Alla vigilia della Giornata della memoria pubblichiamo un testo tratto da Sui banchi del regime, una pubblicazione che il Cesp - Centro Studi per la Scuola Pubblica ha realizzato per far conoscere agli studenti di oggi una delle pagine più vergognose nella storia della scuola italiana.
Gianluca Gabrielli
Durante l'estate del 1938 il ministro Bottai inviò una circolare ai presidi e direttori didattici per avviare le prime procedure di censimento degli ebrei presenti tra i docenti, gli studenti e gli autori di libri di testo adottati dalle classi. Una procedura burocratica che, con tempi diversi, produsse tra settembre e novembre l'espulsione di 279 tra presidi e professori e di un numero ancora ignoto di maestre elementari, la cacciata di migliaia di studenti e la sostituzione di oltre un centinaio di libri scolastici già adottati. Fu un'azione che, confrontata ai ritmi solitamente lenti e farraginosi della burocrazia ministeriale, si può definire fulminea. Nel giro di tre mesi la campagna razzista del fascismo produsse proprio nel mondo della scuola i suoi effetti più drastici ed immediati; la scuola italiana si trovò sconvolta nel profondo e – pur per breve tempo – strappò alla scuola nazista, ove ancora vigeva la politica del numero chiuso rispetto agli studenti ebrei, il triste primato della radicalità razzista.
Bottai credeva nell'utilità della campagna antisemita ed il suo ministero la condusse con uno zelo particolare, riconoscendo la centralità della scuola e delle istituzioni culturali al fine di diffondere in profondità e capillarmente la visione del mondo razzista. Le caratteristiche del calendario scolastico imposero al ministro tempi strettissimi per colpire con la massima forza gli ebrei riducendo al minimo il rischio di una fraternizzazione solidale di compagni di classe e colleghi; bisognava agire prima dell'inizio delle lezioni e così fu fatto, in modo che il nuovo anno scolastico cominciasse con l'istituzione già pienamente traghettata nella nuova condizione prodotta dalla persecuzione, senza ebrei dietro ai banchi e dietro alle cattedre, senza nomi ebraici sui frontespizi dei libri di testo: il XVI anno dell'era fascista era anche il I anno scolastico dell'era razzista. D'altronde il regime aveva già mostrato di saper condurre le campagne ideologiche in tempi efficaci per una loro valorizzazione scolastica: due anni prima la guerra di conquista dell'Etiopia era stata anche il capolavoro della propaganda scolastica del regime: cominciata in corrispondenza dell'apertura dell'anno scolastico, la vittoria e l'impero erano stati celebrati il 9 maggio, un mese prima della chiusura estiva, giusto il tempo di festeggiare la vittoria in mille iniziative in piazza e nel cortile degli istituti.
Agire in questo modo, cacciando gli allievi e i docenti ebrei, non significava solo perseguitare una categoria di cittadini, ma aveva anche la valenza di mettere a segno un'azione pedagogica di formidabile efficacia per inculcare una mentalità razzista negli allievi. Più che lo studio, i fatti: cosa c'è di più potente nel formare razzisticamente le menti degli alunni italiani che cacciare i loro compagni di banco ebrei? Come affermare in modo più spietatamente efficace l'inferiorità degli alunni ebrei se non privandoli da un giorno all'altro del diritto di continuare a frequentare le scuole di tutti?
Bottai - e con lui tutta la catena di funzionari che ne applicarono le direttive - in questo modo, mentre colpiva i diritti e le condizioni di vita di migliaia tra giovani, lavoratori della scuola e insegnanti, metteva in azione un silenzioso curricolo di razzizzazione degli ebrei che avrebbe agito nelle menti di tutti gli allievi italiani producendo apprendimento: insegnava il concetto di “razza ebraica”, di pericolosità ebraica, trasmetteva il senso di superiorità legato all'appartenenza alla “razza” ariana o italiana “bonificata” dalle presenze ebraiche.
Prima del 1938
Ma il curricolo razzista non si completava con la cacciata degli ebrei, così come non era iniziato con essa. Fin dai tempi precedenti il fascismo erano presenti nei percorsi scolastici (ed in essi radicati) elementi forti di razzismo, indirizzato specialmente contro i sudditi africani e in generale contro gli abitanti dei territori colonizzati dagli europei. Non è difficile trovare nei libri di testo - a partire dall'esordio coloniale negli anni Ottanta dell'Ottocento – i racconti delle imprese coloniali e la loro giustificazione attraverso la descrizione della presunta civiltà inferiore degli africani: la civilizzazione di “razze” inferiori era infatti uno degli elementi principali utilizzato per trasformare agli occhi degli studenti le guerra di sopraffazione in imprese quasi umanitarie. Inoltre il razzismo era immancabile nelle pagine di geografia, dove veniva presentata la variabilità delle forme umane: dall'Unità d'Italia fino agli anni Sessanta del Novecento rimase costante la suddivisione in “razze” e l'attribuzione alle diverse “razze” di caratteristiche fisiche e spesso anche intellettuali e morali gerarchizzate, avvalorando l'idea che ognuna ricoprisse un gradino ben preciso e immutabile della scala delle civiltà.
La guerra di conquista dell'Etiopia costituì probabilmente il momento di svolta, sia perché fu l'occasione in cui il razzismo esistente “di fatto” nelle colonie venne potenziato e modificato attraverso l'introduzione di una legislazione specifica contro le unioni miste e contro i cosiddetti “meticci”; sia perché anche a livello di scuola fece breccia l'idea che gli italiani, guidati dal fascismo, stessero mostrando la propria superiorità di stirpe; un'idea che funzionò da apripista teorico per le imminenti articolazioni antisemite. Così le prime azioni di Bottai contro gli ebrei furono efficaci anche perché condotte nei confronti di una popolazione scolastica e di una cultura didattica che considerava l'esistenza e la gerarchia delle “razze” come una verità evidente e che riteneva gli ebrei come un popolo caratterizzato da religione ma anche da caratteristiche razziali proprie (come si legge in un libro di geografia del 1936).
Dopo il 1938
Alla fine di ottobre 1938 quindi, il curricolo razzista e antisemita si era pienamente dispiegato nelle scuole soprattutto nella sua forma “negativa”, con il muto potere didattico delle esclusioni. Nei mesi e negli anni successivi la sua teorizzazione divenne tema di studio in molte materie, dalla storia all'educazione fascista (una sorta di educazione civica del regime), dalla geografia alle scienze. In questo modo si completò il paradigma “negativo” del razzismo fascista, quello cioè che puntava sui soggetti definiti come inferiori per discriminarli e stigmatizzarli. Ma il razzismo funziona come un dispositivo unitario che, nel momento in cui produce la definizione dell'Altro, contemporaneamente e nello stesso processo produce la definizione di Sé. Quando sui libri di testo o nei fumetti del giornalino “il Balilla” veniva descritto l'africano selvaggio ed indolente, oppure l'ebreo infido e avaro, nello stesso processo implicitamente risultava scolpita l'immagine di un italiano ariano e fascista, laborioso e civilizzato, leale e generoso. Questa costruzione “positiva” della razza bianca costituì una parte fondamentale del razzismo italiano, e in particolar modo di quello scolastico. Essa non rimase solamente implicita, ma si dispiegò in tutte le materie di studio costituendo un curricolo martellante, teso ad esempio ad esaltare il genio italico di Dante o di Cristoforo Colombo come prova della superiorità della stirpe, la religione cristiana intesa come apogeo dell'approccio religioso, la tutela dell'infanzia in quanto garanzia di sviluppo ed espansione della “razza”. Sono numerosi gli insegnanti che, rispondendo alle domande dei presidi sull'efficacia razzista della loro didattica, indicavano lo svolgimento di questi temi, che in effetti costituivano il positivo fotografico delle discriminazioni e delle stigmatizzazioni. Solo un malinteso concetto di razzismo permise, nel dopoguerra, di separare i due aspetti e quindi di derubricare tutta la didattica di esaltazione dell'italianità fascista e “bianca” dal cono d'ombra delle leggi razziali.
Così, quando ci chiediamo come funzionasse l'assimilazione del razzismo nelle scuole fasciste, non possiamo scindere gli aspetti persecutori da quelli didattici, così come non possiamo che considerare in maniera integrata i contenuti didattici stigmatizzanti sugli ebrei e sugli africani e le articolate esaltazioni della storia, della cultura, della religione, del corpo (bianco) degli italiani. Ce lo ricorda (e lo insegnava all'epoca) il principale “libro di testo” del razzismo fascista, il famigerato Secondo libro della razza, rivolto alle quinte classi elementari, alle scuole medie, all'insegnamento della cultura fascista e all'educazione dei giovani inquadrati nella gioventù italiana del Littorio. Prima di tutto costruire l'alterità e stigmatizzarla:
“L'evidente inferiorità di alcune razze, e specialmente di quella che si è convenuto di chiamare negroide...”;
“Secondo la loro indole inalterabile, gli ebrei, pur essendo in Italia un'infima minoranza, mirarono tenacemente a dominare la coscienza nazionale e la vita politica ed economica”.
Ma poi costruire il Sé, l'identità dei superiori di “razza”, attraverso tutti i contenuti che ne definiscono i confini e l'eccellenza:
“La razza ariana ha la missione di civilizzare il mondo, e di farne incessantemente progredire la civiltà”.
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