ALLA CASA DI KEATS, ROMA
Quanto durerà ancora questa mia vita
postuma?
- John
Keats, 1821, il mese prima di morire
Solo
a pensarci, anche solo in parte—
Disegna
e basta, pensai.
E
annota il colore della stanza per dopo perché
che
caos farei lì dentro.
Così
scrissi parole, il muro
non
proprio uovo di pettirosso, il pavimento, una vecchia patina rosso
scuro.
Feci uno schizzo
a
matita: finestra, quelle mattonelle sotto i piedi,
scarabocchi
incorniciati come quadri,
un
grande letto a barca di mogano lucido, i miei versi
a
malapena, per quel che potevano
valere
alla fine, una guida alla Roma di una volta,
quasi
dall'altra parte del pianeta.
E le settimane slitterebbero
avanti
di un'ora o due,
i
miei acquerelli, a casa: a lavorare
come
si fa con le poesie, come la memoria annoda e slega,
il
verbo più immediato —è è è— che baratta
ogni
vita passata con l'eterno presente, scherzo della luce come se
non
ci fosse ombra. Keats l'ha fatto,
poi
non è stato meglio.
La
sua stanza è in parte una menzogna, la sua tisi a torto:
equiparata
alla peste su cui soffiavano le trombe
della
legge vaticana. Il letto vero? Bruciato.
E
le lenzuola, le pesanti tende, la carta da parati strappata
dal
soffitto al pavimento. Dio non voglia
che
rimanga nell'aria il suo respiro. Lettere che non riusciva
ad
aprire, coraggiosi
a
conservarle, forse illegali, suppongo
più
indelicate, sepolte con lui,
una
pala, dieci minuti
di
terra che cade. Non senza stelle, senza
luna.
Strano,
seppelliamo la gente
quando
ha chiuso con noi.
Chiunque guarda
vede
la scalinata di Piazza di Spagna da
quella
finestra, il suo salire e rovinare sbilenco come un’enorme,
vecchia
fisarmonica dove l'emozione arriva
quando
si allarga, un lento movimento vorticoso, estenuante.
E
l'ansimare—
benché
sentissi solo grida, risate, rumore di traffico.
Pure
la fontana là in mezzo, un'opera modesta
dell'altro
Bernini, il padre poco noto
dello
scultore, che segna il punto più lontano
raggiunto
dal Tevere in piena , la forma
una
piccola barca che affonda, un frantume di pietra,
e
lo spruzzo —comunque, comunque—
delicato,
continuo.
Il rumore qualche volta può
essere
musica. O un frammento,
una
frase. O mese che oscura mese
può
capovolgersi, luminoso come raggi X. La mano
regge
una matita per trovare — finalmente! per un attimo,
nessun
attimo. Questo vuol dire
fare
disegni. Quelli sparsi fanno strada
come
se felice
e
triste si incontrassero meglio in qualche
sfocato
aldilà dove nessuno saprà mai
più
dell'altro. Keats. La sua maschera mortuaria sta sospesa
in
quella sorta di scatola di plexiglass fissata al muro,
gli
occhi-di-un-tempo chiusi, la faccia-di-un-tempo
una
faccia, un gesso bianco verdastro inquietante.
Cancellai e disegnai
di nuovo.
Sembra che stia sognando,
non è vero?
Chi c'era nella stanza,
lei
naturalmente capivo
quello
che diceva, che non era sola dove
il
suo inglese strideva ma in tutta Roma— Roma!
—
questo
luogo sacro proprio per quella lingua.
Sogno,
il codice comune per mistero,
per
raffigurare ogni frammento rimasto: il passato nel presente,
vita,
morte, grandi poesie,
nessuna
poesia degna di essere letta
o
scritta da qualcuno. O lei era solo
gentile,
voleva essere gentile, da sconosciuta a sconosciuta, perché quella
lingua
per strada
come
Keats deve averla sentita— parte frastuono,
parte
nota alta trattenuta, e per lo più
un
velo. La mia distratta
assenza di risposta
fu
scortese. E nemmeno
sincera.
Vedi, la finestra doveva essere giusta,
il
soffitto riportato dalla matita
alla
carta, stesso stesso
fiore,
intarsio dopo intarsio inciso
in
modo maniacale là sopra.
Ha una sua
bellezza,
disse, incerta
come una traduzione.
AT THE KEATS HOUSE, ROME
How long is this posthumous life of mine to last?
- John
Keats, the month before his death, 1821
Even to think, any of
it—
Just draw, I thought.
what a mess I’d make in there.
So I wrote words, the wall
not quite robin’s egg, the
floor’s old dark
a maroon. I sketched
with pencil: window, those
tiles underfoot,
scribbles framed for
paintings,
a big boat bed of shiny
mahogany, my lines
barely, as long as they
would
mean in the end, a guide for Rome once,
halfway across the planet.
And
weeks would slip
before an hour or two,
my watercolors, at home: to
work
the way poems get made, like
memory knots and unties,
most immediate verb—is is
is—trading up
any past life to eternal
present, trick of light as if
there is no shade. Keats did,
then he didn't get better.
His room is part-lie, his TB
wrongly
exactly the Plague where
Vatican law aimed
its trumpets. The real bed? They burned it.
And bedclothes, the heavy
curtains, wallpaper ripped
ceiling to floor. God forbid
what he breathed out
stay. Letters he couldn’t
bear to open, brave
keeping those, probably
illegal, think
more unpretty, buried with him,
a shovel, ten minutes
of falling dirt. Not starless,
moonless.
Funny, we put people in the
ground
when they're done with us.
Whoever looks
sees the Spanish Steps from
that window, their rise and
ruin crooked as an old,
vast accordion where the
thrill is
it widens, a giddy
slow-motion, exhausting.
And the wheeze—
though I heard only shouts,
laughter, traffic sounds.
The fountain there too, a
modest affair
of the other Bernini, the
sculptor’s
unfamous father, marking the
most distant spot
the Tiber flooded, its shape
a small boat that foundered,
broken thing of stone,
and the spray—anyway, anyway—
delicate, continual.
Noise can sometimes
be music. Or a fragment,
a sentence. Or month blackening month
can reverse, luminous as
x-ray. The hand
holds a pencil to find—at
last! for a moment,
no moment. That’s what it is
to make drawings. The loose
ones give way
as though happy
and sad meet best in some
blurry afterlife where
neither will ever know
more than the other. Keats. His death mask floats
in that kind of plexiglass
box screwed to the wall,
his once-eyes closed, his
once-face
a face, eerie greenish white
plaster.
I erased and drew again.
Looks like he’s dreaming,
doesn’t it? Who was that in the room,
her of course I’d get
what she said, that she
wasn’t alone where
her English jarred but in
all of Rome— Roma! —
this sacred place for
it.
Dream, the usual code for
mystery,
for figuring any last bit:
past into present,
life, death, great poems,
no poems worth the reading
or why anyone
would write them. Or she was simply
nice, being nice, stranger
to stranger, because that
language in the street
how Keats must have heard
it—part racket,
part high-held note, and
mostly
a veil. My distracted
no answer
at all
was unkind. And not
even true. See, the window had to be right,
the ceiling brought down by
pencil
to paper, same same
flower, inlay after inlay
carved
to a madness up there.
He’s sort of
beautiful, she said,
tentative
as
translation.
Traduzione a cura del Laboratorio di Traduzione di Monteverdelegge
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