Amina Sboui
Febbraio 2013.
È su Internet che è cominciata la mia storia «pubblica». Come tutte le ragazze della mia età, passavo ore e ore connessa, a navigare da un sito all’altro, in contatto tramite Facebook con i miei amici in Tunisia, ma anche con altri sparsi un po’ dappertutto nel mondo.
Un giorno, senza cercare nulla di preciso, ma digitando di continuo parole come «donne» e «condizione delle donne», sono capitata su un sito d’informazione che parlava di una manifestazione in India. Le foto erano incredibili. Provocatorie direi. Un gruppo di donne completamente nude reggevano uno striscione con la scritta: «Indian army rape us», «L’esercito indiano ci violenta». Denunciavano le aggressioni sessuali compiute da alcuni militari dell’esercito indiano nel Kashmir e in altre province, in cui erano impegnati in missioni repressive. Sotto le foto, poche righe di testo spiegavano che lo stupro era considerato praticamente normale lì. Ero soprattutto stupita di scoprire che quelle donne avevano avuto il coraggio di adottare una soluzione tanto coraggiosa: mostrare il proprio corpo nudo in risposta all’oppressione maschile. Era la prima volta che vedevo corpi
femminili esposti in quel modo davanti all’obiettivo di una macchina fotografica e nell’ambito di una contestazione politica.
Incuriosita ho cercato di saperne di più e ho digitato su Google: «manifestazione di donne a seno nudo».
Una nuova foto è apparsa sullo schermo. Poi due, poi tre... con la torre Eiffel sullo sfondo e ragazze dall’aria gioiosa, fiori nei capelli, braccia alzate e seni nudi. Una decina di loro avevano scritte in inglese e in francese sul corpo. Guardavo quelle immagini, prima stupita, poi decisamente rapita. Si trattava di una manifestazione organizzata a Parigi da un gruppo chiamato Femen. Sul corpo di una ho decifrato, in inglese: «Muslim women let’s get naked»! Cioè «Donne musulmane, spogliatevi». Mi ha fatto sorridere. Sul corpo di un’altra e sui cartelli che agitavano c’era scritto, in arabo: «Senza velo e orgogliosa» o ancora: «Laicità e libertà» in francese.
Mi è piaciuto. Era un gesto radicale, che metteva in primo piano l’orgoglio, la dignità delle donne. Quelle parole erano giuste. Quello era un atto moderno; le donne si servivano dei loro corpi mostrandosi agli uomini, come libri aperti. Il corpo della donna, così spesso disprezzato, sfruttato, manipolato, violentato, diventava una bandiera. Ho continuato le mie ricerche in rete, e su Facebook ho trovato la pagina delle Femen. Spiegavano le loro azioni, i loro obiettivi: «Combattere l’industria del sesso», «Sollevarsi contro i dittatori di tutti i paesi, contro l’integralismo religioso»...
(da Amina Sboui, Il mio corpo mi appartiene, Giunti, in libreria da mercoledi 21 gennaio)
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