martedì 15 ottobre 2013

Luigi Socci, la testa del poeta fra le forbici di senso


Luigi Socci, Il rovescio del dolore 
italic pequod, pp. 144, euro 10

Fabio Donalisio
Questo è il “primo” libro di Luigi Socci. Copre un periodo più che decennale (dal 1990 al 2004) e, come l’autore stesso esplica in una stringata nota, contiene testi in parte già variamente editi (su carta e non) e per la prima volta organizzati in un corpus coerente. Nella medesima nota Socci confida di essersi posto la – sacrosanta, e spesso glissata – questione se i succitati testi necessitassero la veste di libro, l’unica ancora considerata a vario titolo maior, almeno nell’intimo della camera caritatis del cuore. La risposta, dopo un certo evidente travaglio, è stata affermativa e immergendoci nei versi non possiamo che felicitarcene. Fin dalla copertina, piccolo tripudio di sobrietà e perfidia, in cui su un fondale di carta da pacchi si staglia la “caffettiera per masochisti”, un falsamente innocuo bricco rosso con manico e beccuccio sullo stesso lato, capiamo che il “rovescio del dolore” avrà poco a che fare con la gioia, e molto con la capacità di mantenere, sul dolore in sé, uno sguardo fermo e curioso. Pur rivelando tracce – nel suono, nella dispositio, nell’immaginario – della passione/ossessione dell’autore per l’archetipo-teatro e per la messa in voce (è performer di noto pregio e sardonicità), i versi di Socci godono (e fanno godere) di un’icastica letterarietà da pagina, da lotta/abbraccio con il bianco e il silenzio, di una tensione al minimo essenziale del detto intrecciata sempre di vigile e spesso malinconica ironia, quasi un Caproni della fisica, della briciola quotidiana.
Proprio dai brandelli delle giornate, da un mondo affettivo dominato dallo ieri e dal dopo, dagli oggetti sadici o, più di rado, complici, Socci tesse materia verso che, saltando a piè pari il doveroso understatement, fa inciampare (simpatizzato e anche deriso) chi legge nei problemi ultimi, nei dilemmi infinitamente replicabili e mai sintetizzabili del dolore, della fine, della morte. E della vita, per converso. Sadico e masochista lo è il poeta, in primis, che si fa sempre il primo dei lettori sgambettati, infilandosi con rigore in primis la propria testa tra le forbici di senso che mette in piedi. Anzi, in scena. Gode con voluttà evidente, ma controllata, delle infinite deformazioni possibili del significante, gioca con le parole per cercare di riportarne il contenuto al grado zero, scrostarne l’uso e costringere allo specchio del significato. A voler ben vedere, c’è un che di politico in questo. Non so e non importa quanto consapevole, ma c’è la consapevolezza politica del poeta come spazzacamino delle parole, come inesausto spazzolatore di certezze linguistiche, di inerzie semantiche. Tutto questo, e non potrebbe essere altrimenti, mescolato alla gioia narcisa del gioco, dell’inganno (sebbene quella di Socci sia a suo modo una poesia della verità), del teatro vuoto. È proprio questa gioia a poter rivendicare il ruolo di rovescio lanciato dal titolo. Una gioia provocatoria e dolente, una gioia vera. Come vero è il dolore che si dipana. Un dolore enorme, privato e pubblico, che i poeti hanno da sempre il compito di decrittare e ricrittografare (mai di spiegare), quando non si altera, come spesso succede, l’equilibrio tra ego e alter, e si cade nell’intimismo, nella maniera, o nel proclama.

Nessun commento:

Posta un commento