Honorificabilitudinitatibus.
La più lunga parola del vocabolario inglese, fra quelle che alternano vocali e consonanti.
Fa la sua apparizione nel V
atto, scena prima, di Pene d’amor perdute (Love’s labour lost, 1593-1598). Zucca (Costard)
e Motto (Moth) deridono il linguaggio forbito di Nataniele e Oloferne:
MOTH [Aside to COSTARD]
They have been at a great feast
of languages, and stolen the scraps.
COSTARD
O, they have lived long on the alms-basket of words.
I marvel thy master hath not eaten thee for a word;
for thou art not so long by the head as
honorificabilitudinitatibus: thou art easier
swallowed than a flap-dragon.
(Motto. Sono
stati a un gran convito di linguaggi, e han fatto fuori gli avanzi.
Zucca. Oh, è una vita che questi ci
campano, sul paniere degli avanzi.
Mi fa specie che il tuo padrone non ti
abbia già ingurgitato, visto che sei un motto; e mica un motto spilungone, come ad
esempio honorificabilitudinitatibus. Un motto come te lui se lo ingolla come
un chicco d'uva passa).
Honorificabilitudinitatibus è l’ablativo
(o dativo) plurale del latino honorificabilitudinitas, ovvero la condizione per ricevere onori e cariche.
Shakespeare (colui che crediamo essere
Shakespeare; colui che crediamo abbia scritto le opere che Shakespeare ha
scritto) usa tale parola una sola volta in tutta la sua produzione (che vanta una
lussureggiante ricchezza di quasi trentamila vocaboli).
Il termine fu in uso sin dall’VIII
secolo dell’era volgare.
Erasmo, Albertino da Mussato, Papia,
Ugone della Volta la citano. Fra gli altri. E così Dante.
Alighieri, nel De vulgari eloquentia, (II,
7) passa al setaccio le parole confacenti al volgare illustre, quelle che adatte alla poesia tragica, le sole nobili. Egli le chiama “ben pettinate” (pexa),
parole di due o tre sillabe, senza z o x, dolci e levigate, quali “amore, donna, disio, virtute, donare, letitia, salute, securtate, defesa”.
Eccezioni a tali parole ben pettinate
sono quelle irsute, a sua volta divise in necessarie e ornamentali. Le necessarie
sono i monosillabi e le interiezioni (te, me, si, no, à). Ornamentali, invece, sono “quei polisillabi che,
misti con vocaboli ben pettinati, rendono una bella armonia d'insieme”, quali
Impossibilitate,
benaventuratissimo,
inanimatissimamente,
disaventurissimamente,
sovramagnificentissimamente (che è un endecasillabo)
Dalla norma, prosegue il poeta, sono
esclusi i vocaboli che eccedono l'endecasillabo come "succede alla nota
parola honorificabilitudinitade, che in volgare ha dodici sillabe e in latino
ne raggiunge ben tredici".
Nota parola per Dante
Alighieri. E tale doveva essere anche per William Shakespeare che ambientò un
terzo dei suoi drammi e delle sue commedie in Italia. Ma come poteva lo Shakespeare della tradizione (l'amico Ben Jonson lo diceva ignorante di latino e greco) padroneggiare un tal mostro linguistico?
Ovvio, risponderebbe qualcuno. Le opere di Shakespeare non le ha scritte Shakespeare (uno zotico,
figlio di un conciatore, semianalfabeta, sconosciuto ai più, ignobile, meschino),
ma Francis Bacon (Francesco Bacone), filosofo, scienziato, letterato, diplomatico,
aristocratico e dotto giurisprudente (vedi la profusione di precisi termini
giuridici in Bacon/Shakespeare).
Una delle tante riprove? Provate
ad anagrammare quella parola lì, honorificabilitudinitatibus.
Ne trarrete questa ulteriore frase
latina: “hi ludi, F. Baconis nati, tuiti orbi”, ovvero “queste opere, frutto di
Francesco Bacone, sono preservate per il mondo”.
Mark Twain e Sigmund Freud furono
baconiani convinti.
Beffardo che il termine fatale, honorificabilitudinitatibus, compaia in una scena dell’Ulisse di Joyce (Scilla e Cariddi) in cui viene,
invece, sostenuta la tesi stratfordiana classica, ovvero che Shakespeare è davvero
Shakespeare. Ecco Stephan Dedalus:
“Egli [Shakespeare] ha nascosto il
suo nome, un bel nome, William, nei drammi, qua una comparsa, là un clown, come
un antico pittore italiano metteva il suo viso in un angolo oscuro della sua
tela. L'ha rivelato nei sonetti dove c'é Will in eccesso. Come a John O'Gaunt
il suo nome gli è caro, caro quanto lo stemma e il cimiero che si guadagnò a
forza di piaggerie, interzato in banda di nero con una lancia d'acciaio,
honorificabilitudinitatibus, più caro della sua gloria di crollascena [shake-scene]
del paese”.
Dante, Shakespeare, Bacon, Joyce, Freud.
Echi di una parola. Fantasmi di
una grande Europa.
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