Dal numero 117 della rivista "Lettera internazionale", in arrivo nei prossimi giorni in libreria, anticipiamo un intervento di Sarah Zuhra Lukanić, scrittrice croata da qualche anno residente in Italia.
Sarah Zuhra Lukanić *
Leggo. È come una
malattia. Leggo tutto ciò che mi capita sottomano, sotto gli occhi:
giornali, libri di testo, manifesti, pezzi di carta trovati per
strada. ricette di cucina, libri per bambini. Tutto ciò che è a
caratteri di stampa.
Agota Kristof,
L’Analfabeta, 2005
Bisogna educare. L’uomo
ha bisogno di simboli per non perdersi nella miseria quotidiana. Il
bagaglio di un immigrato ha sempre un’impronta dolorosa, persino se
è lui stesso a scegliere, per amore, di andare via dalla sua terra.
Figuriamoci se è costretto a rifugiarsi dalla guerra, dalla
carestia, dalla dittatura, dalle persecuzioni, anche da quelle
psicologiche. La società odierna, ma anche quella che ci ha
preceduto, non ama la diversità come soluzione, come proposta, come
equilibrio collettivo.
Ho il vissuto di una
che è nata e cresciuta in una terra a cui ho regalato la mia parola
d’onore di pionir (1). Sono cresciuta godendo dell’ubriacatura che
veniva dai promettenti orizzonti marxisti, tra compagni di banco che
tenevano stretta in mano la loro piccola tessera rossa rossa; con
quella si sentivano prediletti e membri di un regno inimitabile che
era considerato una specie di Svizzera comunista. Adesso ne sono
certa: la morte di Tito per sempre avrebbe portato con sé anche la
gradita scomparsa del mio paese. Già allora, come soluzione per non
essere parte di quel nuovo sistema sciovinista che non condividevo e
che mi avrebbe fatto diventare cattiva, avevo in mente l’esilio:
cercare altrove un rifugio e una nuova educazione. L’immigrato non
ha altra soluzione, deve reinventarsi la vita, comunicare,
sensibilizzare alla diversità.
Il processo è doloroso: avvicinarsi
simbolicamente alla nuova patria, costruire attorno a sé un
immaginario positivo delle transumanze, evidenziare la difficoltà,
veicolare contenuti anti-razzisti, non dispotici. La testimonianza di
una diversità. Dopo un’educazione che sembrava un poligono in
allerta sotto un dittatore buono, eravamo tutti felici e pronti.
Certo non è un’educazione stravagante come quella del libro
Educazione siberiana, ma è altrettanto dolorosa e totalitaria.
Quasi sempre un
immigrato prova un senso di colpa verso la sua terra di origine,
oppure inconsapevolmente si serve del dialogo socratico, creato da
Platone nel Teeteto, per rimuovere i propri pensieri
contrastanti o incerti. Questo metodo permette di farsi strada a poco
a poco nell’infondatezza di tutte quelle sicurezze personali che
siamo educati a considerare verità attendibili, e che invece
svelano, con una riflessione accorta, i nostri preconcetti. Lo sforzo
è quello di persuadere, con pertinente imparzialità,
l’interlocutore, come facevano i sofisti, conducendolo per mano in
una sequenza di domande e risposte veloci, in modo da spingerlo ad
ammettere la propria ignoranza: a riconoscere di non avere verità
definitive. Questo metodo lascerà spazio a domande brevi per sfidare
l’interlocutore ad accettare le verità altrui.
Mi viene sempre in
mente il libro di Agota Kristof, L’Analfabeta, che è la
testimonianza di chiunque passa a un’altra educazione. Pensandoci
bene, quanti chilometri ha percorso Agota con la bimba piccola in
grembo per raggiungere una nuova patria, la Svizzera (per di più
quella francese: inospitale, fredda e asettica)? Pochi, davvero pochi
in un’Europa che vive di rendita e che decide di dimenticare che
quella signora mite proveniva da una nazione che è stata la culla di
un regno imperiale, quello austro-ungarico. Ogni cultura, così come
anche ogni educazione, ha in sé una chiusura e l’arrogante
certezza di fare bene, la convinzione provinciale di essere la più
importante. L’Analfabeta di Agota Kristof è stato per me un
incontro fulminante, avuto al Festival delle Letterature di
Roma a Massenzio. Era il 2005. Agota stava seduta su una sedia.
Leggermente piegata in avanti, come una sarta che cuce il vestito più
prezioso leggendo il suo L’Analfabeta. Lo stesso processo di una
rieducazione interiore l’ho sentito dentro di me. Come se fino a
quel momento fossi stata malata gravemente, ma nessuno riuscisse a
indicarmi la diagnosi. Il processo di una rieducazione interiore è
doloroso. Molto intimo. Lasciare un’identità per indossarne
un’altra che ti sta scomoda, stretta; un tessuto che provoca bolle
che danno prurito. Provare a farlo attraverso i nostri figli, ai
quali devi in qualche modo trasmettere la tua identità precedente,
il DNA di appartenenza. Perché è prezioso. Perché con quello
potrebbero anche difendersi, se serve. L’attraversamento delle
identità si chiude in un frutto nuovo, che maturerà solo quando
saremo pronti per abbandonare le nostre sicurezze personali. In
fondo, è un gioco bello, ma la migrazione è dolorosa e non consente
di distrarsi, altrimenti sei tagliato fuori. C’è una meravigliosa
poesia dell’amica poeta Barbara Pumhösel:
ci sono parole che
hanno
la buccia in una
lingua
e la polpa in
un’altra
con un morso si
attraversa
due mondi e il
nocciolo
germogliando
partorisce
una terza che
contiene
noi, gli altri e il
passato,
ci avvolge e ci
sopravvivrà
Sembra una pozione
magica, una soluzione. Transiti di lingue, intersezioni di segmenti
preziosi di identità plurime avvengono, se cerchi in qualche modo il
meglio, il succo, così casomai, come canta e incanta Barbara, può
germogliare un bocciolo prezioso, unico e raro. Probabilmente la
Poesia salverà il mondo, ma gli ordinary people non hanno la
fortuna dei poeti, bisogna indicar loro la strada. L’educatore alla
diversità come ricchezza deve essere per forza un amante della
poesia, se è anche un poeta è ancora meglio. Un’anima poetica
sarebbe perfetta. Alcuni anni fa, un noto economista americano
propose di assumere un artista per salvare l’impresa. Propongo di
assumere un poeta educatore per salvare l’educazione.
Sono sempre stata una
specie di nomade, un cane sciolto pronto ad accucciarsi. Attraverso
le pagine dei libri, ho scelto una strada diversa. Forse più
rognosa. Come diceva Melville: Una baleniera è stata la mia
Harvard o la mia Yale. Così è capitato che un’altra
immigrata, che ha scelto l’altrove per necessità, abbia
incantato i miei orizzonti.
I miei libri sono
rimasti sparpagliati nelle mie varie dimore. Forse per lasciare il
segno della mia presenza. O, forse, come facevano Hänsel e Gretel,
li ho sparsi come sassolini. Per poter tornare di nuovo. Per avere
una scusa valida. Per riprenderli e rileggerli. Di nuovo. Ma
probabilmente è soltanto un miraggio.
Il mio elogio a un
libro o ai miei libri. Una prospettiva seducente per l’oggetto più
caro per la mia famiglia. Ma forse non per me. Lo so che non avrò
mai una biblioteca come quella che aveva mia madre o la mia
professoressa di lettere, la mitica Mirja Dvornik. Tenevano i loro
libri come reliquie rare, come i morosi del passato. Io prediligevo
le fotografie, le spille che si infilavano nei cappelli curiosi e
stravaganti, i carillon, i documenti, le lettere o le cartoline che
erano vere opere d’arte.
Qualcuno potrebbe
storcere la bocca, ma per me raschiare il passato nelle soffitte non
ha a che vedere con la lettura. E poi i libri pesano. Assai.
Oggi, a distanza di
tempo, penso che siano due i fattori che hanno prevalso nel mio
comportamento con l’oggetto-libro. Uno è l’influenza del mio
compagno di università Irvin Lukežić, oggi docente in quella
facoltà di Fiume che allora frequentavamo assieme. Sua madre Iva,
anche lei docente nello stesso ateneo, si occupava di archivistica e
di libri antichi. Ci faceva intere lezioni che trattavano dell’usura
dei libri, e dell’intero zoo di animali, insetti, malattie e
batteri che vivono assieme ai libri.
L’altra concausa
formativa della mia visione dell’oggetto-libro è stata la visita
all’archivio storico della città di Zagabria, che mi fece capire
la definitiva decomposizione delle pagine. Le archiviste erano
travestite come nel film Ebola. Conciate come se dovessero affrontare
un’epidemia contagiosa e rischiosa. Non esagero. Una di loro si
tolse i guanti davanti a me. Io avevo sulle unghie, come al solito,
uno smalto rosso carminio. Lei, a quel punto, si dilungò a spiegarmi
quanto quei libri fossero dannosi per la sua salute e, soprattutto,
si lamentò di non riuscire più a mettere lo smalto sulle unghie,
tanto si erano imputridite e curvate, colpite dalle varie micosi che
non guarivano mai. L’archivista aveva le manine piccole e rossicce.
Quando tolse i guanti mi sembrò che avesse addosso un ulteriore paio
di guanti. La cute era rossiccia e ruvida come la pelle di una scrofa
adulta. S’inchinò verso di me, io tolsi la mano veloce. Lei
afferrò il mio gesto e ribatté: Non è contagioso. Sono i libri.
Maledetti.
Ecco, questi due
episodi sono impressi nella mia memoria e, ogni volta che dovevo
traslocare, mi venivano in mente le zampine dell’archivista e tutte
le malattie e le bestiole delle quali ci raccontava in lungo e largo
la mamma di Irvin. Così non avevo rimorsi, perché lasciavo i libri
come le mollette che cascano dai frigoriferi nelle fessure dove è
difficile ripescarle.
Uno dei miei
traghettatori, Marcel Proust, chiamerebbe questo itinerario nel mondo
della scrittura una precauzione inutile. Perché, a volte, un
lettore è un globe-trotter. Tant’è che un lettore migrante è un
girovago privilegiato.
Nei primi tempi,
lasciando un alloggio, mi sentivo male se non potevo portare con me i
miei libri. Con il passare degli anni, mi sono abituata che una
vagabonda come me deve prendere questo fatto semplicemente come una
conseguenza pratica. Quindi, lasciavo i miei libri in custodia,
pensando che sarei tornata a riprenderli. Prima o poi. Lungo il globo
sono disseminati diversi custodi dei miei libri. Oggi sono sicura che
siano in buone mani.
Perché i libri hanno
bisogno di dita amabili che li sfogliano. E tra un capitolo e l’altro
ti potrebbe capitare di trovare i miei soliti appunti, o qualche
foglia secca, oppure qualche margherita raccolta qua e là.
Pensandoci meglio, potresti trovare una banconota oramai scaduta di
un Paese che magari non c’è più. Oppure qualche foto di una gita
fuori porta. Così i miei preziosi custodi di libri diventano
all’improvviso anche guardiani delle mie cianfrusaglie. Alla fine,
non escludo qualche sorpresa, perché, a volte, quando volevo
nascondere qualche cosa, la sistemavo dentro i libri. Come penso
facciano tanti di noi.
Alcuni giorni fa, ho
incontrato un giovane ricercatore che si dedica alla letteratura dei
paesi dell’ex Jugoslavia. Matteo sta preparando una ricerca per il
suo dottorato che riguarda i possibili cambiamenti di alcuni
territori balcanici se toccati dall’eventuale passaggio di un
gasdotto dalla Russia. Una tesi piuttosto singolare, e da me voleva
conferme sul fatto che potrebbe trattarsi di una nuova opportunità
per quei territori. Una nuova sfida, considerata la posizione dei
Balcani. Io avrei preferito parlargli di altre cose, di calcio, che è
una delle mie passioni, ma ho ugualmente risposto alla sua domanda, o
più precisamente alla sua teoria. Matteo parla bene la mia lingua
madre, con uno spiccato accento dalmata, piuttosto isolano. Abbiamo
parlato dei libri che ci piacciono, segnalandoci e annotando a
vicenda dentro i nostri taccuini quelli che dobbiamo leggere. Perché
c’è sempre un libro in sospeso, quello che deve essere finito,
prima o poi, sul nostro comodino.
Avendo una casa
piccina, non ho comodino. Il mio letto è su un soppalco. Le pareti
sono invase dai libri nuovi, nuovissimi. Sempre di più penso che mio
figlio abbia ragione quando dice: Sai mamma, se togli tutti ‘sti
libri, quasi quasi potrebbe essere una casa. I ragazzi hanno
sempre ragione. Quasi sempre.
Torniamo a Matteo, il
giovane ricercatore calabro-romano, che parla slavo con un accento
isolano. Non so perché, ma voleva sapere il mio parere sui manuali
scolastici di letteratura.
Non so cosa
risponderle, gli ho detto. I manuali di letteratura, almeno
quelli nel liceo di mio figlio, ovviamente privilegiano la
letteratura nazionale. Ma non ci trovo niente di strano. Allora,
dove mettiamo gli scrittori translingue? Mi ha chiesto Matteo.
Nel capitolo: “Altro”. Ho risposto. Scherzavo,
naturalmente.
Mi ha confessato che è
figlio di un operaio e di una casalinga. Sono tre fratelli, tre
emigrati. Uno lavora in una fabbrica ligure e la sorella corregge le
bozze per una casa editrice milanese. Lui, Matteo, non leggeva nulla,
poi, in terza media, la professoressa disse: Potete leggere questo
libro, se vi va. A piacere.
Ecco quel a piacere
aveva cambiato la vita di Matteo. La libertà di scelta. Così,
da allora, non ha smesso più di leggere. Tant’è che le sue
continue vacanze nell’ex Jugoslavia si sono sviluppate
nell’innamoramento di una lingua per niente facile.
Una madre immigrata è
sempre l’Analfabeta del libro di Agota. Quando comincia la scuola
dell’obbligo, la madre immigrata può anche innamorarsi della
lingua del Paese che la ospita, perché sarà sempre la lingua di suo
figlio. Quindi Agota fece la scuola di nuovo. Pensandoci bene, questa
educazione può diventare anche divertente: a volte, la madre
immigrata deve inventarsi tecniche convincenti per trasmettere al
figlio quell’altra identità che lui vivrà sempre per sentito
dire. Ideale per un ragazzo è avere uno dei genitori poeti, così
il passaggio sarà sempre leggero, sarà un gioco. Peccato che,
aprendo gli occhi, ci si sveglia in un’Italietta non ancora pronta
ad accogliere questa modernità liquida, come la definisce il
grande Bauman. Un’educazione mainstream che sfocia in
modelli folcloristici e che non riesce a diffondere tra i ragazzi una
cultura realmente melting pot vissuta come quotidianità. Incredibile
come i ragazzi usino le loro diversità come un bagaglio scontato.
Crescendo, quello stesso bagaglio potrebbe rivelarsi troppo pesante.
Quindi deve essere il loro. Personale. Ben custodito. Qui la famiglia
che educa in un modo propositivo potrebbe giocare un ruolo
fondamentale. A volte il ragazzo può essere fortunato perché si
trova in un posto unico come Roma, dove persino il sindaco deve
reclamare la sua romanità. Ma ci sono posti ostili, nel nostro
Paese, dove l’astio verso il diverso cela uno sciovinismo culturale
che porta a processi dove si rispolverano ideologie che ci hanno
quasi sepolti vivi. Deve essere il processo di una piantagione nuova,
come suggerisce la filosofa Martha Nussbaum nel suo libro Coltivare
l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione
contemporanea.
Una madre immigrata è
sempre in balia, in emergenza. Vigile. In fondo tutto dipende dal
rimanere serenamente nell’attesa di quell’incantato e
meraviglioso morso che attraversa due mondi e il nocciolo
germogliando partorisce una terza che contiene noi gli altri e il
passato ci avvolge e ci sopravvivrà.
(1) Appartenenti
all’organizzazione giovanile che sosteneva la fede in Tito. Ai
pionir erano iscritti i bambini dai 7 ai 13 anni. A 14 anni
diventavano omladinci e a 18 anni si poteva prendere la tessera del
PKJ (Partito Comunista Jugoslavo).
* Sarah Zuhra Lukanić,
scrittrice croata, ha ricevuto, nel 1974, il “Premio Internazionale
per i Giovani Poeti Europei”. Nel 1987 si è trasferita a Roma dove
vive. Dal 2005 ha scelto di scrivere in italiano, conseguendo vari
riconoscimenti in importanti concorsi letterari. Con la raccolta di racconti Rione Kurdistan nel 2006 ha
vinto, a Viareggio, il Premio letterario-giornalistico “Mare
Nostrum” e, nel 2008, all’Aquila, il Premio per la Pace e i
Diritti Umani. Nel 2009, si è aggiudicata il “Premio
Internazionale di Scrittura Femminile – Città di Trieste”; il
premio speciale del Torino Film Festival per il racconto Fiocchi
di neve al concorso Lingua Madre, e il Premio letterario nazionale
“Città di Trieste” per il teatro, con il monologo Siamo una
perfetta famigliola veneta. Nel 2007, è uscito il suo primo romanzo,
Le lezioni di Selma per le edizioni Libribianchi di Milano. Suoi
racconti e poesie sono apparsi in varie pubblicazioni. Nel 2011 è
stato rappresentato a Roma il dramma Donne sotto l'orologio della
Bašcaršija. Collabora con vari blog e ha scritto per
Internazionale. Fa parte della Compagnia delle Poete
(www.compagniadellepoete.com).
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