulla; s'appaga del momento, come un cretino senza tempo.


È la vittoria anche d'una particolare concezione del libro.
Il libro come puro contenuto, il libro aereo, digitale.
Ormai si ragiona: perché devo stampare l'Ulisse di Joyce in edizione acconcia, (copertina rigida e di buon materiale, cuciture, carta preziosa e duratura, caratteri aggraziati, nitidi, ben impressi, illustrazioni curate) quando posso editare una brossura qualsiasi o smaterializzarlo in epub, pdf, kindle, guadagnandoci il doppio o il triplo?
Il contenuto è lo stesso!
Una concezione mercantile inoppugnabile.
Peccato che l'Ulisse di Joyce in pdf o in brossura non sia lo stesso libro, ma un decadimento gnostico dell'originale, un mister Hyde di quarta mano.




Il rapporto con una edizione smaterializzata o mediocre non offre lo stesso piacere, lo stesso godimento, e il coinvolgimento emotivo che ci fa capire più profondamente l'opera. I nostri sensi (vista, tatto, olfatto) non son certo mutati solo perché gli editori hanno deciso di massimizzare i margini di profitto.
Una copia smaterializzata o mediocre è brutta. Brutta. Ovvero: non è bella. A volte è ripugnante. Allontana i sensi, la curiosità, la partecipazione dell'anima, l'entusiasmo. Anche se il contenuto è lo stesso.
Una copia smaterializzata o mediocre non fa parte della tradizione; non forma un patrimonio di famiglia; non ha valore intrinseco; non è culturalmente trasmissibile. È un'usa e getta, nel migliore dei casi, o una pura alterazione del silicio nel pc.
Una copia smaterializzata o mediocre è indistinta, fungibile. Tra Joyce e la Mazzantini le differenze si assottigliano inevitabili. Alla fine non si legge più Joyce, poi neanche la Mazzantini.
Una copia smaterializzata o mediocre rifugge dalla cultura, dal bello, dal ricercato; si stabilizza entro territori standardizzati dalla propaganda: è mediocrità sempre più mediocre che riproduce se stessa; è l'innesco d'un circolo vizioso in cui la grossolanità e il gusto triviale richiedono ancora grossolanità e faciloneria.
Il libro, così concepito, si riduce inevitabilmente entro territori consueti e risaputi (sempre gli stessi) che escludono ferocemente larghe porzioni di sapere, quelle più profonde e significanti, alternative, inconsuete; il destino di queste ultime, le sole che suscitino la curiosità e lo zelo per la conoscenza, e una visione eccentrica e originale, è l'oblio; l'oblio e, perciò, la progressiva distruzione.
Le sceneggiature originali, i pressbook, le riviste introvabili, gli atti dei convegni, le carte olografe di Antonioni e Visconti, tutto il materiale della Umberto Barbaro, insomma, rappresenta una di tali regioni della cultura e della memoria avviate alla scomparsa irrimediabile.
Come Hal 9000, il computer di 2001: Odissea nello spazio, veniva lentamente svuotato delle unità di memoria sino a ridursi all'infantilismo catatonico ("Giro giro tondo, io giro intorno al mondo/Le stelle d'argento costan cinquecento ..."), così sarà per noi, appagati dal mediocre a getto continuo, spossessati d'ogni capacità di analisi del reale, di ogni capacità di discernimento del bello, d'ogni carica eversiva.

[Facciamo notare, en passant, che la Nuova Fiera di Roma sta sprofondando, dopo pochi anni, in un terreno paludoso (come la Casa Usher?), è carica di 200 milioni di buffi e si appresta a chiudere a sua volta, salvo miracoli (leggi: saccheggi di casse pubbliche).
Ma il progresso deve andare avanti, perbacco].

domenica 31 agosto 2014

Il racconto della domenica - Philip K. Dick, Ora tocca al wub

Avevano quasi finito di caricare. All'esterno l'Optus se ne stava a braccia conserte, scuro in volto. Il capitano Franco scese lentamente giù per il ponticello di sbarco, con un ghigno dipinto sulle labbra.
«Che ti succede?» disse. «Sei pagato per questo.»
L'Optus non disse nulla. Si girò dall'altra parte, raccogliendo i suoi abiti. Il capitano mise il piede sull'orlo del vestito.
«Un attimo. Non te ne andare. Non ho finito.»
«Eh?» L'Optus si girò pieno di sussiego. «Sto tornando al villaggio.» Guardò gli animali che venivano caricati lungo il ponte nella nave. «Devo organizzare nuove cacce.»
Franco si accese una sigaretta. «Perché no? Voi potete andarvene nel veldt e catturarli di nuovo. Ma quando noi ci troveremo a metà strada fra Marte e la Terra…»
L'Optus se ne andò, senza dire una parola. Franco si rivolse ad uno degli ufficiali in seconda in fondo al ponte di sbarco.
«Come sta andando?» domandò. Poi diede un'occhiata al suo orologio da polso. «Qui abbiamo fatto un bel carico.»
L'ufficiale in seconda lo guardò in tralice. «Come lo spiega?»
«Che le succede? Ne abbiamo bisogno più noi di loro.»
«Ci vediamo più tardi, capitano.» L'ufficiale in seconda salì su per il ponte, in mezzo agli uccelli marziani dalle lunghe gambe ed entrò nella nave. Franco l'osservò mentre spariva; stava per andargli dietro, lungo il passaggio che conduceva al boccaporto, quando lo vide.
«Buon Dio!» Rimase lì a guardare, con le mani sui fianchi.
Peterson stava arrivando lungo il sentiero, rosso in volto, tenendolo per una corda.
«Mi scusi, capitano,» disse, dando degli strattoni alla corda.
«Che cos'è?»
Il wub se ne stava ripiegato, muovendo a fatica il grosso corpo. Si mise a sedere, con gli occhi semichiusi. Qualche mosca ronzò intorno ai suoi fianchi, e lui agitò la coda.
Era seduto. Ci fu silenzio.
«È un wub,» disse Peterson. «L'ho comprato da un indigeno per cinquanta centesimi. Ha detto che si tratta di un animale molto insolito; molto importante.»
«Questo?» Franco diede un calcio al grosso fianco pendente del wub. «È un maiale. Gli indigeni lo chiamano wub.»
«Un grosso maiale. Deve pesare almeno duecento chili.»
Franco strappò un ciuffo di peli ispidi. Il wub ansimò, e aprì gli occhi piccoli e umidi. Poi la sua grossa bocca si contorse.
Una lacrima scivolò giù lungo la guancia del wub e gocciolò sul pavimento.
«Forse è buono da mangiare,» disse nervosamente Peterson.
«Lo sapremo presto,» disse Franco.
Il wub sopravvisse al decollo, profondamente addormentato nella stiva della nave. Quando furono nello spazio aperto ed ogni cosa seguiva tranquillamente il suo corso, il capitano Franco ordinò ai suoi uomini di portare su il wub in modo che lui potesse rendersi conto di che razza di animale si trattava.
Il wub grugnì ed ansimò, facendosi strada faticosamente lungo lo stretto corridoio.
«Andiamo,» disse Jones con voce aspra, tirando la corda.
Il wub si contorceva spellandosi i fianchi contro le lucide pareti di cromo. Piombò nell'anticamera e si gettò a terra in un mucchio informe. Gli uomini balzarono lontano.
«Buon Dio,» esclamò French. «Che cos'è?»
«Peterson dice che è un wub,» rispose Jones. «È suo.»
Diede un calcio al wub il quale si sollevò pesantemente, rantolando.
«Che gli succede?» intervenne French. «Sta male?»
L'osservarono. Il wub roteò gli occhi con aria mesta, guardando gli uomini che lo circondavano.
«Forse ha sete,» disse Peterson. E andò a prendergli dell'acqua.
French scosse il capo.
«Non mi stupisco di aver avuto tutti quei problemi per decollare.
C'erano da rifare tutti i calcoli della zavorra.»
Peterson tornò con l'acqua. Il wub prese a leccarla con aria riconoscente, schizzando tutti.
Il capitano Franco apparve sulla porta.
«Diamogli un'occhiata.» Si fece avanti scrutandolo di traverso.
«L'hai comprato per cinquanta centesimi?»
«Sì, signore,» disse Peterson. «Mangia quasi tutto. Gli ho dato del grano e gli è piaciuto. E poi patate, pastoni e avanzi del pranzo, e latte. Sembra che gli piaccia mangiare. E dopo aver mangiato si mette disteso e si addormenta.»
«Vedo,» fece il capitano Franco. «Ora, per quel che riguarda il suo sapore… Questo è il vero problema. Mi chiedo se valga la pena di farlo ingrassare ulteriormente. Mi sembra già abbastanza grasso. Dov'è il cuoco? Lo voglio qui. Voglio scoprire…»
Il wub smise di leccare e alzò lo sguardo sul capitano.
«In verità, capitano,» disse il wub. «Io suggerirei di cambiare argomento.»
Il silenzio scese nella sala.

giovedì 10 luglio 2014

Vita e sogno, pagine di uno stesso libro

G. Luca Chiovelli

- IV secolo a.C. Platone, VII libro de La Repubblica:
“Si immaginino degli uomini chiusi fin da bambini in una grande dimora sotterranea, incatenati in modo tale da permettere loro di guardare solo davanti a sé. Dietro di loro brilla, alta e lontana, la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada con un muretto. Su questa strada delle persone trasportano utensili, statue e ogni altro genere di oggetti; alcuni dei trasportatori parlano, altri no. Chi sta nella caverna, non avendo nessun termine di confronto e non potendo voltarsi, crederà che le ombre degli oggetti proiettate sulla parete di fondo siano la realtà; e che gli echi delle voci dei trasportatori siano le voci delle ombre”.

- IV-III secolo a. C. Aneddoto del maestro Zhuāngzǐ:

"Una volta Zhuāngzǐ sognò di essere una farfalla, una farfalla che svolazzava qua e là spensierata.
Non sapeva di essere Zhuāngzǐ.
Improvvisamente si svegliò ed ecco che era di nuovo Zhuāngzǐ.
Ma ora non sapeva più se era Zhuāngzǐ che aveva sognato di essere una farfalla oppure se era la farfalla che stava sognando di essere Zhuāngzǐ".

- 54 d. C. San Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 13, 12
"Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto”. (Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum)

- I secolo d. C., Vangelo secondo Giovanni, 14, 30

"Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il Principe di questo mondo ..."

- III secolo d. C., Ipostasi degli Arconti (dai codici gnostici di Nag Hammadi).

Sophia crea, da sola (senza Gesù Cristo), Yahwhe (Samael, Yaldabaoth) ovvero Satana, il Demiurgo ingannatore, creatore del mondo materiale:

"E prese la sua forma dall’ombra ed è diventato una Bestia Arrogante che assomiglia ad un leone. Ed è androgino, perchè è dalla materia che proviene.
Aprì gli occhi e vide un grande quantità di materia senza limiti, ed egli divenne arrogante, dicendo: 'Sono io che sono Dio, e non c’è nessun altro a parte me'".

domenica 26 gennaio 2014

L'incipit della domenica - Cacciatore di androidi

Quasi tutti ricordano il film Blade runner, diretto da Ridley Scott nel 1982. Molti meno hanno letto il romanzo di fantascienza da cui la pellicola è tratta: Cacciatore di androidi, ora recentemente titolato Ma gli androidi sognano la pecora elettrica?, in giusto ossequio al titolo originale (Do androids dream of electric sheep?). Peccato: il romanzo è parecchio superiore, per complessità di temi, al suo derivato cinematografico.
Cos’è l’uomo? Quale la sua essenza? È più un umano un androide che canta arie d’opera o un uomo psicopatico e dalle emozioni prosciugate?
E qual è l’essenza della realtà? Son più reali i ricordi artefatti impiantati negli androidi o quelli umani? Entrambi, infatti, hanno pari dignità per chi li vive.
E ancora il tema del doppio: in Cacciatore di androidi tutto rimanda ad altro: due test per individuare gli androidi, due donne assolutamente uguali (Rachel e Pris), due città parallele.
Abbiamo poi gli spunti tipicamente fantascientifici: l’olocausto animale (la fauna, sterminata da un’epidemia, viene sostituita con doppi cibernetici), le piogge acide, lo spopolamento delle città.
L’ansia metafisica: l’incalzare della morte delineata come progressiva cessione di sovranità dell’umano di fronte al kipple, neologismo coniato da Dick per significare confusione, anarchia, degrado, sporcizia, entropia – la dissoluzione della logica, della ragione.
Il mondo dei freak: quello dell’ingegnere cibernetico J. R. Isidore, malato, solitario e disperato che riversa proprio negli androidi la propria empatia.
Il fascino hard boiled: Deckard l’investigatore, la suspense gialla, le dark ladies, il villain.
E l’inimitabile stile di Philip Dick: quello di tratteggiare con verosimiglianza un ambiente futuribile descrivendo una semplice scena di vita quotidiana. Ecco, nell’incipit, il normale risveglio di una coppia sposata; subito, però, con naturalezza, lo scrittore inserisce le sue trovate stranianti: l’accenno al mestiere di killer di androidi; il regolatore artificiale di umore; una pubblicità di tute antiradiazione; la frustrazione di possedere solo una pecora elettrica invece di un costoso e, ormai, rarissimo animale vivente …
Pynchon, De Lillo, Roth; David Foster Wallace, Ellis ... ma lo scrittore americano più importante del dopoguerra è, assieme a Cormac McCarthy, Philip K. Dick. Non può essere altrimenti.

Philip K. Dick
Una minuscola e allegra vibrazione elettrica, trasmessa dalla soneria automatica e proveniente dall’organo degli umori, accanto al suo letto, svegliò Rick Deckard. Sorpreso (trovarsi sveglio senza preavviso lo sorprendeva sempre) si alzò dal letto, restò immobile un attimo nel suo variopinto pigiama e si stiracchiò.
Sua moglie Iran in quel momento aprì gli occhi, mesti, ma subito con un gemito li richiuse.
“Il tuo Penfield è troppo debole” l’avvertì. “Ora te lo regolo io, ti sveglierai e …”
“Giù le mani dal mio apparecchio!” La sua voce era aspra, e s’incrinò. “Non voglio essere sveglia".
Rick si sedette sul letto e si chinò su di lei, spiegandole dolcemente: “Se tu regoli l’onda abbastanza alta, sarai contenta di essere sveglia. Qui sta il punto. Mettendo l’apparecchio sul C, l’onda supera l’ostacolo dell’inconscio, come succede a me”. Amichevolmente, poiché si sentiva ben disposto verso il mondo (aveva regolato il suo apparecchio sul D) le batté una mano sulla spalla, nuda e pallida.
“Toglimi di dosso quella mano da poliziotto” ringhiò Iran.
“Non sono un poliziotto”. Si sentì irritato, anche se non aveva programmato questo umore.
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