L'11 febbraio 2015 nell'aula magna dell 'IIS Federico Caffè viene presentata la seconda edizione di In difesa del Welfare State di Federico Caffè, curata da Paolo Ramazzotti, edita da Rosenberg&Seller.
Alla tavola rotonda, moderata dalla giornalista Roberta Carlini, partecipano Enrico Giovannini, docente a Tor Vergata e ex Ministro del Lavoro del Governo Letta; Paolo Leon, docente emerito a RomaTre; Tommaso Nannicini, docente alla Bocconi e consigliere economico di Renzi; Paolo Ramazzotti, docente Università Macerata. Proponiamo alcune righe dall'introduzione.
Paolo Ramazzotti
Poco dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2007 Elisabetta d’Inghilterra chiese, con un candore concesso solo a una regina, perché gli economisti non fossero stati in grado di prevedere la crisi. In effetti, benché, come si è detto, vi fossero economisti che – ispirandosi all’insegnamento keynesiano e minskiano – avevano segnalato la tendenza in atto, la gran parte della categoria, specie quella legata all’approccio neoliberista, non riteneva che si potesse verificare quanto poi è avvenuto. La domanda avrebbe suggerito un riesame del modo di indagare l’economia da parte di chi confidava nell’intrinseca stabilità del sistema.
Eppure, se si fa eccezione per la riflessione autocritica proposta da un autorevole esponente del pensiero neoliberista come R. Posner e le pragmatiche manovre di politica finanziaria e monetaria, volte a evitare il collasso del sistema bancario o la disgregazione dell’eurosistema, l’impianto generale delle politiche economiche e del modo di indagare
l’economia non sono cambiati. Viceversa, sembra prevalere l’opinione secondo cui i drammi sociali – disoccupazione, precarietà di reddito, sperequazione distributiva e povertà crescente – che i cittadini di molti paesi si trovano a subire per effetto di tali politiche siano necessari affinché l’economia riprenda a funzionare. Ci si è trovati, quindi, in presenza di quella che C. Crouch (2012) ha definito, nel titolo inglese del suo libro, «la strana non-morte del neoliberismo».
Occorre osservare, tuttavia, che malgrado una certa incomunicabilità al suo interno, la comunità degli economisti non è monolitica. Negli ultimi decenni sono fiorite sia riviste sia associazioni che si pongono in modo critico verso l’approccio dominante. Viene da chiedersi perché esse non riescano a creare opinione e a modificare il senso comune
del pensiero economico.
Va da sé che gli interessi costituiti, quelli in grado di finanziare la ricerca a carattere economico sia nelle università sia nei centri di ricerca privati, privilegiano quegli approcci teorici che sono a loro congeniali. Che favoriscano indagini documentate o studi realizzati in
modo affrettato, è evidente che la quantità di materiale prodotto crea opinione, specie in presenza di ridotti fondi alla ricerca indipendente da parte dell’operatore pubblico. Gli stessi criteri di formazione universitaria e di reclutamento accademico influiscono sulla riproduzione di un approccio sostanzialmente autoreferenziale per il suo impianto
cartesiano-euclideo.
Eppure, se si fa eccezione per la riflessione autocritica proposta da un autorevole esponente del pensiero neoliberista come R. Posner e le pragmatiche manovre di politica finanziaria e monetaria, volte a evitare il collasso del sistema bancario o la disgregazione dell’eurosistema, l’impianto generale delle politiche economiche e del modo di indagare
l’economia non sono cambiati. Viceversa, sembra prevalere l’opinione secondo cui i drammi sociali – disoccupazione, precarietà di reddito, sperequazione distributiva e povertà crescente – che i cittadini di molti paesi si trovano a subire per effetto di tali politiche siano necessari affinché l’economia riprenda a funzionare. Ci si è trovati, quindi, in presenza di quella che C. Crouch (2012) ha definito, nel titolo inglese del suo libro, «la strana non-morte del neoliberismo».
Occorre osservare, tuttavia, che malgrado una certa incomunicabilità al suo interno, la comunità degli economisti non è monolitica. Negli ultimi decenni sono fiorite sia riviste sia associazioni che si pongono in modo critico verso l’approccio dominante. Viene da chiedersi perché esse non riescano a creare opinione e a modificare il senso comune
del pensiero economico.
Va da sé che gli interessi costituiti, quelli in grado di finanziare la ricerca a carattere economico sia nelle università sia nei centri di ricerca privati, privilegiano quegli approcci teorici che sono a loro congeniali. Che favoriscano indagini documentate o studi realizzati in
modo affrettato, è evidente che la quantità di materiale prodotto crea opinione, specie in presenza di ridotti fondi alla ricerca indipendente da parte dell’operatore pubblico. Gli stessi criteri di formazione universitaria e di reclutamento accademico influiscono sulla riproduzione di un approccio sostanzialmente autoreferenziale per il suo impianto
cartesiano-euclideo.
Senza escludere l’importanza di queste circostanze, la riflessione condotta sul contributo generale di Caffè suggerisce che vi è dell’altro. Si tratta della consapevolezza «babilonese» che i giudizi di valore – quindi le premesse etiche – sono strettamente intrecciati non solo alle opzioni di politica economica ma al modo stesso di svolgere e concepire l’indagine scientifica. Ripartire da questo modo di pensare l’economia può forse permettere di sfuggire sia ai compatibilisti economici criticati ne La solitudine del riformista sia ai compatibilisti politici criticati ne La solitudine del maratoneta. Potrebbe suggerire un percorso nuovo a chi,
da sinistra, si proponga un’alternativa alla «non morte del neoliberismo».
da sinistra, si proponga un’alternativa alla «non morte del neoliberismo».
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