Il sacro Gra
Regia: Gianfranco
Rosi
Documentario
vincitore del Leone d'Oro alla 70. Mostra del cinema di Venezia
Patrizia
Vincenzoni
Come un anello di
Saturno, così in esergo, i settanta chilometri del grande raccordo
anulare contengono molteplici realtà umane e cose che, attraverso la
capacità di connettere i quadri diversi, costituiscono un unico
documentato racconto. È
l'umanità che si disvela nelle immagini, il soggetto al
centro della trama del Sacro Gra 'vite altrove' che raccontano
una quotidianità in un rapporto spazio-tempo scandito dal flusso
opaco, continuo e ininterrotto del traffico, somigliante a una figura
arcaica mitica, cifra di uno scorrere del tempo immobilizzato in un
interminabile, immodificabile istante.
I contesti dove
queste esistenze vivono e si muovono sono come gli anelli di Saturno,
immancabilmente legati alla città-pianeta, anche se un processo di
rimozione collettivo ha espulso questi territori, cosi distanti dalle
periferie da non avere più confini riconoscibili come tali, al
giorno d'oggi.
Scorrono sullo schermo brevi storie di persone e
questi, come migranti obbligati a una stanzialità
de-territorializzata, si lasciano cogliere mentre vivono esistenze
affastellate in spazi ridottissimi di appartamenti simili a gabbie,
uguali l'una all'altra, in uno stato di cronica di cattività.
Emblematica in tal senso l'immagine dell'aereo che, vicinissimo,
sorvola queste case, filmate in quello che sembra un tropismo
innaturale verso una direttrice di volo d'atterraggio, come se fosse
una possibile sorgente di luce.
Poesia visiva, il
documentario di Rosi: i dialoghi scarni, la vicinanza non intrusiva
della macchina da presa, un montaggio sapiente che costruisce, a sua
volta, una realtà ambientale cui ci è permesso partecipare.
L'ambulanza che sobbalza sulle buche stradali mentre trasporta un
ferito. Il pescatore di anguille che, dalla barca, rientrando,
osserva le sponde del fiume che il suo sguardo sa rendere altro da
ciò che sono, tanto è profondo e stupito. I gesti di una madre
anziana verso il figlio ambulanziere resi insicuri dalla probabile
malattia – Alzheimer – e tuttavia determinati a ripetere
movimenti e cure abituali che del passato hanno mantenuto la
gestualità, il rispondere affettivamente a un bisogno e a un proprio
ruolo. Le prostitute agées che aspettano i clienti dentro un
camper su cui sono evidenti, come sui loro corpi, i segni di
un'attesa che rimanda a qualcos'altro. La canzone sussurrata, il
ciondolare del capo in un movimento ritmico del corpo di una di loro
accennano a quella che sembra una ninnananna cantata a se stessa,
consolatoria e struggente, forse anche ironica, se la guardiamo da
un'altra angolazione.
Altre e diverse
umanità si affacciano attraverso brevi e autentici flash sul filo
della narrazione, come il palmologo, presenza che apre e chiude il
documentario. Cerca il modo per debellare i guai mortiferi che un
coleottero – il punteruolo rosso - arreca alle palme: la
similitudine con l'anima dell'uomo proposta da questo e la lettura di
quello al quale può alludere il logo del documentario, ci fanno
riflettere sulla necessità di riuscire a pensarsi maggiormente nei
termini di una 'geografia psicosociale', rappresentazione che
potrebbe aiutarci a riappropriarci e a percorrere parti del
territorio più vasto e complesso del vivere in comunità.
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