Visualizzazione post con etichetta John Keats. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta John Keats. Mostra tutti i post

domenica 28 febbraio 2016

La poesia della domenica - John Keats, Il cuore mi duole ...

L'ode a un usignolo ... il poeta, a mezzo tra la veglia e il sonno, la realtà e il desiderio, ascolto il canto melodioso dell'uccellino. E l'immaginazione agisce: Keats sogna il Meridione, un'Arcadia spirituale, lontana dagli affanni della vita, ove è solo felicità.

"... non veduto lasciare il mondo,
e con te svanire via nella foresta scura:
Svanire via lontano, dissolvermi, e affatto dimenticare
ciò che tu tra le foglie non hai mai conosciuto".

L'usignolo è araldo d'una terra fatata ove l'eternità si compone secondo la legge dell'Armonia e della Bellezza. Ma tutto questo è solo un breve miraggio:

"fu una visione, o un sogno ad occhi aperti?
fuggita è quella musica:  son io desto o dormo?"

Ma sì, fu solo una visione. Il reale preme, solo la Morte e la Poesia possiedono il balsamo alla tragedia umana.

* * * * *

Il cuore mi duole, e un sonnolento torpore affligge i miei sensi,
come se della cicuta io abbia bevuto,
o vuotato sin alla feccia un potente sonnifero
or è solo un minuto, e verso Lete sia sprofondato:
non è per invidia della tua felice sorte,
ma per esser troppo felice nella tua felicità,
che tu, Driade degli alberi dalle ali leggere,
in un melodioso pianoro
verde di faggi, e dalle ombre innumeri,
dell'estate le gioie a gola piena tu canti.

Oh, per un sorso della vendemmia! che sia stato
rinfrescato per lungo tempo nella terra a fondo scavata
sàpido di Flora e del rustico prato,      
di danza, e canzoni provenzali, e dell'assolata allegria!
Oh! per una coppa piena del tepido Mezzogiorno,
pieno del vero, del rosato Ippocrene,
con perlate bolle occhieggianti sull'orlo,
e la bocca macchiata di porpora:
ch' io potessi bere, e non veduto lasciare il mondo,
e con te svanire via nella foresta scura:

Svanire via lontano, dissolvermi, e affatto dimenticare
ciò che tu tra le foglie non hai mai conosciuto,
il languore, la febbre, e l'ansia
qui, dove gli uomini seggono e odon l'un l'altro gemere
dove la paralisi scuote pochi, tristi, ultimi capelli grigi,
dove la giovinezza si fa pallida e spettrale, e muore;
dove pur il pensare è un esser pieni di dolore
e di disperazioni dai plumbei occhi,
dove la Bellezza non può serbare i suoi occhi luminosi,
o il nuovo Amore struggersi per essi più là di domani.

Via! Via! perché io voglio fuggire a te,
non tratto sul carro da Bacco e dai suoi leopardi,
ma sulle invisibili ali della Poesia,
benché l'ottuso cervello confonda e ritardi:
già con te! Tenera è la notte,
e forse la Regina Luna è sul suo trono,
con a grappoli intorno tutte le sue Fate stellari;
ma qui non c'è luce alcuna,
fuor di quanta dal cielo con le brezze spira
per verdeggianti tenebre e sinuose vie di muschi.

Io non posso vedere quali fiori siano ai miei piedi,
né che molle incenso penda sulle fronde,
ma, nella profumata oscurità, indovino ogni dolcezza
di cui il mese propizio dota
l'erba, il boschetto,- e il selvaggio albero da frutta;
il biancospino, e la pastorale rosa eglantina;
viole che presto appassiscono ricoperte di foglie;
e la figliuola maggiore del mezzo maggio,
la veniente rosa muscosa, piena di vino rugiadoso,
murmurea dimora delle mosche nelle sere estive..

All'oscuro io ascolto; e ben molte volte
son  io stato a mezzo innamorato della confortevole Morte,
l'ho chiamata con soavi nomi in molte meditate rime
perché si portasse nell'aria il mio tranquillo fiato;
ora più che mai sembra delizioso morire,
aver file sulla mezzanotte senza alcun dolore,
mentre tu versi fuori la tua anima intorno
in una tale estasi!
ancora tu canteresti, ed io avrei orecchie invano
al tuo alto requie divenuto una zolla.

Tu non nascesti per la morte, immortale Uccello!
le affannate generazioni non ti calpestano;
la voce ch'io odo in questa fuggevole notte fu udita
in antichi giorni dall'imperatore e dal villano:
forse la stessa canzone che trovò un sentiero
per il triste cuore di Ruth, quando, piena di nostalgia
ella stette in lacrime tra il grano straniero;
la stessa che spesse volte ha
affascinato magiche finestre, aperte sulla schiuma
di perigliosi mari, in fatate terre abbandonate.

Abbandonate! la parola stessa è come una campana
che rintocchi per ritrarmi da te alla mia solitudine!
Addio! la fantasia non può frodare così bene
com'ella ha fama di fare, ingannevole silfo.
Addio! Addio! la tua lamentosa antifona svanisce
oltre i prati vicini, sopra la silenziosa corrente,
su per il fianco del colle; ed ora è sepolta profonda
nelle prossime radure della valle:
fu una visione, o un sogno ad occhi aperti?
fuggita è quella musica:  son io desto o dormo?

Traduzione, con modifiche, di Raffaello Piccoli, Iperione, odi, sonetti, 1984

sabato 9 maggio 2015

La poesia della domenica - Marianne Boruch, Alla casa di Keats, Roma

                          
ALLA CASA DI KEATS, ROMA

Quanto durerà ancora questa mia vita postuma?
                                 - John Keats, 1821, il mese prima di morire

Solo a pensarci, anche solo in parte—
Disegna e basta, pensai.
E annota il colore della stanza per dopo perché
che caos farei lì dentro.    
Così scrissi parole, il muro
non proprio uovo di pettirosso, il pavimento, una vecchia patina rosso
scuro. Feci uno schizzo
a matita: finestra, quelle mattonelle sotto i piedi,
scarabocchi incorniciati come quadri,          
un grande letto a barca di mogano lucido, i miei versi
a malapena, per quel che potevano
valere alla fine, una guida alla Roma di una volta,
quasi dall'altra parte del pianeta.
                                                   E le settimane slitterebbero
avanti di un'ora o due,
i miei acquerelli, a casa: a lavorare
come si fa con le poesie, come la memoria annoda e slega,
il verbo più immediato —è è è— che baratta
ogni vita passata con l'eterno presente, scherzo della luce come se
non ci fosse ombra. Keats l'ha fatto,
poi non è stato meglio.
La sua stanza è in parte una menzogna, la sua tisi a torto:
equiparata alla peste su cui soffiavano le trombe
della legge vaticana. Il letto vero? Bruciato.
E le lenzuola, le pesanti tende, la carta da parati strappata
dal soffitto al pavimento. Dio non voglia
che rimanga nell'aria il suo respiro. Lettere che non riusciva
ad aprire, coraggiosi
a conservarle, forse illegali, suppongo          
più indelicate, sepolte con lui,
una pala, dieci minuti
di terra che cade. Non senza stelle, senza luna.
Strano, seppelliamo la gente
quando ha chiuso con noi.              
                                            Chiunque guarda
vede la scalinata di Piazza di Spagna da
quella finestra, il suo salire e rovinare sbilenco come un’enorme,
vecchia fisarmonica dove l'emozione arriva
quando si allarga, un lento movimento vorticoso, estenuante.                                              
E l'ansimare—
benché sentissi solo grida, risate, rumore di traffico.
Pure la fontana là in mezzo, un'opera modesta
dell'altro Bernini, il padre poco noto
dello scultore, che segna il punto più lontano             
raggiunto dal Tevere in piena , la forma
una piccola barca che affonda, un frantume di pietra,
e lo spruzzo —comunque, comunque
delicato, continuo.
                                              Il rumore qualche volta può                            
essere musica. O un frammento,
una frase. O mese che oscura  mese
può capovolgersi, luminoso come raggi X. La mano
regge una matita per trovare — finalmente! per un attimo,
nessun attimo. Questo vuol dire                     
fare disegni.  Quelli sparsi fanno strada
come se felice
e triste si incontrassero meglio in qualche
sfocato aldilà dove nessuno saprà mai
più dell'altro. Keats. La sua maschera mortuaria sta sospesa
in quella sorta di scatola di plexiglass fissata al muro,
gli occhi-di-un-tempo chiusi, la faccia-di-un-tempo
una faccia, un gesso bianco verdastro inquietante.
                                                                    Cancellai e disegnai di nuovo.
Sembra che stia sognando,                             
non è vero? Chi c'era nella stanza,
lei naturalmente capivo
quello che diceva, che non era sola dove
il suo inglese strideva ma in tutta Roma— Roma! —
questo luogo sacro proprio per quella lingua.                             
Sogno, il codice comune per mistero,
per raffigurare ogni frammento rimasto: il passato nel presente,
vita, morte, grandi poesie,
nessuna poesia degna di essere letta
o scritta da qualcuno. O lei era solo              
gentile, voleva essere gentile, da sconosciuta a sconosciuta, perché quella
lingua per strada
come Keats deve averla sentita— parte frastuono,
parte nota alta trattenuta, e per lo più
un velo. La mia distratta                 
                                             assenza di risposta
fu scortese. E nemmeno
sincera. Vedi, la finestra doveva essere giusta,
il soffitto riportato dalla matita
alla carta, stesso stesso                    
fiore, intarsio dopo intarsio inciso
in modo maniacale là sopra.
                                              Ha una sua
bellezza, disse, incerta
come una traduzione.


AT THE KEATS HOUSE, ROME

                        How long is this posthumous life of mine to last?
                                   - John Keats, the month before his death, 1821

Even to think, any of it— 
Just draw, I thought.
And note color in his room for later because
what a mess I’d make in there.
So I wrote words, the wall
not quite robin’s egg, the floor’s old dark
a maroon.  I sketched
with pencil: window, those tiles underfoot,
scribbles framed for paintings,
a big boat bed of shiny mahogany, my lines
barely, as long as they would
mean in the end, a guide for Rome once,
halfway across the planet.
                                           And weeks would slip
before an hour or two,
my watercolors, at home: to work
the way poems get made, like memory knots and unties,
most immediate verb—is is is—trading up
any past life to eternal present, trick of light as if
there is no shade.  Keats did,
then he didn't get better.
His room is part-lie, his TB wrongly
exactly the Plague where Vatican law aimed            
its trumpets.  The real bed? They burned it. 
And bedclothes, the heavy curtains, wallpaper ripped
ceiling to floor.  God forbid
what he breathed out stay.  Letters he couldn’t
bear to open, brave
keeping those, probably illegal, think
more unpretty, buried with him
a shovel, ten minutes
of falling dirt.  Not starless, moonless
Funny, we put people in the ground
when they're done with us.
                                                    Whoever looks
sees the Spanish Steps from
that window, their rise and ruin crooked as an old,
vast accordion where the thrill is
it widens, a giddy slow-motion, exhausting. 
And the wheeze—
though I heard only shouts, laughter, traffic sounds. 
The fountain there too, a modest affair
of the other Bernini, the sculptor’s
unfamous father, marking the most distant spot
the Tiber flooded, its shape
a small boat that foundered, broken thing of stone,
and the spray—anyway, anyway
delicate, continual.
                                           Noise can sometimes
be music.  Or a fragment,
a sentence.  Or month blackening month
can reverse, luminous as x-ray.  The hand
holds a pencil to find—at last! for a moment,
no moment.  That’s what it is
to make drawings. The loose ones give way
as though happy 
and sad meet best in some
blurry afterlife where neither will ever know
more than the other.  Keats. His death mask floats                  
in that kind of plexiglass box screwed to the wall,
his once-eyes closed, his once-face
a face, eerie greenish white plaster.
                                               I erased and drew again.
Looks like he’s dreaming,
doesn’t it?  Who was that in the room,
her of course I’d get
what she said, that she wasn’t alone where
her English jarred but in all of Rome— Roma! —
this sacred place for it. 
Dream, the usual code for mystery,
for figuring any last bit: past into present,
life, death, great poems,
no poems worth the reading or why anyone
would write them.  Or she was simply
nice, being nice, stranger to stranger, because that
language in the street
how Keats must have heard it—part racket,
part high-held note, and mostly
a veil. My distracted
                                      no answer at all
was unkind.  And not
even true.  See, the window had to be right,
the ceiling brought down by pencil
to paper, same same
flower, inlay after inlay carved
to a madness up there.
                                    He’s sort of
beautiful, she said, tentative

as translation.

Traduzione a cura del Laboratorio di Traduzione di Monteverdelegge     

sabato 17 gennaio 2015

La poesia della domenica - Oscar Wilde, Libero dall'ingiustizia del mondo, e dal suo dolore

Il primo verso è uno dei più belli della letteratura inglese: Rid of the world’s injustice, and its pain (Libero dall’ingiustizia del mondo, e dal suo dolore).
Oscar Wilde è in visita al Cimitero Protestante di Roma, luglio 1877. Si sofferma davanti alla tomba di John Keats, e, di getto, compone questi versi in onore del poeta. Nelle sue parole: “Immobile accanto alla misera tomba di quel ragazzo divino, pensavo a lui come a un sacerdote del bello prematuramente ucciso; e mi tornava alla memoria l'immagine del San Sebastiano di Guido Reni come lo vidi a Genova, bel ragazzo bruno, i capelli forti, ricci, le labbra rosse, legato a un tronco dai crudeli nemici, trafitto dalle frecce, e tuttavia con lo sguardo, uno sguardo sereno, divino, levato a contemplare l'eterna bellezza dei cieli che si spalancavano”.
Wilde ci mostra come la morte, per Keats, sia davvero la prima notte di quiete -  e la vita un fardello insostenibile (fisico e di amarissime delusioni sentimentali e artistiche) da cui liberarsi per ascendere alla purezza celeste.
Non estraneo a tale considerazione fu la leggenda, ingrossata da Percy Shelley, secondo la quale John Keats morì per il dolore inflittogli dalle durissime stroncature del poema Endymion.
Anni più tardi Wilde rielaborerà tali versi appesantendoli con riferimenti classici. Questa versione (compresa in un articolo dell’Irish Monthly), semplice come un epigramma greco e sinceramente commossa, è, però, da preferirsi, assolutamente.

Libero dall'ingiustizia del mondo, e dal suo dolore,
Riposa infine sotto l'azzurro velo di Dio;
Strappato alla vita mentre vita e amore eran giovani
Qui giace il più giovane dei martiri,
Bello come Sebastiano e come lui crudelmente ucciso.
Non l'ombra di un cipresso sul sepolcro, non un cespuglio,
Ma violette umide di rugiada, margherite dai petali rossi,
E sonnolenti papaveri colgono la pioggia della sera.

Tu, il più fiero dei cuori, spezzato dalla miseria!
Il più triste poeta che mai il mondo abbia visto!
Oh, dolcissimo cantore della terra d’Inghilterra!
Il tuo nome è scritto nell'acqua sulla sabbia,
Ma il nostro pianto terrà vivo il ricordo di te,
Verde e fiorito come pianta di basilico (1).

(1) Un chiaro riferimento alla leggenda di Lisabetta da Messina, che irrorava con le sue lacrime un vaso di basilico in cui era riposava la testa dell'amato, ucciso dai suoi fratelli. La leggenda ispirò Boccaccio e proprio John Keats.

venerdì 11 ottobre 2013

Tre poesie sull'autunno (John Keats, Vincenzo Cardarelli, Mimnermo)

Gustave Courbet, La foresta in autunno

Tre poesie sull’autunno, molto diverse fra loro.
John Keats, Vincenzo Cardarelli, Mimnermo.

John Keats (31 ottobre 1975 - Roma 23 febbraio 1821). La poesia è uno dei vertici della letteratura. Keats annota ogni minimo particolare, parla di nocciola, zucca, non di frutti; di api, pettirossi, agnelli, cavallette, rondini, mai di animali; di salici e viti, non di piante o verzure. Nella lotta fra la lingua dantesca, definita e implacabile, e quella petrarchesca, che si compiace della vaghezza, la poesia inglese ha compiuto la sua scelta. E Keats, che di se affermò: “Non so niente, non ho letto niente”, era, invece, un lettore avido di Alighieri. Scrisse un meraviglioso sonetto, Un sogno. Dopo la lettura dell’episodio di Paolo e Francesca di Dante. E poi, basta leggere quel verso: “Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore (While barred clouds bloom the soft-dying day)”: non ricorda, forse il verso di Purgatorio, VIII, 1-6:

Era già l'ora che volge il disio
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dí c'han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d'amore
punge, s'e' ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more

Dal fiorentino Keats mutua l’atmosfera, dolcissima e crepuscolare, e in più, riesce a raggiungere un’equilibrio miracoloso fra il molle struggimento per il declino della stagione piena e la gioia per la messe di doni che l’autunno ha maturato proprio dall’estate trionfante. All’autunno sembra una poesia italiana o latina; in una lettera a Fanny Keats, il poeta disse: “Vorrei che l'italiano si sostituisse al francese in tutte le scuole del nostro paese, perché quella sì che è una lingua ricca di vera poesia e di fascino …”. Dopo Pablo Neruda, un altro estimatore della nostra povera patria.

Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
Tu, intima amica del sole al suo culmine,
Che con lui cospiri per far grevi e benedette d'uva
Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
Tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
E colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
I gusci di nòcciola e ancora fai sbocciare
Fiori tardivi per le api, illudendole
Che i giorni del caldo non finiranno mai
Perché l'estate ha colmato le loro celle viscose:

Chi non ti ha mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
Seduta senza pensieri sull'aia
Coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
O sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto,
Intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
Risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
La testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
O, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
Sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.

E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una tua musica ce l'hai -
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
E toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
Allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
Dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
Piangono tra i salici del fiume,
E agnelli già adulti belano forte dal baluardo dei colli,
Le cavallette cantano, e con dolci acuti
Il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino:
Si raccolgono le rondini, trillando nei cieli. (1)

Vincenzo Cardarelli (Corneto Tarquinia, 1º maggio 1887 - Roma, 18 giugno 1959). È una piccola poesia, quasi dimessa. Come il suo autore, vissuto sempre in solitudine. Il suo poetare è, al contrario di Keats, di lingua petrarchesca, come nella migliore tradizione letteraria italiana: sfumato e mai precisato. I toni son quelli della rinuncia, di una mestizia senza eroismo.
Petrarca scrisse il De vita solitaria, un elogio della solitudine come occasione per la placida contemplazione della natura e per la riflessione religiosa, ma anche per ribadire il proprio ruolo centrale di umanista. La vita solitaria di Cardarelli, invece, è quella dell'artista novecentesco che ha perso il ruolo centrale di vate, di uno sconfitto che, nella creazione, sceglie una maniera piana, modesta, pacatamente rimembrante; uno stoicismo marginale opposto a un mondo che della poesia ha deciso di fare a meno. L'autunno è qui, insieme, stagione e metafora della vita.

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d'agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

Mimnermo da Smirne (o da Colofone; 650 a. C. circa). Più che in Cardarelli, l’autunno qui è solo intuito; è la chiara allegoria del declino della vita, della vecchiaia. I giovani sono come le foglie della primavera, che godono una breve e intensa stagione, inconsapevoli del destino imposto dagli dei, da Zeus e dalle dee oscure, le Chere. E quando quella fugace gioia è dileguata, forse è preferibile la morte.
Non è ardito pensare che la celeberrima poesia di Ungaretti, Soldati (Si sta/come d’autunno/sugli alberi/le foglie), abbia qui una propria radice ispirativa.

Come le foglie che fa germogliare la stagione di primavera
ricca di fiori, appena cominciano a crescere ai raggi del sole,
noi, simili ad esse, per un tempo brevissimo godiamo
i fiori della giovinezza, né il bene né il male conoscendo
dagli dèi. Oscure sono già vicine le Chere,
l'una avendo il termine della penosa vecchiaia,
l'altra della morte. Breve vita ha il frutto
della giovinezza, come la luce del sole che si irradia sulla terra.
E quando questa stagione è trascorsa,
subito allora è meglio la morte che vivere.
Molti mali giungono nell'animo: a volte, il patrimonio
si consuma, e seguono i dolorosi effetti della povertà;
sente un altro la mancanza di figli,
e con questo rimpianto scende all'Ade sotterra;
un altro ha una malattia che spezza l'animo. Non v'è
un uomo al quale Zeus non dia molti mali. (2)

Consigli di lettura

John Keats, Iperione, odi e sonetti, Sansoni, 1984
Vincenzo Cardarelli, Tutte le opere, Mondadori, 1962
Mimnermo, Come le foglie, in I lirici greci, Einaudi, 1975


(1) Season of mists and mellow fruitfulness,
Close bosom friend of the maturing sun;
Conspiring with him how to load and bless
With fruit the vines that round the thatch-eves run;
To bend with apples the mossed cottage-trees,
And fill all fruit with ripeness to the core;
To swell the gourd and plump the hazel shells
With a sweet kernel; to set budding more,
And still more, later flowers for the bees,
Until they think warm days will never cease,
For summer has o’er-brimmed their clammy cells.

Who has not seen thee oft amid thy store?
Sometimes whoever seeks abroad may find
Thee sitting careless on a granary floor,
Thy hair soft-lifted by the winnowing wind;
Or on a half-reaped furrow sound asleep,
Drows’d with the fume of poppies, while thy hook
Spares the next swath and all its twined flowers:
And sometimes like a gleaner thou dost keep
Steady thy laden head across a brook;
Or by a cyder-press, with patient look,
Thou watchest the last oozings hours by hours.

Where are the songs of spring? Ay, where are they?
Think not of them, thou hast thy music too,-
While barred clouds bloom the soft-dying day,
And touch the stubble palins with rosy hue;
Then in a wailful choir the small gnats mourn
Among the river sallows, born aloft
Or sinking as the light wind lives or dies;
And full-grown lambs loud bleat from hilly bourn;
Hedge-crickets sing; and now with treble soft
The red-breast whistles from a garden-croft;
And gathering swallows twitter in the skies.

(2) ἡμεῖς δ', οἷά τε φύλλα φύει πολυάνθεμος ὥρη
ἔαρος, ὅτ' αἶψ' αὐγῆις αὔξεται ἠελίου,
τοῖς ἴκελοι πήχυιον ἐπὶ χρόνον ἄνθεσιν ἥβης
τερπόμεθα, πρὸς θεῶν εἰδότες οὔτε κακὸν
οὔτ' ἀγαθόν· Κῆρες δὲ παρεστήκασι μέλαιναι,
μὲν ἔχουσα τέλος γήραος ἀργαλέου,
δ' ἑτέρη θανάτοιο· μίνυνθα δὲ γίνεται ἥβης
καρπός, ὅσον τ' ἐπὶ γῆν κίδναται ἠέλιος.
αὐτὰρ ἐπὴν δὴ τοῦτο τέλος παραμείψεται ὥρης,
αὐτίκα δὴ τεθνάναι βέλτιον βίοτος·
πολλὰ γὰρ ἐν θυμῶι κακὰ γίνεται· ἄλλοτε οἶκος
τρυχοῦται, πενίης δ' ἔργ' ὀδυνηρὰ πέλει·
ἄλλος δ' αὖ παίδων ἐπιδεύεται, ὧν τε μάλιστα
ἱμείρων κατὰ γῆς ἔρχεται εἰς Ἀΐδην·
ἄλλος νοῦσον ἔχει θυμοφθόρον· οὐδέ τίς ἐστιν
ἀνθρώπων ὧι Ζεὺς μὴ κακὰ πολλὰ διδοῖ.
Privacy Policy