giovedì 7 novembre 2013

mvl Cinema, Perdite e ritrovamenti nel labirinto di un bosco trentino

La prima neve
Regia: Andrea Segre
Con Jean Christophe Folly, Matteo Marchel, Anita Caprioli, Peter Mitterrutzner, Giuseppe Battiston, Paolo Pierobon
 
Patrizia Vincenzoni
Migrazione e  identità culturale  sono temi che ricorrono nei lavori di Andrea Segre, regista veneto che abbiamo già apprezzato con Io sono Lì, film del 2011 che lo ha imposto all'attenzione di un vasto pubblico. La prima neve aggiunge alla crisi identitaria che tali tematiche contengono  la possibilità di integrazione non solo sociale, e insieme la condivisione e l'intimità psichica che si produce su piano relazionale tra un adulto e un bambino.
Negli scenari naturali della Valle dei Mocheni, in Trentino, la storia personale di Dani proveniente dal Togo e  fuggito dalla guerra libica, approdato lì con la figlia di pochi mesi mentre la moglie Layla è deceduta durante il 'cammino' incrocia quella di Michele, undicenne che ha perso il padre in un incidente alpinistico, il quale vive con la madre e il nonno Pietro, falegname e apicultore.   In questo territorio di confine, geografico e linguistico, abitato da secoli dalla comunità  dei Mocheni in seguito alle migrazioni di popolazioni germaniche, il bosco è l'elemento naturale che riveste un'importanza  decisiva nel film sul piano paesaggistico e più ancora metaforico, simbolico. Nel film  il bosco rappresenta uno  snodo, il tramite per un possibile accesso al recupero di memorie emotive, di superamento di sentimenti ed emozioni che non trovano una via d'accesso alla parola e, dunque, inibiscono o bloccano la capacità di attribuire senso agli accadimenti e alle ferite che hanno scandito le vite di cui si narra. Labirinto vegetale iniziatico alla conoscenza di sé, potremmo dire. Dani e Michele hanno un rapporto di contiguità psichica con gli alberi anche attraverso il legno: materia da scolpire per il primo, luogo di accoglienza e riparo per il bambino, maternage ambientale grazie anche alle rientranze naturali dei tronchi dove Michele si assegna un posto, nel quale sostare e riposare lo sguardo, guardare il mondo circostante.
"Non so dove andare, cosa fare e gli alberi non parlano" così la voce di Dani scultore all'inizio del film, impegnato a contattare una sua identità che non si risolve solo in quella culturale, ma che riguarda soprattutto la sua realtà di padre e il suo rifiuto verso la figlia e l'impossibilità di occuparsene, lasciando tale compito affettivo a un'altra migrante della casa-famiglia nella quale sono ospitati.
Il film ruota soprattutto intorno al tema del lutto non elaborato che riguarda anche Michele. Lo vediamo cercare  in vari modi di non perdere il contatto con il ricordo del padre, ma gli adulti più prossimi, come lo zio, non sono del tutto in grado di accogliere e confrontarsi con la sua rabbia e il bisogno conflittuale di riconciliarsi comunque con la cruda realtà della  perdita paterna.    Il legame con la madre evidenzia la solitudine affettiva di entrambi e il bisogno da parte di Michele della presenza materna ancora devota al padre morto.  La figura del nonno paterno Pietro, la sua sapienza antica circa le cose del mondo, il rapporto arcaico che intrattiene con la natura e la filosofia 'ingenua' con la quale si orienta nella complessità della vita trova una sintesi possibile nell'articolare diversità, materia e sensi, prendendo spunto dagli elementi del suo lavoro. Pietro è come un tratto  che perimetra uno spazio di pensabilità possibile e irrituale rispetto al restare consegnati a un'esistenza vuota, scavata da un dolore senza ritorno e priva di energia vitale.  Soprattuto quelle di Dani e Michele appaiono esistenze come sospese, al di là di una soglia oltre la quale li vediamo, nel finale, oltrepassare un limite che permetterà a entrambi di riappacificarsi  con la loro storia, ridurre la distanza fra il prima e il dopo, fra l'allora e il qui-e-ora.

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