Una breve poesia del filosofo tedesco, piana e semplice, ma indicativa del suo pathos per la distanza, dell'anelito per un nuovo uomo, selezionato, voluto, elevato, aristocratico.
Come scrisse lui stesso in Al di là del bene e del male:
"Ogni elevazione del tipo “uomo” è stata, fino a oggi, opera di una società aristocratica – e così continuerà sempre a essere: di una società, cioè, che crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitù. Senza il pathos della distanza, così come nasce dalla incarnata diversità delle classi, dalla costante ampiezza e altezza di sguardo con cui la casta dominante considera sudditi e strumenti, nonché dal suo altrettanto costante esercizio nell'obbedire e nel comandare, nel tenere in basso e a distanza, senza questo pathos non potrebbe neppure nascere quel desiderio di un sempre nuovo accrescersi della distanza all’interno dell’anima stessa, la elaborazione di condizioni sempre più elevate, più rare, più lontane, più cariche di tensione, più vaste, insomma l’innalzamento appunto del tipo 'uomo', l’assiduo 'autosuperamento dell’uomo' ..."
Un tale oltreuomo è, in un'epoca di gnomi, il filosofo, vale a dire Nietzsche stesso, Zarathustra, colui che annuncia la fine dei tempi metafisici - a prezzo della propria vita.
Troppo io crebbi al di sopra
Degli uomini e degli animali
E quando parlo, nessuno parla con me.
Troppo solitario e troppo alto
Son cresciuto:
Ora attendo - che cosa aspetto mai!
A me troppo vicina è la dimora
Delle nuvole,
La prima folgore attendo.
Da Poesie, 2004 (traduzione di Giuseppe D'Ambrosio Angelillo)
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