Cinque anni fa, la rivolta di
Rosarno.
Nella notte del 6 gennaio 2010, un centinaio di extracomunitari che
lavoravano come braccianti negli agrumeti della piana di Gioia Tauro in
condizioni disumane, reagivano al ferimento con arma da fuoco di due di loro
(di cui un rifugiato politico del Togo con regolare permesso di soggiorno) da
parte di persone non identificate, scatenando una vera e propria guerriglia
urbana. “Avoid shooting blacks” (“evita
di sparare sui neri”) avevano lasciato scritto sui muri della fabbrica dell’ex
Opera Sila, dove alcuni di loro vivevano senza acqua, né corrente elettrica.
Quella frase (dove si legge “shooting” con una sola “o”, come un grido disarticolato) campeggia
ora sulla copertina del libro di Marco Ehlardo, dal titolo “Terzo settore in
fondo-Cronistoria semiseria di un
operatore sociale precario” (Ed. Spartaco, 2014 con testimonianza di Tamara
Ferrari e introduzione di Carlo Ciavoni), un saggio-inchiesta in forma
diaristica sulla realtà napoletana del “no
profit” nel settore dei richiedenti asilo e rifugiati.
I toni dell’opera sono quelli
scanzonati ed irriverenti di chi ha preso sul serio e scelto con passione il mestiere
dell’operatore sociale ma, dopo anni di incontri-scontri con interlocutori a
volte incompetenti, altre volte scaltri e pronti a cavalcare le disgrazie umane
per accrescere il proprio consenso elettorale o professionale, ha dovuto sfoderare
l’arma dell’ironia. Per non soccombere.
La verve narrativa emerge sin dalle prime righe: “Inizia un altro mese. Un altro mese di battaglie. Un altro mese senza
stipendio. No, non sono disoccupato. Sono un operatore sociale. A Napoli.
«Operatoresocialeanapoli» dovrebbe essere una parola da inserire nel
vocabolario della lingua italiana. O in quello dei sinonimi, alle voci
«precario» o «autolesionista»”.
L'industria del terzo settore
descritta da Ehlardo è rivolta a “consumatori” (per rimanere nel gioco di
parole del titolo) più inclini a soddisfare i propri appetiti emotivi ed
economici che a mettersi nei panni dei migranti per cui operano. Con uno
stravolgimento, di fatto, degli obiettivi solidaristici che “il terzo settore”
dovrebbe perseguire.
E così il protagonista-narratore
ci racconta di operatori sociali neofiti pieni di buone intenzioni, avidi di
incontri strappalacrime e mossi da “entusiasmi esagerati” inutili se non
dannosi per i richiedenti asilo; dell’avvocato senza scrupoli che chiede migliaia
di euro per spedire una richiesta di asilo alla questura per lettera
raccomandata “cosa che ha lo stesso
effetto di farsi un’operazione chirurgica via Skype”; del dirigente del
Comune, incapace di prendere qualsiasi decisione e identificato perciò come “colui che firma. Punto”; dell’assessore
comunale che, a dispetto dei suoi “mo
bech’io” (me la vedo io) non fa nulla di quanto promette; dei parianti ossia degli organizzatori di
spettacolari feste per migranti, che garantiscono un buon ritorno di immagine
per i promotori ma non apportano alcun beneficio ai richiedenti asilo.
Qualcuno si salva, come Gaetano,
psicanalista della Asl, e Antonio, medico legale, che gratuitamente offrono il
loro tempo e le loro approfondite conoscenze a servizio dei migranti vittime di
tortura.
C'è un filo rosso che fa da
sfondo alla variegata e folcroristica umanità che abilmente ci descrive
Ehlardo: la storia del richiedente asilo Thomas Compaoré “condensata nel suo nome e cognome. Thomas, come Thomas Sankara, il
Presidente del Burkina Faso che tanto fece per il suo Paese (…) Compaoré, come
Blaise Compaoré, a detta di tutti il carnefice di Sankara, suo successore e
presidente in carica”. Thomas Compaoré, giornalista e sankarista, viene
descritto come uomo di grande cultura: “Succede
frequentemente di incontrarne tra i richiedenti asilo. (…) Spesso hanno un
ruolo sociale elevato nel loro Paese, ma non accettano di essere parte di una
classe che prevarica le altre. (…) Conoscono o imparano velocemente i loro
diritti. (…) Con loro devi lavorare su due livelli: tenere viva la rabbia e
indirizzarla dove è più utile per favorire un percorso di integrazione;
aiutarli a capire che lo scontro frontale non paga, tipo in commissione o
quando vai in questura (…). Difficile.”
Il personaggio di Thomas Compaoré fa riflettere
su un paradosso italiano che Ehlardo racchiude in poche, significative, parole:
“Come per le persone
incriminate vige la presunzione di innocenza secondo lo schema illuminista che
è meglio avere cento colpevoli liberi che un innocente in galera, per i
richiedenti asilo dovrebbe valere la «presunzione di rifugiato», ossia questa
condizione dovrebbe essere riconosciuta a meno di serie prove in senso opposto. Troppo pericoloso rimandare nel suo
Paese una persona che può rischiare la vita”. E conclude:“Nella realtà è esattamente il contrario”,
con quel sorriso amaro, non rassegnato, che fa della dodecafonia della vita la
sua forza.
Marco Ehlardo è nato e lavora a
Napoli dove è stato impegnato per dieci anni nel settore sociale; attualmente è
referente territoriale per la Campania della organizzazione internazionale “ActionAid”.
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