Undicesima edizione per BergamoScienza, che dal 4 al 20 ottobre ospita scienziati di fama internazionale, tra i quali i Premi Nobel per la Fisica Claude Cohen-Tannoudji (1997) e Frank Wilczek (2004) e per la Medicina e Fisiologia Jack W. Szoztak (2009). Qui abbiamo il piacere di anticipare una sintesi dell'intervento che Neil Levy, tra i maggiori esperti di neuroetica, terrà il 18 ottobre su un tema cruciale e tuttavia relativamente inesplorato: la coscienza.
Neil Levy
A volte la gente fa delle cose incredibili mentre
si trova in uno stato di apparente incoscienza. Vi sono parecchi
resoconti attendibili riguardanti sonnambuli che avrebbero eseguito
azioni complesse come inviare email o soggetti che avrebbero
addirittura guidato la macchina dopo aver perso i sensi per una crisi
convulsiva. In quegli stati capita persino di commettere azioni
criminali: la cronaca riferisce di persone accusate di crimini
efferati (dalla violenza carnale all’omicidio) che sosterrebbero di
averli compiuti in stato di incoscienza. In alcuni casi tali
argomentazioni difensive sono state effettivamente accolte,
contribuendo all’assoluzione degli imputati.
È giusto? La perdita di coscienza costituisce
davvero una scusante? Di primo acchito risponderemmo probabilmente
quasi tutti di sì, ma le nostre certezze inizierebbero forse a
incrinarsi se qualcuno ci spiegasse quanto possono essere complesse
le nostre azioni inconsce. Ad esempio, Ken Parks (assolto dall’accusa
di aver ucciso la suocera per aver commesso il fatto in stato di
sonnambulismo) ha guidato per oltre 20 chilometri in condizioni di
apparente incoscienza. Potremmo essere tentati a scagionare qualcuno
che ha agito in stato di incoscienza perché non aveva controllo sul
proprio operato – tanto che alcuni tribunali, uniformandosi a
questa posizione, hanno emesso un verdetto di assoluzione nei
confronti di imputati sonnambuli – ma proviamo a pensare a quanto
controllo occorre per guidare un’auto per 20 chilometri o per
inviare un’email…
Forse, dopo esserci resi conto di quanto in
questi casi possa essere complesso il comportamento umano, dovremmo
riesaminare la questione per decidere se l’assenza di coscienza
rappresenti davvero un’attenuante.
Per valutare con tutti i crismi se vada ritenuto
responsabile chi compie determinati atti in stato di incoscienza,
dobbiamo affidarci alla cosiddetta “scienza della coscienza”.
Sebbene moltissimi aspetti della coscienza rimangano ancora un
mistero per la scienza, ci siamo ormai fatti qualche idea sul ruolo
che essa svolge nel comportamento umano. Un’attenta sperimentazione
ha dimostrato infatti che gli esseri umani sono in grado di elaborare
e reagire a informazioni senza esserne consci. È possibile
dimostrare, ad esempio, che le persone reagiscono a immagini che non
hanno realmente ‘visto’ in quanto passate troppo velocemente
sullo schermo per essere percepite coscientemente; eppure il fatto
che non fossero consce del passaggio di un fotogramma contenente
un’immagine agghiacciante non impedirà loro di esibire segni di
paura. Ma possiamo altresì dimostrare che le informazioni vengono
elaborate da una porzione molto più estesa del cervello nel momento
in cui un soggetto ne ha coscienza.
Esiste un gruppo di fibre nervose particolarmente
lunghe, gli assoni, che solamente nello stato di coscienza collegano
aree cerebrali alquanto distanti fra loro. Nel momento in cui vengono
elaborate dagli assoni, le informazioni risultano contemporaneamente
disponibili a meccanismi cerebrali diversi. Si tratta di una
constatazione molto importante perché i meccanismi cerebrali possono
operare in maniera assai autonoma gli uni dagli altri. Ad esempio, se
si acquisisce un’abitudine, le porzioni del cervello messe in gioco
da quell’automatismo possono operare in modo da indurre il
comportamento corrispondente, anche quando non se ne è coscienti e
persino quando il compimento di quella azione è inappropriato. Anche
se non sono contemporaneamente attivi e consapevoli tutti i sistemi
cerebrali che costituiscono la nostra mente, può bastare una piccola
area del cervello a innescare un comportamento, volontario o
involontario che sia.
Proprio questo meccanismo sembra instaurarsi nel
sonnambulismo. In tale condizione di sonno vigile, molte delle
regioni cerebrali necessarie per la coscienza registrano livelli di
attivazione bassissimi, mentre altre risultano più attive. Il
soggetto può quindi rispondere a stimoli connessi ad azioni eseguite
più volte in passato, stimoli che innescano la sequenza di
istruzioni relative a quell’azione. Ciò significa che l’individuo
è in grado di preparare un sandwich, inviare un’email, guidare la
macchina o suonare uno strumento musicale. Il soggetto compie
l’azione senza passarla al vaglio del proprio repertorio di
convinzioni e valori, eseguendola senza soffermarsi a considerarne
l’eventuale inappropriatezza in quelle circostanze.
Poiché i gesti richiesti per condurre la macchina
sono consuetudinari, siamo capaci di guidare anche in assenza di
coscienza. Al contrario, per la maggior parte di noi, accoltellare
un’altra persona non rientra fra le attività abituali. Se per Ken
Parks fosse stato ‘usuale’, dubito che i giudici sarebbero stati
altrettanto clementi. Penso che la spiegazione di quell’atto di
violenza vada cercata nel fatto che quando si cerca di svegliare un
sonnambulo si rischia di scatenare il cosiddetto ‘terrore notturno’
in cui il soggetto ha l’impressione di essere attaccato. Il che
spiegherebbe perché abbia afferrato un coltello e pugnalato la
suocera, mentre l’assenza di coscienza chiarirebbe perché non sia
stato in grado di valutare correttamente quel gesto alla luce del suo
abituale repertorio di convinzioni e valori.
Le neuroscienze ci aiutano a capire cosa succede
in uno stato di sonnambulismo, mentre la filosofia ci assiste nel
lavoro di valutazione. Ritengo che i giudici abbiano avuto ragione ad
assolvere Parks. In un certo senso, non è stato lui
ad accoltellare la suocera: quel comportamento non è stato il
risultato diretto delle convinzioni e dei valori che costituivano la
sua personalità. Non essendo cosciente, non era in grado di cogliere
il contrasto fra quel gesto cruento e i suoi valori più profondi.
Quel comportamento non è stato opera sua, bensì di una piccola
parte degli stati mentali che lo costituivano in quel momento. A meno
che non si fosse (coscientemente) inculcato delle abitudini violente,
è giusto deresponsabilizzarlo per il crimine compiuto.
(traduzione di
Ariella Germinario)
Neil
Levy parteciperà alla XI edizione di BergamoScienza venerdì 18
ottobre alle ore 18 presso il Teatro Donizetti (Città Bassa) con la
conferenza Consapevolezza e responsabilità morale.
Levy
si occupa di neuroscienze e filosofia, all' Australian Research
Council Future Fellow at the Florey Institute of Neuroscience and
Mental Health, Melbourne
Levy
è Deputy Director (Research) of the
Oxford Centre for Neuroethics. Ha lavorato in ambiti
diversi, con un particolare interesse a problematiche di confine tra
neuroscienze and psicopatologie. Ha scritto molto su etica
e neuroscienze, così come sulle implicazioni filosofiche della
ricerca sul cervello. E' autore di sette
libri Neuroethics (Cambridge University Press, 2007), Hard Luck
(Oxford University Press, 2011) and the forthcoming Consciousness and
Moral Responsibility (Oxford University Press). E’ anche
caporedattore della rivista Neuroethics.
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