Maria Cristina Reggio
Che
cosa è un Padiglione delle meraviglie? Lo raccontava Ettore Petrolini nella sua
autobiografia, Modestia a parte
(1932): «(...) era, in quell'epoca, un
enorme piazzale consacrato alle baracche dei ciarlatani; ed era il ricettacolo
dei vagabondi e dei poveri guitti. C'era di tutto: perfino qualche cosa di
interessante, se non di buono. Era un'accozzaglia di passatempi per tutti i
gusti, uno più sollazzevole dell'altro, non escluso quello dell'alleggerimento
simultaneo del portafogli e dell'orologio. La grande piazza ospitava ogni sorta
di baracconi, dal tiro al bersaglio al museo anatomico, dal carosello al teatro
dei galli che cantavano e ballavano prodigiosamente sopra una lastra di bandone». Otto anni prima Petrolini aveva firmato anche
un testo teatrale, intitolato Il Padiglione
delle meraviglie, di cui Massimo Verdastro cura oggi un allestimento al Teatro
Vascello (testo integrale, con inserti di Elio Pecora) che finisce proprio oggi, domenica,
con la pomeridiana delle 18.00, con una scena inventata da Stefania Battaglia che ne
suggerisce gli attributi, se non propriamente le forme definite. Il palco è infatti uno spazio vuoto e
nero su cui si muovono macchine sceniche provvisorie e rudimentali, a evocare
la piazza Guglielmo Pepe allʼEsquilino, ormai cancellata dallo stradario romano
e rinominata "via"
perché schiacciata dai nuovi edifici: prima la Centrale del latte, adesso quel
che resta del mercato di Piazza Vittorio. Si trattava di una piazza che, alla fine dellʼOttocento,
veniva spesso occupata
dai baracconi delle fiere, e dove è sorto nel 1909 il primo moderno ed elegante
tempio del varietà romano,
il Teatro Jovinelli, dal
nome del suo fondatore , lʼimpresario teatrale Giuseppe Jovinelli, che tutti chiamavano però Peppino.
I personaggi
che abitano il Padiglione inventato dalla memoria autobiografica di
Petrolini drammaturgo sono quelli che lui stesso aveva conosciuto nelle sue
prime esperienze da artista di strada, prima di essere scritturato, come
ricorda, al Teatro Jovinelli: giocolieri, mimi, attori di un teatro povero e
scalcinato, ormai sulla via del declino: lʼimbonitore, impersonato dallo stesso
regista e attore Massimo Verdastro in costume clownesco, la primadonna sirena di
nome Elvira, con il corpo agilissimo di Manuela Kustermann, poi i lottatori, il
selvaggio antropofago, la donna del tiro a segno con i coltelli e la coppia di
anziani impresari, di nome Lalli (forse per assonanza con Jovinelli?). La pièce li presenta in una doppia
veste, per cui ciascuno mostra da un lato il suo "numero" circense,
ma dallʼaltro anche i travagliati rapporti interpersonali e sentimentali
allʼinterno della piccola comunità girovaga. Tiberio si consuma dʼamore per la
Sirena con cui da tempo ha una relazione, ma lei è però infatuata del
giovincello lottatore fascinoso, il Tigre, che a sua volta si scopre essere in
realtà più o meno felicemente ammogliato.
Il clou del dramma è nella lotta finale tra Tiberio e il Tigre, in cui
lʼerculeo bellimbusto viene quasi strozzato dal maturo innamorato respinto,
dopodiché questʼultimo, vincitore, fa ritorno mestamente alla propria tradita "normalità",
consegnando le chiavi della propria stanza alla malafemmina e intimandole con
questo gesto di tornare con lui.
Sulle prime viene in mente la trama del film di Tod Browning Freaks, che, otto
anni dopo la scrittura del Padiglione,
nel 1932, usciva nelle sale cinematografiche
americane, anchʼ esso interpretato da "fenomeni da baraccone",
ma tra le due opere esistono
macroscopiche differenze. Se, come nel dramma di Petrolini, anche nel film il forzuto del circo affascinava la bella
primadonna, tuttavia lʼepilogo in quel
caso era terribilmente tragico e,
soprattutto, nel film lʼattrazione era
costituita dai personaggi del circo,
interpretati da autentici freaks,
ovvero attori i cui corpi erano davvero gravemente deformi. Laddove lʼintento del regista americano era
di denunciare il cinismo reale presente nella società borghese rispetto alla diversità e alla
"disabilità" - un tema questo
di forte carattere sociale, comunque
oggi caro a molto teatro di ricerca - invece il Padiglione petroliniano si
interroga, e porge con eleganza la domanda al pubblico, su cosa ci sia ancora di cui meravigliarsi,
in un teatro - e, conseguentemente in un
mondo - in cui non cʼè più posto per il
tragico, ma solo per la parodia e per una comicità il cui carattere diventa sempre più mesto, come si conviene di fronte ad ogni fenomeno
in via di estinzione.
Nel teatro poetico di Petrolini non cʼè realismo
né tragedia, ma regnano piuttosto il cinismo e lʼeleganza, la malinconia e la
finzione. Tutti i personaggi del Padiglione sono "fenomeni da
baraccone" interpretati da artisti della menzogna, simulatori di lotte
erculee e di esposizioni ai lanci di coltelli, compresa la mitica Sirena che
ostenta una finta coda di paillettes, e il supposto antropofago proveniente dal
lontano Mazzabubbù. Il Padiglione delle meraviglie è il regno
dellʼinvenzione sadica finalizzata a stupire lʼallocco, a deliziare lʼingenuo che se ne resta beato a
bocca aperta, a stupire con la mimica grottesca la folla che ieri frequentava
le piazze e i mercati, la stessa che oggi resta incollata di fronte alle tv, alle consolle da
gioco e agli spettacoli mass-mediatici e
che accorre incuriosita allʼultima Biennale. I soggetti e i personaggi
delle attrazioni "da meraviglia" non si curano
dei propri sentimenti né tantomeno delle proprie e altrui emozioni, ma
devono essere insensibili, anche con sé
stessi. Lo avevano ben compreso i Futuristi, che, inventori del primo grande
movimento di avanguardia internazionale di origine italiana e in lotta con il
teatro borghese dei sentimenti,
erano entusiasti ammiratori del
teatro di Varietà, di Petrolini e dei suoi personaggi parodici,
cristallizzazioni del grottesco e dellʼimbecillità umana. Filippo Tommaso
Marinetti aveva definito Fortunello «il più difficilmente analizzabile dei
capolavori petroliniani», esaltandone il «ritmo meccanico e motoristico» e il
«teuff-teuff martellante all'infinito assurdità e rime grottesche». (cfr. <http://www.burcardo.org/mostre/petrolini/futuristi.asp>
).
I Futuristi, geniali precursori di molta arte contemporanea avevano capito che lo spettacolo aveva bisogno di rinnovare
le proprie formule e repertori, e soprattutto che le arti visive, per potenziare
il loro impatto pubblicitario sul pubblico moderno, ormai reso insensibile dal
via vai turbinoso delle metropoli,
dovevano attingere alle tecniche
e agli strumenti che un tempo erano
stati appannaggio delle forme
spettacolari più eccentriche, come erano
i baracconi delle fiere e gli
incanti da circo delle attrazioni.
Secondo lo studioso francese Marc Fumaroli, autore di Parigi-New York e ritorno, (Adelphi, 2011), il grande inventore del museo del "mai
visto" era già nato, un secolo prima dei Futuristi, in America, e si
chiamava Phineas Taylor Barnum, creatore del famoso circo, ma soprattutto di un
museo, lʼaffollato American Museum -
andato distrutto anchʼesso in un incendio -
dove si esponevano, con gran battage pubblicitario, le più amene e
bizzarre attrazioni, con cui il geniale mago dellʼimbroglio metteva in coda al suo botteghino intere folle, desiderose di non perdersi il gran
spettacolo delle attrazioni musealizzate. Di certo Barnum aveva intuito
anticipatamente che lo show espositivo, per essere ben ripagato in moneta, necessita del supporto di un sistema pubblicitario
efficace, nonché di un ricambio continuo delle novità, delle attrazioni. Così, a
partire dalle prime esperienze
dei futuristi e nel corso di tutto il secolo passato, lʼarte e
lo spettacolo contemporanei
hanno sottoposto le loro tecniche e le loro ricerche
alla legge crudele e ferrea della meraviglia, necessariamente effimera,
e barocca come tutto l’effimero (fu il Marino a lanciare la parola d’ordine “è
del poeta il fin la meraviglia”), grande nemica del tempo e in particolare del
passato: tutto deve essere sempre nuovo, mai visto , sorprendente,
magico, fantastico, strabiliante, tecnologicamente avanzato. Ma ogni
attrazione, così concepita, è destinata a soccombere di fronte allʼarrivo di
quella nuova, così ciò che ieri destava stupore, oggi merita tuttʼal più uno
sguardo distratto e impietosito, misto a ostentato rimpianto, un vago atteggiamento di petrolinesco,
gastonesco, superiore distacco. Chi
guarda, oggi un Padiglione delle
Meraviglie, crede di conoscerne già il trucco e molto probabilmente preferisce
mettersi in fila, entusiasta, per fare
lo spettatore, o meglio, il consumatore, dellʼultima strabiliante illusione, magari dellʼultimo
cellulare in 3D.
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