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mercoledì 4 novembre 2015

Coraggio, ancora pochi mesi e pure Dante ce lo siamo tolto dai piedi

G. Luca Chiovelli

Dante Alighieri, nacque sotto il segno dei Gemelli:

"... io vidi ’l segno
che segue il Tauro e fui dentro da esso.
O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
con voi nasceva ..." (1)

probabilmente nel 1265, a cavallo fra maggio e giugno.
Nell'anno 2015, quindi, ricorre(va) il 750esimo anniversario della sua nascita.
Qualcuno se n'è accorto?
Tanto per dire.
Tale momento epocale (pensate: c'erano voluti 750 anni per celebrarlo) è passato, per usare un eufemismo, sotto una discreta coltre di silenzio.
Certo, non era nato sotto i migliori auspici: a maggio, infatti, s'era iniziata la commemorazione, in Senato, con un messaggio del Pontefice gesuita Francesco I, il saluto delle massime cariche istituzionali e una lettura del Paradiso da parte di Roberto Benigni.
Come dire: il saluto del Capo di una potenza straniera, in un'aula prossima alla smobilitazione istituzionale e la lettura del Paradiso eseguita da un tizio che, dopo aver scassato i cabbasisi per un decennio con "la Costituzione più bella del mondo", si guarda bene dal far motto una volta che questa è stravolta e annientata (e, se tanto mi dà tanto, figuriamoci cosa gliene impipa di Dante e del Paradiso).
I capoccioni hanno naturalmente attivato una serie di iniziative accademiche e diplomatiche (coinvolti gli istituti per la cultura italiana all'estero), eppure di tutto questo formalissimo indaffararsi cosa è trapelato nell'opinione pubblica?
Niente.
E perché?
Primo: perché a tutti i capoccioni nazionali di Dante e dell'Italia importa poco o zero. Sono dei traditori della Patria, satolli e ignoranti.
Secondo: perché l'attuale Spirito dei Tempi, l'edonismo economico, turistico e usuraio, ridanciano e irresponsabile, ha due soli nemici: il passato e la bellezza. Dante li riunisce entrambi e quindi deve finire nella Gehenna della dimenticanza.
Il passato è passato: Petrarca, Dante, Tasso, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, tutto ciò che costituisce la bellezza diuturna, tutto ciò che forma l'Italia, tutto ciò che, secondo un memorabile verso di Percy Shelley:

"dà grazia e verità al sogno inquieto della vita" (2)

dev'essere essere ignorato; se possibile, seppur con cautela, dev'essere distrutto.
Non stupisce allora che l'anniversario di Dante sia stato liquidato da convenzionali adempimenti istituzionali.
Un modo perfetto di autoassolversi, crearsi un alibi, e dedicarsi al proprio passatempo favorito: fare i nababbi.
Coraggio, fra un po' è Capodanno (2016!) e di Dante non correremo più il rischio di sentir parlare.
Almeno sino al 2021, 700esimo anno dalla sua morte.
Tranquilli, però, per quella data sono sicuro che ci saremo pur inventati qualcosa capace di liberarci dall'ennesimo, molesto, anniversario.

(1) Paradiso, XXII, 110-115
(2) P. B. Shelley, Inno alla Bellezza Intellettuale

mercoledì 12 agosto 2015

La poesia del giovedì - Guilhelm Figueira, Roma ingannatrice di tutti i mali guida

Un sirventese provenzale (occitanico) scritto nel clima antiromano, anticlericale e antifrancese seguito ai massacri delle crociate contro gli Albigesi (a Bezier, il 22 luglio 1209, furono uccisi fra i 7000 e i 20000 eretici).
L'invettiva contro il covo di vipere romane è dura e giustamente celebre, ma non è questo che ci interessa.
Ciò che interessa è che, fra il 1227 e il 1229, un tolosano, Guilhelm Figueira appunto, potesse già esprimere posizioni nettamente ghibelline (contro il Papa e a favore dell'Imperatore Federico II di Svevia) e un intransigente moto dell'anima, dettato dal disgusto verso la cupidigia e l'odio che originarono le stragi; un moto del cuore (e della ragione filosofica) che, qualche decennio più tardi, si ascriverà ai grandi poeti italiani: fra i sommi, Dante, e il primo amico e iniziatore di Dante, Guido Cavalcanti.
Nel seno dell'Europa, segnato tragicamente da tali eventi, sorgevano, insomma, potentissimi aneliti alla palingenesi spirituale e alla genuinità del primo Cristianesimo.
Da tale punto di vista non sono infondate quelle ipotesi, pur minoritarie, che vedono nei poeti ghibellini italiani una sorta di setta politico-spirituale che ostentava un formale omaggio alla Chiesa, e che invece, al riparo da un linguaggio letterario a doppio taglio, esoterico, la additava al disprezzo, auspicando, al contempo, l'avvento d'una figura in grado di restaurare la purezza del messaggio evangelico.
Queste interpretazioni furono sempre rigettate come bislacche; per me non lo sono. Anzi, mi colmano di gioia; e di felicità; seppur fossero false. Leggendo di questi uomini, persi nei cunicoli folli della storia:  uomini a volte meschini, a volte nobili; ora traditori e servili, altre solitari e tetragoni contro il vento delle epoche; di fronte a tali sofferenze, a tali pensieri smisurati, a tali incroci di mondi, filosofie e passioni, non posso che provare il sentimento vertiginoso e smisurato della meraviglia. E non è la sempre risorgente meraviglia l'origine dell'amore per la conoscenza?

Traduzione e note di Francesco Zambon.

* * * * *

Non voglio più tardare né esitare ancora
a comporre un sirventese su questa melodia che mi piace;‎
eppure non ho dubbi che mi procurerà sentimenti ostili
perché questo sirventese tratta
dei falsi e dei perfidi
di Roma, che è alla testa della decadenza
in cui degenera ogni bene.‎

Non mi stupisco, Roma, se la gente cade in errore,‎
perché hai gettato il mondo in tormento e in guerra
e pregio e pietà muoiono a causa tua e sono sotterrati,‎
Roma ingannatrice,‎
di tutti i mali guida,‎
cima e radice: tanto che il nobile re d'Inghilterra
è stato da te tradito.‎

Roma bara, la cupidigia ti acceca:‎
alle tue pecorelle tondi troppo la lana.‎
Lo Spirito Santo che assunse carne umana
ascolti le mie preghiere
e spezzi il tuo becco.‎
Roma, non ti darò tregua: perché sei falsa e perfida
con noi e con i Greci.‎

Roma, ai deboli di mente tu rodi la carne e le ossa
e guidi i ciechi con te dentro alla fossa;‎
trasgredisci i comandamenti di Dio, tanto grande
è la tua cupidigia:‎
in cambio di denaro
perdoni i peccati. Roma, di un pesante fardello
di male ti carichi.‎

Roma, sappi che il tuo vile mercato‎
e la tua follia hanno causato la perdita di Damietta.‎
Male ti comporti, Roma; Dio ti abbatta
e ti mandi in rovina,‎
perché ipocritamente
ti comporti per denaro, Roma di vile razza
e violatrice di patti.‎

Roma, davvero io so con assoluta certezza‎
che sotto parvenza di falso perdono
hai mandato al supplizio la nobiltà di Francia,‎
lontano dal paradiso,‎
e che hai ucciso,‎
Roma, il nobile re Luigi: perché con false prediche
lo hai attirato fuori di Parigi.‎

Roma, ai Saraceni fai ben poco danno,‎
ma Greci e Latini li mandi al massacro.‎
Nel fuoco dell'abisso, Roma, hai eletto dimora,‎
nella perdizione.‎
Dio non mi faccia mai partecipe,‎
Roma, del perdono e del pellegrinaggio
che hai fatto ad Avignone.‎

Roma, senza ragione hai ucciso molta gente
e non mi piace affatto la via tortuosa che segui,‎
perché alla salvezza, Roma, sbarri la porta.‎
Ha una pessima guida
in estate come in inverno
chi segue le tue orme, perché il diavolo lo trascina
nel fuoco dell'inferno.‎

Roma, è facile dirti il male che meriti,‎
dato che per scherno martirizzi i cristiani;‎
ma in quale libro trovi scritto che si debbano uccidere,‎
Roma, i cristiani?‎
Dio, che è il pane vero
e quotidiano, mi conceda di veder capitare
ciò che desidero ai Romani.‎

Roma, sei stata veramente assai sollecita
negli ipocriti perdoni che hai concesso a danno di Tolosa:‎
ti rodi le mani alla maniera di una rabbiosa,‎
Roma seminatrice di discordia.‎
Ma se il valoroso conte
vive ancora due anni, la Francia avrà motivo di dolersi
dei tuoi inganni.‎

Roma, è così grande il tuo tradimento
che provochi il disprezzo di Dio e dei suoi santi;‎
ti comporti cosi male, Roma falsa e perfida,‎
che per te sparisce,‎
diminuisce e si dissolve
la gioia di questo mondo. E fai un grave oltraggio
al conte Raimondo.‎

Roma, Dio aiuti e dia potere e forza
al conte che tonde i Francesi e li scortica,‎
calpestandoli sotto i suoi piedi quando li affronta:‎
che gioia per me!‎
Roma, Dio si ricordi
dei tuoi grandi torti; e gli piaccia sottrarre il conte
a te e alla morte.‎

Roma, mi consola il fatto che tra poco‎
andrai a finire male se il giusto Imperatore
segue senza deviare il suo destino e fa quello che deve.‎
Roma, in verità lo dico,‎
vedremo decadere
la tua potenza: Roma, il vero Salvatore
mi conceda di vederlo presto.‎

Roma, per denaro tu compi molte azioni spregevoli,‎
molte insolenze e molte vigliaccherie.‎
Tale è la tua smania di dominare il mondo
che nulla temi,‎
né Dio né i suoi divieti:‎
anzi vedo che fai dieci volte più male
di quanto io non sia in grado di dire.‎

Roma, tu stringi cosi forte i tuoi artigli,‎
che ciò che puoi afferrare difficilmente ti sfugge;‎
se al più presto non perdi la tua potenza, in trappola
sarà caduto il mondo:‎
sarà morto e sconfitto
e il pregio distrutto. Roma, il tuo papa
fa di questi miracoli.‎

Roma, Colui che è Luce del mondo, vera vita
e vera salvezza, ti mandi in malora,‎
perché tanti e cosi risaputi sono i tuoi misfatti, da far
gridare il mondo.‎
Roma sleale,‎
radice di ogni male,‎
nel fuoco infernale brucerai senza scampo,‎
se non cambi rotta.‎

Roma, meriti biasimo a causa dei tuoi cardinali
per i criminali peccati di cui fanno parlare,‎
perché non pensano se non a come poter rivendere
Dio e chi lo ama;‎
e a nulla serve correggerli.‎
Roma, è disgustoso ascoltare e sentire
le tue prediche.‎

Roma, sono indignato perché il tuo potere aumenta
e grande angoscia per causa tua ci opprime tutti:‎
sei rifugio e fonte di inganno, di vergogna
e di disonore.‎
I tuoi pastori
sono impostori e falsi, Roma, e chi li frequenta
fa davvero una cosa insensata.‎

Roma, male agisce il papa quando contende
all'imperatore il diritto alla corona,‎
lo dichiara in errore e concede il perdono ai suoi nemici:‎
un simile perdono
non conforme a ragione,‎
Roma, è ingiusto; e chi lo giustifica
si copre di vergogna.‎

Roma, il Glorioso, che per noi soffrì mortale dolore‎
sulla croce, ti dia cattiva sorte,‎
perché vuoi sempre portare la borsa piena,‎
Roma di malaffare,‎
che hai il cuore tutto‎
volto al guadagno: per questo la cupidigia ti trascina
nel fuoco inestinguibile.‎

Roma, dal rancore che porti nella gola
nasce il succo di cui muore e si strangola lo sventurato
sentendo in cuore dolcezza; perciò il saggio trema
quando riconosce e distingue
il mortale veleno
‎(e da dove viene: Roma, dal cuore ti cola!)‎
di cui sono colmi i petti.‎

Roma, si è sempre sentito raccontare‎
che la tua testa è vuota perché la fai spesso rasare.‎
Per questo penso e credo che bisognerebbe strapparti,‎
Roma, il cervello
perché un cappello d'infamia
portate tu e Cìteaux, che a Béziers avete ordinato
uno spaventoso massacro.‎

Roma, con esca ingannatrice tu tendi la tua rete
e mangi molti bocconi maledetti, chiunque ne sia vittima,‎
perché sotto il tuo innocente aspetto di agnello
si nascondono lupi rapaci,‎
serpenti coronati
nati da vipera: per questo il diavolo li accoglie
come suoi intimi.‎

Note


[Guilhelm Figueira], tolosano di origine e sarto di professione, secondo la vida antica Guilhem Figueira avrebbe abbandonato la sua città quando essa cadde in mano ai Francesi (11 aprile 1229) e si sarebbe trasferito in Lombardia; a Tolosa compose questo celebre sirventese fra il 1227 e il 1229. 

1-2: Lo schema metrico della poesia e con ogni probabilità anche la sua melodia sono quelli della canzone mariana Flors de paradis, regina de bon aire.

9: Si allude naturalmente alla Crociata contro gli Albigesi.

13-14: Giovanni Senzaterra, il cui nipote Ottone di Brunswick era stato scomunicato e deposto dal trono di Germania a favore di Federico II.

17: La definizione di Cristo come Spirito Santo incarnato potrebbe rivelare un influsso della dottrina catara.

37: Riferimento all'indulgenza concessa dalla Chiesa ai nobili francesi che prendevano parte alla Crociata albigese.

40-42: Il trovato re allude a Luigi VIII, che morì a Montpensier il 2 novembre 1226, subito dopo la presa di Avignone.

68: Raimondo VII di Tolosa.

78-81: Quando Guilhem Figueira scriveva, il conte Raimondo non si era dunque ancora arreso ai Francesi (11 aprile 1229).

86: L'imperatore Federico II, dal quale il trovatore spera sostegno alla causa tolosana.

127-128: Nel conflitto tra Federico II e il papa Gregorio IX, Figueira - su posizioni che si potrebbero definire "ghibelline" ante litteram - si schiera decisamente a favore dell'imperatore.

152: Il senso è: "avete una pessima reputazione", con allusione ai cappelli infamanti che erano obbligati a portare alcuni condannati.

153-154: La responsabilità del massacro compiuto a Béziers il 22 luglio 1209 (le fonti indicano tra le 7.000 e le 20.000 vittime) ricade essenzialmente sulle spalle dell'abate cistercense Arnaut Amalric, che comandava l'esercito crociato e che, secondo il cronista tedesco Cesario di Heisterbach, non potendo distinguere fra eretici e cattolici, avrebbe pronunciato la terribile frase: "Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi".

157-158: Questa immagine (che risale a luoghi evangelici come Mt 7,15 e Lc 6,44) era corrente nel medioevo. I Catari la usavano nella loro polemica antiromana; cfr. per esempio il trattato apologetico La Chiesa di Dio: ,,[La Chiesa romana] perseguita e assassina chiunque non voglia acconsentire ai suoi peccati e alle sue azioni. Essa non fugge di città in città, ma domina le città, i borghi e le province e siede maestosamente nelle pompe di questo mondo; ed è temuta dai re, dagli imperatori e dagli altri signori. Non è affatto come le pecore fra i lupi, ma come i lupi fra le pecore e i capri [ ... ]. Soprattutto, perseguita e assassina la santa Chiesa di Cristo, la quale sopporta tutto con pazienza, come fa la pecora che non si difende dal lupo. Eppure, in contrasto con tutto ciò, i pastori della Chiesa romana non si vergognano di dire che sono loro le pecore e gli agnelli di Cristo; e dicono che la Chiesa di Cristo, quella che perseguitano, è la Chiesa dei lupi. Ma questa è una cosa assurda, perché una volta i lupi perseguitavano e uccidevano le pecore.
Bisognerebbe che oggi tutto andasse alla rovescia perché le pecore fossero diventate tanto feroci da mordere, inseguire e uccidere i lupi".

159: I serpenti coronati sono i vescovi e i prelati che portano la corona, cioè la mitria; per il riferimento alla "razza di vipere", cfr. Mt 3,7 e Ld,7.

sabato 8 agosto 2015

La poesia della domenica - Muhammad Ibn Arabi, La mia Anima è tutta presa di Lei

Ibn Arabi (Murcia 7 agosto 1165 - Damasco 16 novembre 1240) fu un filosofo e poeta mistico dell'Islam.
Una figura gigantesca (è detto "sommo maestro") di cui, in Europa, si sa poco o nulla (fanno eccezione gli studi di Henry Corbin e poco altro; alcune traduzioni italiane sono, invece, disponibili, ancorché rapsodiche).
Ibn Arabi viaggiò molto, avido di verità e conoscenza: Arabia, Nord Africa, Medio Oriente e, infine, la Siria, Damasco. Da giovane incontrò Averroè, il più importante filosofo arabo medioevale; non più giovane conobbe, invece, Rumi, il grande poeta mistico della Persia. Tali notazioni biografiche non sono oziose: servono a far capire all'ascoltatore disattento che, nel secondo secolo del secondo millennio, l'influenza dottrinale e filosofica dell'Islam si estendeva dalla Cina sino alla Spagna. Studiare la cultura del Medioevo europeo significa necessariamente far riferimento a tale cultura. 
In Ibn Arabi tutto è  simbolo. Il volto dell'amante, le sopracciglia, la bocca; l'alba il giorno la notte.
La Donna, qui, è la Divina Sapienza. Dio. L'Amore è estinzione del proprio sé a favore dell'annullamento in Dio. Dove è il corpo non è Dio, dove è Dio non esiste il corpo.
La selva di simboli mistici è spesso impenetrabile, ma anche una lettura superficiale, che non ne tenga conto, è egualmente appagante.
Anche la Vita Nova di Dante è tale, se pur se ne ignori il significato profondo.
Alcuni temerari hanno messo in connessione tale misticismo con quello dello stil novo italiano. Sono stati respinti con perdite. Anch'io ero scettico, poi ho mutato parere. Laddove inizia la prima poesia europea vi è, infatti, l'Islam: in Provenza (sottoposta alla pressione culturale della Spagna moresca; non dimentichiamo che il liuto è arabo: al' ud); e in Sicilia (araba per un secolo) quando, presso la corte la corte di Federico II, si sviluppò la radice possente della letteratura nazionale. Come poteva il misticismo di Guido Cavalcanti, Dante, Guinizelli essere immune da tali condizionamenti? Immune da una tradizione mistica soverchiante che avviluppava l'Europa dalla Turchia sino all'Africa e alla Spagna e che, proprio allora, nei suoi celeberrimi centri di traduzione, stava recuperando alla comprensione occidentale i capolavori della filosofia e della scienza classiche? Lo ritengo impossibile. Con ciò non si vuol certo significare che Donna me prega o Donne ch'avete intelletto d'amore siano poesie di ascendenza islamica. Si vuol significare, più modestamente, ma non con minor importanza, che il nucleo ideologico di tale visione metafisica aveva la propria scaturigine nel pensiero mistico dell'Islam (o meglio: in una parte d'esso, quello sufi, di respiro universale; eretico, quindi, rispetto all'ortodossia sunnita) proprio di alcuni pensatori d'eccezione: fra questi, Ibn Arabi.
Stupiti?
"Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quanto ne sogni la tua filosofia".

La mia Anima è tutta presa di Lei
benché io non possa vedere il Suo Volto;
se potessi vedere il Suo Viso,
sarei ucciso dalle Sue Sopracciglia scure;
e quando il mio sguardo cadesse su di Lei,
cadrei prigioniero di ciò che vedrei,
e passerei la notte stregato da Lei,
e delirerei ancora quando l’Alba si fa luminosa.
Ahimè! Per la mia grande risolutezza!
Io dico che se la grande risolutezza giovasse,
la Bellezza di quella timida Incantatrice,
non mi avrebbe reso così smarrito.
È per Bellezza come una tenera Gazzella,
il cui pascolo conoscono gli Asini Selvatici,
il cui sguardo timido, col capo a metà distolto,
rende schiave le Anime degli Uomini!
Il sue respiro è  così dolce che sembrerebbe
deliziante profumo di muschio odoroso,
lei è radiosa come il Sole di mezzogiorno,
lei brilla come la Luce della Luna.
Se appare, rivela
lo Splendore incantato del Mattino;
se scioglie le Sue trecce, la Luna
è nascosta dai Suoi Capelli neri come la notte.
Prendi il mio cuore ma lasciami, ti prego, i miei occhi,
o Luna, attraverso la Notte più scura,
che io possa guardarti.
Perché tutta la mia gioia è in ciò che vedo!

Traduzione di S.A.Q. Husaini

mercoledì 25 marzo 2015

Una poesia araba: Al-A'sha, Va’ amica mia, sei libera

G. Luca Chiovelli

Maymun ibn Qays noto come Al-A'sha (570 circa-625 circa) ovvero il Nittalopo, a causa della sua vista indebolita e della conseguente preferenza per la semioscurità.
La poesia è tratta da un volume Donzelli del 2003 che raccoglie liriche della tradizione araba, persiana, turca ed ebraica.
Dal libro in questione traggo altresì la fulminea biografia del Nostro: "Nacque e morì in un oasi a sud di Ryad ... viaggiò ... molto, probabilmente come mercante. In una delle sue poesie racconta come, per far soldi, abbia girato il mondo: Oman, Homs e Gerusalemme, ma anche Etiopia, Iraq, Iran e Arabia meridionale".
Si spinse forse a Bisanzio.
È considerato poeta preislamico anche se, forse, fu tentato dalla conversione. O forse no, come vedremo.
Di Al-A'sha non so nulla. Ignoro il contesto storico. E la lingua. Le allusioni, i riferimenti. Il senso di pietà e comprensione per la sua donna che emerge da tale solitaria lirica. Eppure son grato a questo libro: prima di crepare ho conosciuto un nuovo amico: Al-A'sha, nato in una oasi dell'Arabia centrale.
Nella poesia a volte meno si sa meglio è. L'ignoranza stimola la leggenda e, perciò, ancora, la poesia, che ne esce doppiamente amplificata. Come accade quando scorriamo le storie dei poeti della Provenza, condensate in rapide biografie, dette vidas: dicono qualcosa, tutto e niente, ciò che è filologicamente inattendibile, ma poeticamente rilevante. Meglio così. Come per Jaufré Rudel, che scrisse sei poesie e divenne immortale per la meravigliosa vida che apposero al suo minuscolo canzoniere: quasi una settima poesia, forse la più bella.

Jaufré Rudel de Blaia era uomo molto nobile, principe di Blaia. S'innamorò della contessa di Tripoli, senza averla mai vista, per il bene che ne sentiva dire dai pellegrini che venivano da Antiochia ... per il desiderio di vederla si fece crociato e si mise per mare; sulla nave lo prese una malattia; fu condotto a Tripoli, in un albergo, e dato per morto. Fu fatto sapere alla contessa, ella venne da lui, al suo capezzale e lo prese fra le braccia. Egli si rese conto che si trattava della contessa e di colpo recuperò l'udito e l'odorato e si mise a lodare Dio di avergli concesso di vivere tanto da poterla vedere; e così morì tra le sue braccia. Ella lo fece seppellire con grande pompa nella casa del Tempio; poi, in quel giorno, si fece monaca per il dolore provato per la sua morte”.

E poi basta farsi cullare dai nomi: Bisanzio, Gerusalemme, Ryad.
E poi: un'oasi a sud di Ryad. Oasi, cioè beduini. I beduini mi fanno venire in mente una noterella a una poesia di Abu Nuwas, contenuta nel citato libro di Donzelli; vi si nomina la tribù beduina di Banu 'Udhra:

"Banu 'Udhra era una tribù araba, famosa per la devozione dei suoi membri alla poesia e la loro consacrazione all'amore semplice e disinteressato, qualcosa a metà tra l'amore platonico e l'amore cortese". 

Insomma, nel cuore dell'Arabia si nascondevano provenzali e stilnovisti. L'avreste mai detto? Altrove leggo:

"I beduini della tribù preislamica di Banu 'Udhra ... avevano abbracciato il culto di una forma platonica d'amore, un amore contrastato, a distanza, che sarebbe durato sino alla morte".

Un amore a distanza? E chi ci ricorda? Nientemeno che Jaufré Rudel, il provenzale che morì bramando l'amore della principessa di Tripoli. L'amore a distanza ("amor de lohn"), l'inappagato, il più perfetto.
Vedete come tutto si tiene quando si parla fra amici.
Possiamo folleggiare ancora.
Si dice che Al-A'sha fu un nestoriano cristiano ("almost christian"). Si dice. I nestoriani credevano a una doppia natura del Cristo, umana e divina. Maria era madre della natura umana, ma non di quella divina, ineffabile. Il nestorianesimo, tenacemente combattuto, si diffuse in Persia, Cipro, Mesopotamia, Arabia; persino in India e Cina. Oggi sopravvive in piccoli gruppi. Eugenio Montale, in una sua lirica, si paragona a un "povero nestoriano smarrito". Il credo nestoriano fu, secondo alcuni, alla base del pervicace mito medioevale del Prete Gianni, monarca cristiano dell'Asia. In una famigerata lettera, ritenuta apocrifa, egli così si descrive:

"Sappi e fermamente credi che io, Prete Gianni, sono signore dei signori e in ogni ricchezza che c'è sotto il cielo, e in virtù e in potere supero tutti i re della terra. Settantadue re ci pagano i tributi. Sono un devoto cristiano e ovunque proteggo e sostengo con elemosine i cristiani veri governati dalla sovranità della mia Clemenza"

L'epistola giunse a Manuele Comneno, imperatore di Bisanzio, al papa Alessandro III e a Federico Barbarossa. Il mito del Prete Gianni incendierà l'immaginazione di tutta la letteratura europea del tardo Medioevo. Marco Polo, Ariosto; e i poeti siciliani del Duecento, inventati alla corte di Federico II, stupor mundi; e influenzati pesantemente, scopertamente, dai francesi di Provenza - quei provenzali che, secondo alcuni studiosi, trassero linfa, a sua volta, dai poeti arabi moreschi, andalusi. Stroficamente, concettualmente; e musicalmente: e infatti il liuto è arabo (al 'ud). Come araba fu la Sicilia, per più di un secolo.
Il Prete Gianni. Non conoscete la leggenda del Prete Gianni, imperatore delle tre Indie? Peggio per voi. Significa che siete sfortunati, o malaccorti, o semplicemente degli zotici, e, per soprammercato, degli Yahoo, gli scimmioni de I viaggi di Gulliver. Senza offesa.
Mi viene in mente altro? A proposito di Yahoo, Oriana Fallaci. Nel clima post 11 settembre, isterico e psicopatico, licenziò alcuni goffi libelli antimusulmani o antiarabi. In essi esaltava la civiltà occidentale contro la civiltà degli stracci in testa. In un passo d'uno di questi, scorreggiato a nove colonne da Il Corriere della Sera, ella cicalava, pressappoco: "A Firenze abbiamo Michelangelo, Dante e la cupola del Brunelleschi. Noi siamo l'Occidente. Abbiamo dato tanto al mondo. E loro, invece, cosa ci hanno dato? Al massimo qualche poesiola di Omar Khayyám".
Se l'avessero sentita, tra gli altri, il fiorentino Guido Cavalcanti, accusato di eresie averroiste, o il fiorentino Dante, idolatra di Federico II, uno che con il Medio Oriente aveva commerci concettuali fiorentissimi (stavo per dire: fiorentinissimi), l'avrebbero cacciata in convento. Ma non è colpa sua; della povera Oriana, intendo. Era una giornalista. Bisogna comprenderla, anche se il suo disprezzo è di una superficialità e di una meschinità accecanti, imperdonabili. In tal caso l'ignoranza non genera poesia, ma solo altra ignoranza. Evidentemente esistono due ignoranze; una felice, che si nutre della favola e della meraviglia e incita alla conoscenza; e un'ignoranza della mediocrità. Dalla prima nascono i fior, dalla seconda Giuliano Ferrara, un altro di cui non rimarrà niente.
Leggete, allora, il mio amico Al-A'sha, il mezzo cieco dell'oasi di Ryad; e, se lo trovate, anche il libro della Donzelli, in cui c'è posto per geni conosciuti (Hafiz, Nizami, Khayyám) e qualche sconosciuto, come Abu Nuwas, o Al-Hallaj, o il persiano Rudagi (Come acqua salsa è il baciare/a ogni sorso s'accresce la sete); Rudagi, che in vita sua scrisse 180.000 poesie. Qualcuna in più di Khayyám, e di Dante, e di Guido.

Va' amica mia, sei libera.
Tale è la sorte umana, di giorno o di notte.
Lasciami, perché andarsene è meglio del bastone
che sarebbe stato appeso, minaccioso, sopra la tua testa.
Non perché tu abbia commesso alcun grave torto
né ci abbia causato alcuna grave calamità -
Va' incolpevole e pura,
amante e amata.
Prova un altro uomo, e io
un'altra donna, proprio come vuoi tu.

Traduzione di Anna Linda Callow, da Ti amo di due amori, Donzelli, 2003.
Traduzione della vida di Rudel di R. Gagliardi.

venerdì 9 gennaio 2015

Honorificabilitudinitatibus


Honorificabilitudinitatibus.
La più lunga parola del vocabolario inglese, fra quelle che alternano vocali e consonanti.
Fa la sua apparizione nel V atto, scena prima, di Pene d’amor perdute (Love’s labour lost, 1593-1598). Zucca (Costard) e Motto (Moth) deridono il linguaggio forbito di Nataniele e Oloferne:

MOTH [Aside to COSTARD]
They have been at a great feast
of languages, and stolen the scraps.

COSTARD
O, they have lived long on the alms-basket of words.
I marvel thy master hath not eaten thee for a word;
for thou art not so long by the head as
honorificabilitudinitatibus: thou art easier
swallowed than a flap-dragon.

(Motto. Sono stati a un gran convito di linguaggi, e han fatto fuori gli avanzi.

Zucca. Oh, è una vita che questi ci campano, sul paniere degli avanzi.
Mi fa specie che il tuo padrone non ti abbia già ingurgitato, visto che sei un motto; e mica un motto spilungone, come ad esempio honorificabilitudinitatibusUn motto come te lui se lo ingolla come un chicco d'uva passa).

Honorificabilitudinitatibus è l’ablativo (o dativo) plurale del latino honorificabilitudinitas, ovvero la condizione per ricevere onori e cariche.
Shakespeare (colui che crediamo essere Shakespeare; colui che crediamo abbia scritto le opere che Shakespeare ha scritto) usa tale parola una sola volta in tutta la sua produzione (che vanta una lussureggiante ricchezza di quasi trentamila vocaboli).
Il termine fu in uso sin dall’VIII secolo dell’era volgare.
Erasmo, Albertino da Mussato, Papia, Ugone della Volta la citano. Fra gli altri. E così Dante.
Alighieri, nel De vulgari eloquentia, (II, 7) passa al setaccio le parole confacenti al volgare illustre, quelle che adatte alla poesia tragica, le sole nobili. Egli le chiama “ben pettinate” (pexa), parole di due o tre sillabe, senza z o x, dolci e levigate, quali “amore, donna, disio, virtute, donare, letitia, salute, securtate, defesa”.
Eccezioni a tali parole ben pettinate sono quelle irsute, a sua volta divise in necessarie e ornamentali. Le necessarie sono i monosillabi e le interiezioni (te, me, si, no, à). Ornamentali, invece, sono “quei polisillabi che, misti con vocaboli ben pettinati, rendono una bella armonia d'insieme”, quali
Impossibilitate,
benaventuratissimo,
inanimatissimamente,
disaventurissimamente,
sovramagnificentissimamente (che è un endecasillabo)
Dalla norma, prosegue il poeta, sono esclusi i vocaboli che eccedono l'endecasillabo come "succede alla nota parola honorificabilitudinitade, che in volgare ha dodici sillabe e in latino ne raggiunge ben tredici".
Nota parola per Dante Alighieri. E tale doveva essere anche per William Shakespeare che ambientò un terzo dei suoi drammi e delle sue commedie in Italia. Ma come poteva lo Shakespeare della tradizione (l'amico Ben Jonson lo diceva ignorante di latino e greco) padroneggiare un tal mostro linguistico?
Ovvio, risponderebbe qualcuno. Le opere di Shakespeare non le ha scritte Shakespeare (uno zotico, figlio di un conciatore, semianalfabeta, sconosciuto ai più, ignobile, meschino), ma Francis Bacon (Francesco Bacone), filosofo, scienziato, letterato, diplomatico, aristocratico e dotto giurisprudente (vedi la profusione di precisi termini giuridici in Bacon/Shakespeare).
Una delle tante riprove? Provate ad anagrammare quella parola lì, honorificabilitudinitatibus.
Ne trarrete questa ulteriore frase latina: “hi ludi, F. Baconis nati, tuiti orbi”, ovvero “queste opere, frutto di Francesco Bacone, sono preservate per il mondo”.
Mark Twain e Sigmund Freud furono baconiani convinti.
Beffardo che il termine fatale, honorificabilitudinitatibus, compaia in una scena dell’Ulisse di Joyce (Scilla e Cariddi) in cui viene, invece, sostenuta la tesi stratfordiana classica, ovvero che Shakespeare è davvero Shakespeare. Ecco Stephan Dedalus:

“Egli [Shakespeare] ha nascosto il suo nome, un bel nome, William, nei drammi, qua una comparsa, là un clown, come un antico pittore italiano metteva il suo viso in un angolo oscuro della sua tela. L'ha rivelato nei sonetti dove c'é Will in eccesso. Come a John O'Gaunt il suo nome gli è caro, caro quanto lo stemma e il cimiero che si guadagnò a forza di piaggerie, interzato in banda di nero con una lancia d'acciaio, honorificabilitudinitatibus, più caro della sua gloria di crollascena [shake-scene] del paese”.

Dante, Shakespeare, Bacon, Joyce, Freud.
Echi di una parola. Fantasmi di una grande Europa.

sabato 11 ottobre 2014

La poesia della domenica - Arnaut Daniel, "Io solo so che enorme affanno ha il cuore ..."

Dante Alighieri (De vulg. el. II, 6) lodò ampiamente la struttura di tale canzone (“Hunc gradum constructionis excellentissimus nominamus”).
Agli inizi del Trecento, durante la stesura del De vulgari, il fiorentino, però, ancora anteponeva ad Arnaut Daniel (in volgare: Arnaldo Daniello, nato a Riberac, in Dordogna, 1150-1210 circa) l’altro trovatore, Giraut de Bornhel, di Limoges.
Dieci anni più tardi, durante la stesura del Purgatorio, il giudizio è capovolto: nello straordinario canto XXVI, infatti, Dante, per bocca di Guido Guinizelli, dirà:

"O frate", disse, "questi ch’io ti cerno
col dito", e additò un spirto innanzi,
"fu miglior fabbro del parlar materno.

Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi.

Guinizelli/Dante statuisce il nuovo primato poetico.
Le parole di risposta di Arnaut (in lingua provenzale) sono immortali:

Tan m'abellis vostre cortes deman,
qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire:
jeu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen la joi qu'esper, denan;
ara vos prec, per aquela valor
que vos guida al som de l'escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor! 

(Tanto mi piace la vostra cortese domanda,
che io non mi posso né voglio nascondere a voi.
Io sono Arnaldo, che piango e canto;
pensoso vedo la passata follia,
e vedo gioioso la gioia che aspetto nel futuro.
Ora vi prego, per quel valore
che vi guida al sommo della scala,
ricordatevi a tempo del mio dolore!)

Ezra Pound considerava Arnaut il maggiore poeta di tutti i tempi.
La seguente canzone, sei stanze di sestine decasillabe, rifugge dallo sperimentalismo più arduo e dalla licenziosità del celeberrimo sirventese nato dalla disputa con il trovatore Raimon e il giullare Truc Malec.
Ci consegna, invece, un uomo per cui il valore è nella fedeltà alla propria donna, nella perseveranza e nella costanza del sentimento, nel culto della servitù d’amore – uno stato gioioso, che nulla chiede o spera, reso con un ritmo largo e disteso, definitivo.

Io solo so che enorme affanno ha il cuore,
Come soffre d’amore per il suo troppo amare.
Perché tenace e intatto è il mio volere:
Da lei non si è staccato né si è distolto mai,
La bramo come al giorno del suo primo apparire.
E assente lei trabocco di parole, poi quando
La vedo, in me fan ressa e non so cosa dire.

Vederne e udirne un’altra? No, sono cieco e sordo.
Lei solo guardo e ascolto, di lei solo m’importa;
E non uso lusinghe per piacerle, ché il cuore
La vuole più di quanto non dica la mia bocca.
Posso varcare campi valli poggi pianure,
Non troverò in un corpo tutte insieme le pure
Qualità che in lei Dio volle adunare.

Sì, sono stato in molte ricche corti,
Ma qui da lei si trova molto più da lodare:
Qui c’è misura e senno, le qualità più rare,
Bellezza, gioventù, gentili atti e diporti.
Cortesia l’ha cresciuta e istruita,
E tanto ha cancellato da sé ogni sgradita
Macchia che in lei non vedo altro che bene.

Da lei nessun piacere riterrei breve o scarso:
Ma la prego che voglia indovinarlo,
Perché da me potrà saperlo solo
Se m’esce fuori il cuore, visto che io non parlo.
Il Rodano per quanta acqua lo gonfi
Non ha un impeto tale: quando la scorgo, Amore
Fa in me più vasta piena e m’alluviona il cuore.

Gioia e diletto d’altre sono bastardi e falsi;
Non c’è alcuna che a lei possa paragonarsi,
per quanto può donare su ogni altra prevale.
Essere in sua balìa senza averla è il mio male!
Ma quest’affanno è bello, è mio riso e mia gioia,
Perché, avido e ghiotto, nel pensiero ne godo.
Dio, se potessi un giorno goderne in altro modo!

Mai mi piacque così, lo giuro, ballo o giostra
Né niente al cuore tanta gioia ha dato
Come questo diletto che maligni
Maldicenti non hanno ancora propalato,
Mio segreto tesoro. Parlo troppo e le spiace?
Perdío, bella, ch’io perda la voce e la parola
Prima di dire cosa che v’indigni!

E questa mia canzone esservi accetta vuole:
Piaccia o dispiaccia ad altri, ad Arnaut poco importa
Purché ne amiate voi le note e le parole.

Da Sirventese e canzoni, traduzione di Fernando Bandini.

mercoledì 5 marzo 2014

Laboratori Officina poesia 2014/Appunti sul III incontro



appunti I incontro
appunti II incontro

Raethia Corsini
Il programma del terzo incontro aveva come titolo:  Ritmo e voce nella tradizione poetica italiana
Primo viaggio attraverso i classici: Dante, Petrarca e gli altri.
Dopo una prima ora trascorsa (soprattutto) ad ascoltare la poetessa e docente Sonia Gentili, che ci ha donato alcune parole chiave per ri-entrare nel mondo dei classici, come spesso accade durante i laboratori, che sono dei lavori in corso, la conversazione è virata sul rapporto tra poesia e immagine grazie a uno stimolo dato da una delle partecipanti nell'incontro precedente. Se ne è parlato quindi con Sonia Gentili e una sua ospite, l'artista Teresa Iaria. Di seguito le parole chiave di questo incontro che ha mosso i suoi passi dalla lettura di quattro brani: 

Guido Cavalcanti, Donna me prega
Dante Alighieri, Al poco giorno
Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, XXX


Key-words

Sulla poesia classica

Dalla poesia scientifica e cosmologica a quella lirica, d'amore, intimista
Per i cavalcantiani l'amore è una questione "del mondo"
L'amore nasce intorno a un'immagine che tutta ci investe
La ripetizione ossessiva come forma di contenimento della follia
Forme metriche, temi lirici e follia
la metrica "deputata" è la sestina, tentativo di portare all'estremo lo stato ossessivo
Oltranza di un desiderio

martedì 4 marzo 2014

Origine del Carnevale nell'antica Roma

Pieter Bruegel il Vecchio,
Battaglia fra Quaresima e Carnevale
Di seguito un estratto dell'opera di Filippo Clementi, Il Carnevale romano dalle origini al secolo XVII, in due volumi. Il primo fu pubblicato nel 1899; il secondo, contestualmente alla ristampa del primo, nel 1939. 
Nel brano (una sintesi delle prime venti-trenta pagine dell'opera) Clementi delinea l'origine del Carnevale romano (che assurgerà a nuova gloria nel Rinascimento grazie al Pontefice Papa Giulio II) a mezzo tra i Baccanali dionisiaci e i Saturnali romani.
I Baccanali sono evocati nella loro licenziosità sfrenata; i Saturnali per il rimpianto di un'età dell'oro (saturniana, appunto) in cui gli uomini, immersi in un primitivo stato di natura, ignoravano le differenze di rango, ceto e genere. 
Notevoli le citazioni latine (in originale nel libro di Clementi): Marziale, Virgilio e, soprattutto, Publio Papinio Stazio, compagno di viaggio di Dante (e Virgilio) nel canto XXI del Purgatorio:

Ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa,
Dal piè guardando la turba che giace;
Né ci addemmo di lei, sì parlò pria, 
Dicendo: "O frati miei, Dio vi dea pace"

Stazio fu poeta amatissimo dall'Alighieri (lo credeva convertito al Cristianesimo) tanto che due celeberrimi episodi della Commedia (il conte Ugolino; Ulisse e Diomede) sono ispirati dalla Tebaide del napoletano. 

* * * * *

Il Carnevale è antico quanto il mondo. Il giorno in cui l'uomo fu creato per soffrire, sentì il desiderio ineluttabile dei godimenti. Ogni popolo ebbe quindi feste confacenti ai suoi costumi, alla sua cultura e nelle quali specialmente si rispecchia il carattere.
Dionisio portò agli uomini i suoi tripudi e il culto di lui presso i Greci fu appunto perciò più diffuso d'ogni altro. Col dono del vino, Dionisio allietava i cuori, scacciava le cure e i dolori, scioglieva dagli affanni. Per lui gli uomini venivano condotti a più gaia società: esso sintetizzava il godimento, l'allegria ...
Il culto di Dionisio ebbe da principio una forma semplice, ma pur lieta e gioconda. Plutarco ci descrive un corteggio. Portavansi innanzi un'anfora di vino e alcuni tralci, quindi veniva un capro, poi un uomo che recava un canestro di fichi. Ma su tale moderazione prevalse ben presto l'ebrezza sessuale, e le feste dionisiache si trasformarono in vere orgie furiose.
Da allora Dionisio ebbe il nome di Bacco ...
Su per le balze aspre e rocciose, alla luce rossastra delle fiaccole, passavano i fantastici cortei delle baccanti. Intorno si spandea l'assordante rumore dei flauti e dei timpani e si levava altissimo il grido di “enoì!” ... Egli [Dionisio], dalla muscolatura floscia quasi femminile, sedeva sul carro.  ... Intorno a lui folleggiavano le Menadi e le Bassaridi dalla lunga veste colorata, e strepitavano i fauni e i satiri coi tirsi. Le eleganti canefore graziosamente levavano in alto le loro canestre ricolme di arredi sacri; agitavano i grandi rami d'albero, i dendroferi e gli zampadoferi, scotendo le fiaccole di resina, suonavano cembali e campanelli. Le donne, invasate dal furore di Bacco, spesso nude o coperte con un lievissimo velo, con la destra ornata di edera e di frondi di viti, con i capelli sparsi sugli omeri, seguivano saltellando convulsamente il carro del nume. Alcune di esse circondavano il delicato corpo con serpenti vivi ....
Nel principio del VI secolo un greco passato in Etruria ci spargeva il fanatismo di Bacco.
...
Sembra che in Roma se ne facesse iniziatore L. Scipione, fratello dell'Africano il seniore ... Il Senato colpì quei riti con tutto il rigore della legge ... [tuttavia] più che a sopprimere questi riti, intese a moderarne l'eccessiva licenza ... Con le Dionisiache pubbliche e private, nelle quali gli iniziati al culto di Bacco si abbandonavano ad una estrema dissolutezza ed alle più turpi e nefande licenze, si svolgevano fino ai primi tempi i Saturnali, in cui patrizi, plebei, schiavi, in umana solidarietà, trascorrevano alcuni giorni nella più gioviale letizia.
In queste feste abbiamo l'origine del Carnevale romano. Erano celebrate in onore di Saturno, tra gli ultimi giorni di dicembre e il principio di gennaio, e in esse si figurava di ritornare alla semplicità dei costumi primitivi, alla eguaglianza degli uomini nella vita sociale, cioé all'età aurea di Saturno, quando l'uomo passava dalla barbaria alla civiltà .....
Questa rievocazione di un'aurea era portava uno sconvolgimento nella vita sociale: non si cercava che il piacere senza alcun freno: giovani e vecchi si abbandonavano ai sollazzi e ai banchetti. Nel periodo dei Saturnali (saturnalia agere) gli schiavi erano trattati dalle famiglie come padroni, con i quali scambiavano le vesti e talvolta da questi erano, perfino, serviti a mensa; avevano facoltà di dir loro ogni sorta di villanie, di rimproverarli nei loro difetti, di rinfacciare le umiliazioni patite nel loro stato di servitù ...
Così nei Saturnali spariva ogni differenza di casta, e si passavano intere notti in tripudi e pranzi sontuosi, sedendo tutti senza distinzione in egual posto al banchetto.

Alla mensa siede un solo ordine
Bambini, donne, plebei cavalieri, senatori

 … il popolo si pigiava nelle piazze per assistere ai giochi gladiatorii. Dovunque era tumulto: tutti comparivano in pubblico, chi col viso imbrattato di fuligine, chi con la maschera al volto ... Tutta la popolazione gettava la toga, indossava una veste slacciata detta synthesis, e metteva in testa il pileo - insegna dell'uomo libero (un berretto rotondo senza falda, simile ad un cappuccio di Pulcinella). Taluni poi erano coperti di cuffiotti, come i nostri domini, o indossavano altri goffi travestimenti. Era questa la pileata Roma di Marziale

Marziale, Epigrammi, XIV, 142

Mentre la toga normale si riposa felice per cinque giorni,
potrai indossare a buon diritto questa sopravveste [synthesis]

Né nel Carnevale mancava il getto dei confetti, di fiori e di frutta. Stazio nel descrivere la gazzarra dei Saturnali ci presenta una scena così viva, che pare di assistere alla baldoria del Corso. Dovunque - scrive - si veggono piovere confetture di ogni genere, noci di Prenestre, e susine di Damasco, zuccheri e biscotti pregiatissimi, formaggini, morselletti, dattili.

Stazio, Selve, I, 6, 9-20

Appena l'Aurora spingeva il sorgere del sole novello,
Già le leccornie cominciavano a piovere
Dalle corde a cui erano appese
(Questa rugiada Euro diffuse levandosi):
Tutto quello che di famoso cade dai noceti del Ponto
O dalle fertili colline idumee,
Tutta quello che la pia Damasco
Fa germogliare sopra i suoi rami
O che fa seccare l'ebosia Cauni,
Cade giù per fornire gratuitamente un immenso bottino;
Teneri pupazzetti di pasta e piccole focacce e dolci fatti col vino novello
Cadevan giù e grossi datteri senza che si vedesse da quale palma

… Ed eccoci ai giochi gladiatori, per i quali scendono sul foro squadre di donne ardite e pugnaci, come altrettante amazzoni, contro uno stuolo d'uomini, suscitando nella mischia fragorosi applausi da parte della folla spettatrice, tanto più vivi quanto più questa pare minacciosa di strage e morte.
E appena cade la notte dovunque si ode il suono di cedre, di trombe, di lire, mentre al teatro vaghe donzelle intrecciano danze, ed agili danzatrici spagnole, ballando, toccano timpani e cembali. Intanto scende dall'alto a volo una nube d'uccelli

Stazio, Selve, I, 6, 75-78

Frattanto con volo improvviso
Piombano dal cielo immensi nugoli di uccelli
Che gli abitanti della regione del sacro Nilo e dell'orrido Fasi,
Nonché i Numidi raccolgono quando soffia l'umido Austro

... Il loro cinguettio assorda di festevoli voci il cielo, e la folla scatta al grido di “Viva Saturno!”

Stazio, Selve, I, 6, 81-82

Innumerevoli voci si levano al cielo
Inneggiando ai Saturnali del Principe

Infine tutta la città si illumina di faci, onde la notte stessa perde il suo volto sotto tante luci.
Non a torto Stazio si domanda: chi potrà mai cantare le delizie di questo giorno, le liete mense, ricche di pregiato umore di Bacco? La fama di questi giorni - esclama - durerà viva finché il Tebro volgerà il suo corso al mare e avranno nome e ricordo il Campidoglio e Roma!!

Stazio, Selve, I, 6, 93-95

Chi potrebbe cantare gli spettacoli,
L'allegria permissiva, il festino, le mense gratuitamente imbandite,
I fiumi del generoso Lieo?

I, 6, 98-102

Quanti anni durerà la memoria di questo giorno!
Come il suo sacro ricordo non perirà per l'usura del tempo,
Finché i monti del Lazio e il padre Tevere,
Finché la tua Roma dureranno
E finche durerà sulla terra il Campidoglio,
Che tu restituisci al mondo!

Dicemmo come durante i Saturnali molti comparissero sulle vie col viso coperto da maschere. Ora è bene stabilire come l'origine della maschera rimonti in Roma agli antichi baccanali. I baccanti e le baccanti, nelle loro orgie, si tingevano da principio le gote col sangue delle vittime immolate al nume: adoperavano poscia il succo delle more e la feccia del vino. Nei saturnali gli schiavi specialmente s'impiastricciavano il volto di fuligine. Po venne l'uso della maschera: le primitive furono - ricorda Virgilio - di corteccia di alberi

Virgilio, Georgiche, II, 385-389

Così anche d'Ausonia i coloni, gente discesa da Troia,
Con versi rozzi scherzano e con riso libero,
E maschere mostruose si pongono, di cortecce vuote,
E te, Bacco, invocano nelle canzoni festose
E per le mascherine fragili appendono agli alti pini.

In seguito, perfezionandosi, si fecero maschere di legno colorato, di cuoio foderato di tela, di pasta di carta e perfino di metallo e di avorio: si giunse cosi a formarne intere perfino col collo e parte del petto, ed anche con mascelle mobili.
La maschera si usava nelle rappresentazioni sceniche. Vi era stata introdotta dall'attore Roscio Gallo ... Doveva risultare conforme al carattere del personaggio che si metteva in azione ... Capelli irti e sparsi annunziavano il dolore, capelli scarmigliati sulla spalla la sciagura. I giovani innamorati si adornavano di bionda capigliatura per sembrare Apollo ... Ma se l'origine della maschera carnevalesca si confonde con quella della maschera scenica, l'una e l'altra trovarono sempre ... la prima ragione d'essere in opposti sentimenti. La maschera scenica servì a rappresentare tutte le diverse passioni di cui l'anima umana è capace, onde se ne ebbero di comiche e di tragiche, per modo da provocare negli spettatori il riso e il terrore ... Al contrario la maschera carnevalesca ... serviva semplicemente a celar la vergogna di color che ci prendevano parte, permettendo ogni sorta di pazzie.

Consigli di lettura

Filippo Clementi, Il Carnevale romano dalle origini al secolo XVII, 1939 (1^ ed. 1899)
Stazio, Opere, Utet, 1980 (cura di Antonio Traglia e Giuseppe Aricó)
Virgilio, Opere, Utet, 1971 (Cura di Carlo Carena)
Marziale, Epigrammi (cura di Simone Beta), Mondadori, 1994
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