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domenica 25 gennaio 2015

La poesia della domenica - Friedrich Nietzsche, Il pino e la folgore

Una breve poesia del filosofo tedesco, piana e semplice, ma indicativa del suo pathos per la distanza, dell'anelito per un nuovo uomo, selezionato, voluto, elevato, aristocratico.
Come scrisse lui stesso in Al di là del bene e del male:
"Ogni elevazione del tipo “uomo” è stata, fino a oggi, opera di una società aristocratica – e così continuerà sempre a essere: di una società, cioè, che crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitù. Senza il pathos della distanza, così come nasce dalla incarnata diversità delle classi, dalla costante ampiezza e altezza di sguardo con cui la casta dominante considera sudditi e strumenti, nonché dal suo altrettanto costante esercizio nell'obbedire e nel comandare, nel tenere in basso e a distanza, senza questo pathos non potrebbe neppure nascere quel desiderio di un sempre nuovo accrescersi della distanza all’interno dell’anima stessa, la elaborazione di condizioni sempre più elevate, più rare, più lontane, più cariche di tensione, più vaste, insomma l’innalzamento appunto del tipo 'uomo', l’assiduo 'autosuperamento dell’uomo' ..."
Un tale oltreuomo è, in un'epoca di gnomi, il filosofo, vale a dire Nietzsche stesso, Zarathustra, colui che annuncia la fine dei tempi metafisici -  a prezzo della propria vita.

Troppo io crebbi al di sopra
   Degli uomini e degli animali
E quando parlo, nessuno parla con me.

Troppo solitario e troppo alto
   Son cresciuto:
Ora attendo - che cosa aspetto mai!

A me troppo vicina è la dimora
   Delle nuvole,
La prima folgore attendo.

Da Poesie, 2004 (traduzione di Giuseppe D'Ambrosio Angelillo)

martedì 28 ottobre 2014

Il trionfo del cretino

Alceste

Mettetevi comodi.
Ecco un articolo di Michael Snyder:
“Richard Lynn, psicologo alla University of Ulster, ha calcolato il declino del potenziale genetico umano. Ha usato i dati sui quozienti medi di tutto il mondo dal 1950 al 2000, e scoperto che la nostra intelligenza collettiva è scesa di un punto. Il dr. Lynn prevede che, se la tendenza continua, potremmo perdere altri 1,3 punti di QI entro il 2050. Un punto di QI non sembra molto, ma quando si torna ancora più indietro nel tempo il declino diventa molto più consistente. Per esempio, un professore di psicologia all’Università di Amsterdam, Jan te Nijenhuis, ha calcolato che dall’epoca vittoriana abbiamo perso in media 14 punti di QI”.

Ah, quanto mi piace la scienza! E sentite la Cambridge University:

“Il genere umano si sta considerevolmente rimpicciolendo … Anche i nostri cervelli sono più piccoli. I risultati dello studio ribaltano il luogo comune secondo cui gli umani sarebbero diventati più alti e grandi …”. E più intelligenti, aggiungo.

Vogliamo scomodare Friedrich 'Testa Matta' Nietzsche, da l’Anticristo? Certo:

“L 'umanità non rappresenta, come si ritiene oggi, un'evoluzione verso il migliore, il più forte o il più elevato. Quella di ‘progresso’ è soltanto un'idea moderna, vale a dire un'idea falsa. L'europeo di oggi vale assai meno dell'europeo del Rinascimento; evoluzione nel tempo non significa assolutamente evoluzione, progresso o rafforzamento”.

E James Ballard, dal meraviglioso racconto Le voci del tempo? Facciamo parlare uno dei protagonisti, Whitby:

“Si è sempre ritenuto che l'andamento evolutivo tendesse indefinitamente verso l'alto, ma in realtà il culmine è già stato raggiunto, e il cammino adesso conduce in basso verso la comune tomba biologica. È una visione del futuro disperata e al momento inaccettabile, ma è l'unica possibile. Fra 5000 anni i nostri discendenti, invece di essere superuomini galattici, saranno probabilmente nudi idioti prognati dalla fronte bassa che si aggireranno grugnendo fra le rovine di questa clinica …”

domenica 24 novembre 2013

L'incipit della domenica - Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde

Strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde, di Robert Louis Stevenson, è pubblicato a Londra nel 1886. Il romanzo breve rimane, a tutt’oggi, una delle creazioni fantastiche più durature di sempre.
In esso Stevenson dichiara, per bocca di Jekyll stesso: “L’uomo non è veracemente uno, ma veracemente due”.
L’anno successivo, 1887, esce La genealogia della morale di Friedrich Nietzsche; eccone un passo: “Nella morale l’uomo tratta se stesso non come individuo, ma come dividuum”.
Nell’uomo, insomma, convivono due entità, entrambe dotate di amor proprio che lottano fra di loro per affermare il predominio; ogni sentimento (altruismo, pietà, orgoglio, compassione) è la risultante di tale battaglia interiore: fra Jekyll, che scivola sul ghiaccio sottile della coscienza, e Hyde, l’essere ferino che si dibatte nell’oceano sottostante dell’istinto e dell’immediatezza.
[A puro titolo di curiosità: uno dei primi a trattare il dualismo, occupandosi di religione zoroastriana, fu un inglese, l’orientalista Thomas Hyde (1636-1703)]
Lo strano caso si apre con una pagina memorabile: la descrizione del vero protagonista, l’avvocato Utterson. Sobrio, meticoloso, leale, Utterson è uno di quegli inglesi, per dirla con Borges, le cui amicizie “cominciano con l'escludere la confidenza e prestissimo omettono la conversazione”. Utterson è il livello conscio, il decoro, la legge, l’Impero, l’Inghilterra sub specie aeternitatis; a lui è ascritto il compito simbolico, quindi, di contrastare l’anarchia primordiale di Hyde, ovvero il coacervo di tutte quelle forze disgregatrici e cieche che, nel paleoencefalo, accompagnano da sempre l’individuo e minano costantemente l’unità dell’essere e della civiltà.
Dal romanzo furono tratti diversi buoni film; nel 1931 da Rouben Mamoulian; nel 1941 da Victor Fleming (con Spencer Tracy, Lana Turner e Ingrid Bergman); nel 1959 da Jean Renoir.
La migliore trasposizione mi sembra, però, quella italiana, creata per la Rai TV nel 1969. Giorgio Albertazzi è un eccellente Jekyll e un ancor più credibile Hyde: infantile, maligno, teppistico; Massimo Girotti uno strepitoso, impagabile Utterson.

Robert Louis Stevenson
L'avvocato Utterson era un uomo dall'espressione austera, che non si illuminava mai di un sorriso; freddo, parsimonioso e imbarazzato nel parlare; restio a manifestare sentimenti; magro, lungo, opaco e mesto, eppure in qualche modo amabile. Alle riunioni fra amici, e quando il vino era di suo gusto, qualcosa di sinceramente umano si irradiava dal suo sguardo; qualcosa a dire il vero che non riusciva mai a tradursi in parole, ma che si comunicava non solo grazie a quei muti simboli del volto del dopo pranzo, bensì, più spesso ancora e più vivacemente, attraverso le azioni della sua vita.

giovedì 31 ottobre 2013

Ricordando Sylvia Plath. Una poesia

G. Luca Chiovelli


Sylvia Plath (27 ottobre 1932 - 11 febbraio 1963)

Il significato dell'opera di Sylvia Plath è tradizionalmente soffocato dall'ingombrante biografia; eppure, proprio le vicende della vita svolgono al meglio la funzione di commento alle sue creazioni poetiche.
Sylvia nacque a Boston, in un ambiente culturale d’ascendenza europea: il padre, Otto Plath, tedesco, divenne uno stimato entomologo; la madre, Aurelia Schober, figlia di immigrati austriaci, insegnò letteratura; poetessa precoce e studentessa modello, la vita della Plath fu segnata, all'età di otto anni, dalla morte del padre, la figura genitoriale con cui intratterrà un ambiguo rapporto postumo e che tornerà ossessivo in tutta la sua produzione in versi.
La depressione, le cure con l'elettroshock, il difficile rapporto col marito fedifrago, Ted Hughes, curatore sleale delle memorie della moglie (arrivò a distruggere i suoi ultimi diari che, forse, lo mettevano in cattiva luce), e il suicidio, a poco più di trent'anni, contribuirono alla nascita della leggenda Plath che, nell'immaginario pubblicitario, sostituisce con successo la poetessa Sylvia Plath.

sabato 7 settembre 2013

Meridiano di sangue / 2 ovvero Zarathustra nel Far West

G. Luca Chiovelli

Meridiano di sangue (1^ parte)


Abbiamo già esaminato il libro di Cormac McCarthy, Meridiano di sangue; non rimane che delinearne la filosofia sottesa che, sorprendentemente, almeno per un americano, è un coerente dispiegamento di un etica e di una visione cosmica ascrivibili, rispettivamente, a Friedrich Nietzsche (1844-1900) e al filosofo greco Anassimandro (610-546 a. C.)
Esamineremo brevemente tali due dottrine per poi vedere come si inverano nell'opera di McCarthy, in special modo nella figura memorabile del Giudice.
Il frammento anassimandreo, che suggestionò, in tale formulazione, proprio Nietzsche, cosi recita:

"[nell’infinito= ápeiron] da dove le cose hanno il loro nascimento, debbono anche andare a finire, secondo la necessità. Esse debbono infatti fare ammenda ed esser giudicate per la loro ingiustizia, secondo l’ordine del tempo" (1)

Dal Tutto indifferenziato ed eterno (ápeiron) nascono, ciclicamente, uomini e cose; la loro nascita, però, prevarica tale grembo infinito: è necessario, quindi, secondo l'ordine del tempo (chronos), ricondurli, a quel Tutto da cui le loro esistenze colpevoli presero vita (l'eterno ritorno).

sabato 6 luglio 2013

Meridiano di sangue, la grande epica lungo la "frontera"

G. Luca Chiovelli


Meridiano di sangue (2^ parte)


Meridiano di sangue, di Cormac McCarthy, è uno dei rarissimi tentativi, riusciti, di evadere dalla letteratura d'ambientazione borghese e di ricucire il rapporto sfilacciato con la grande epica. Esperimento doppiamente meritorio poiché approntato da un americano, in terra americana, ovvero in partibus infidelium, nelle regioni ideologiche dove la letteratura del quotidiano e della psicologia spicciola cresce, si diffonde  e s'impone globalmente con l'inarrestabile leggerezza dell’ovvio prodotto di consumo.
McCarthy nasce nel Rhode Island (a Providence, città natale di H. P. Lovecraft, altro antimodernista a lui ideologicamente affine), ma si trasferisce e si reclude presto nel Tennessee, nel Sud-Est, laddove può abbeverarsi all'unico mito antiborghese proprio dell'America, quello della frontiera, del limite, del confine. Tale mito, adeguatamente trasfigurato, innervato dalle letture di Friedrich Nietzsche e dei presocratici greci (di Anassimandro o, meglio, dalla lettura che Nietzsche diede di quel pensatore pre-logico), è alla base del libro in questione.
Meridiano di sangue, lo affermo da subito, è un capolavoro assoluto, per lo stile al contempo realistico e barocco, e per la profondità dell'evocazione filosofica. Già questo basterebbe a inserirlo fra i maggiori della sua terra; ma, in più, esso si vale d'una caratterizzazione simbolica eccezionale, quella del Giudice Holden, che lo appaia, già da adesso, all'altro feticcio della letteratura americana, il Moby Dick di Melville.
Seguire i due piani di lettura, il narrativo e il simbolico, non è facile.
Per nostra fortuna i libri possono leggersi in tanti modi: questo è un segno della loro immortalità. Si può seguire la storia principale saltando le parti filosofiche (i monologhi del Giudice); oppure, in seguito, leggere esclusivamente quelle, meditarle, quindi ricominciare daccapo con l'intera opera. I classici agognano la rilettura (oltre a sopportare i giudizi degli imbecilli): son come i tappeti di Ishafan che, col calpestio e l’uso, migliorano la nettezza del disegno.
In questo post esamineremo il livello evidente, narrativo, con ampi estratti dalla prosa di McCarthy, baluginante e splendidamente barbarica. In seguito ci dedicheremo all’analisi della figura del Giudice, al cuore filosofico del libro.

mercoledì 1 maggio 2013

Storie di asini (e del cavallo di Nietzsche, del bufalo di Rosa Luxemburg e della vacca di Gadda)

L'asino Balthazar e Anne Wiazemsky
in Au hasard Balthazar
G. Luca Chiovelli
Nella Bibbia, nei bestiari medioevali, nella letteratura religiosa egizia e classica (Esopo, Apuleio) l’asino è sempre tratteggiato simbolicamente, metafora che rimanda a significati ultraterreni o morali; spesso con graziosi bisticci storici; se nei Vangeli Cristo entra in trionfo sul dorso del mite animale, la più antica raffigurazione della Passione (il graffito Palatino del III secolo d.C.) contempla un Gesù crocefisso con testa d’asino: sorta di fumetto nato per sfottere un convertito alla nuova religione dell’Impero.
Solo con la fine del Medioevo l’animale perde la sua aura simbolica per divenire semplicemente sé stesso: il destriero di Sancho Panza, nonostante le interpretazioni dotte, è quello che è, un asino, in evidente affinità col proprio cavaliere.
Le cose cambiano a metà Ottocento. Victor Hugo, già reazionario in gioventù, vide svaporare gli ideali romantici ed eroici nello sviluppo di una società sempre più secolare. Esiliatosi volontariamente, cercò di ritrovare le pulsioni giovanili in quella forma di romanticismo sfrenato che fu (ed è) il socialismo – un socialismo, beninteso, umanitario e populista, declinato secondo uno stile melodrammatico e patetico. Nel 1880 (ma la gestazione è anteriore) dedica all’asino l’omonimo poema (L’âne) in cui l’animale, Patience, traversa la storia sino a dialogare con Kant [1] cui oppone una filosofia di vita basata sul mistero e lo spiritualismo. Ancor più indicativo il celebre componimento Le crapaud (1856; tradotto da Giovanni Pascoli): alcuni monelli torturano un rospo e lo abbandonano sadicamente nel mezzo della strada sicuri che un carretto lo schiaccerà; ma l’asino, che conduce il biroccio, pur stremato dalla fatica, lo risparmia:

L’asino che era rientrato la sera, sovraccarico, distrutto,
Morente, e sentiva sanguinare i suoi poveri zoccoli consunti,
Aveva fatto qualche passo in più, aveva scartato e deviato
Per non schiacciare un rospo nel fango.
Quest’asino meschino, sudicio, straziato dai colpi di bastone,
Ha mostrato d’esser più nobile di Socrate e più grande di Platone”.
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