mercoledì 31 luglio 2013

Racconti d'estate. Il pifferaio magico

Bianca Maria Vaglio
Ogni pomeriggio, come nella fiaba del Pifferaio magico, la seguivamo in fila attraverso le strette stradine del paese fino alla mitica spiaggia “dei sassi”. Eravamo un folto gruppo di bambini, dai sei ai quattordici anni. Lei ci precedeva senza perderci di vista; era poco più alta di noi, bionda ed esile, indossava sempre vestiti attillati che mettevano in risalto la vita piccola e le forme femminili. A metà strada facevamo una sosta per salutare l’asino Rosinello che riposava nella stalla, dopo le fatiche del mattino. Ognuno di noi bambini gli accarezzava il muso, ricambiando il suo sguardo di una struggente bontà. Poi riprendevamo il cammino. Arrivati sulla spiaggia, ci sedevamo in cerchio intorno a lei. Non c’era quasi mai nessuno a quell’ora. Un pescatore solitario, immerso con le gambe nell’acqua, cercava polpi fra gli scogli. Quando ne aveva preso uno, tirava fuori di scatto il braccio a cui era aggrappato il polpo, con l’altro braccio si liberava dei tentacoli, poi sbatteva con forza la testa del polpo sulle rocce. Il mare si tingeva per un po’ di un liquido nero. Il pescatore buttava la sua preda in un grosso secchio e ricominciava. Talvolta una donna del paese si avvicinava alla riva, sollevava la gonna nera e immergeva i piedi nell’acqua, in cerca di refrigerio. Ci guardavano stupiti.
Lei ci raccontava favole. Ma non erano quelle che si leggono nei libri. C’erano nelle sue favole echi di tutte le favole mescolati insieme, ma prive degli aspetti più tristi, cupi di cui le favole abbondano; i re cattivi che amano troppo le loro figlie, le regine cattive che odiano le figliastre, i genitori che abbandonano i loro bambini o che li perdono nei boschi, gli orchi, le streghe, le prove crudeli cui si sottopongono gli eroi.
E poi non ci raccontava mai una favola due volte allo stesso modo. I personaggi si moltiplicavano. I re e le regine avevano sempre molti figli, maschi e femmine, e ad ognuno di loro dava i nostri nomi. “…Una si chiamava Adele come te ed aveva i capelli biondi, lunghi, e gli occhi verdi, le piaceva mangiare dolci ed era sempre buona con tutti, l’altra aveva i capelli folti e scuri, gli occhi neri grandi….era un po’ monella e si chiamava Chiara come te”..le bambine e i bambini la fissavano incantati senza mai fiatare.
Io non ero gelosa anche se quelle carezze, quegli occhi seducenti, quella voce dolce non erano rivolti solo a me. Eppure non ero contenta.
Dentro di me desideravo che lei fosse come tutte le altre madri, quelle che erano rimaste all’albergo La Scogliera a lavorare a maglia, leggere i giornali di moda e scambiarsi confidenze e pettegolezzi.
Ma lei era diversa. La sera dopo cena, quando gli adulti si riunivano sul grande terrazzo dell’albergo, i cui pilastri poggiavano direttamente sul mare, lei sedeva invece ad un tavolino appartato e giocava a scacchi con un ospite straniero, un certo Monsieur Fricher. Lui diceva di essere un maestro di scacchi, lei era solo una principiante, ma a lui non importava. Ne era evidentemente infatuato. Mio fratello era un po’ geloso di quell’uomo. Io no. Mia madre era più bella delle altre e sapeva incantare gli uomini come faceva con i bambini. Questo l’avevo già compreso da tempo.
Quell’estate in albergo c’erano anche altri ospiti stranieri. I Trèbant. Erano americani ma vivevano a Parigi. Il signor Trèbant era un produttore cinematografico. Io non sapevo che tipo di lavoro fosse. Era un tipico yankee, robusto, biondo, con la pelle chiara e lentigginosa, gli occhiali, il viso bonario; la moglie invece sembrava avere origini indiane. Era brunissima, con la pelle color bronzo, i capelli tirati in una treccia che le scendeva sulle spalle, il fisico magro e muscoloso. La figlia più grande era il ritratto del padre, bionda e lentigginosa, il secondo figlio era il ritratto della madre, scuro di pelle e di capelli: il terzo, Eric, era un misto. La pelle ambrata, i capelli castano biondi, arruffati, magro e sempre pieno di lividi e sbucciature sulle ginocchia. Quando passeggiavamo sul molo poco distante dall’albergo, lui a volte si tuffava e s’immergeva sott’acqua, attraversando il molo in tutta la sua larghezza e ricomparendo dal lato opposto. La signora Trèbant assisteva impassibile, col suo profilo altero. Mia madre invece, era terrorizzata. “E se si fosse sentito male, mentre era là sotto, e non fosse più riapparso?”.. Ma lui immancabilmente riappariva. E io provavo un piacere inesprimibile, dopo quell’ansia. Non so perché ma anch’io gli piacevo, così gli altri bambini avevano decretato che eravamo “fidanzati”. Un giorno ci circondarono, ci chiusero in un cerchio, e ci chiesero di baciarci per provare che eravamo davvero innamorati. Noi lo facemmo senza alcun imbarazzo. Eric aveva dodici anni, io nove. Fra noi le parole erano rare anche perché lui non parlava bene l’italiano. Un pomeriggio mi chiese di seguirlo nella sua camera. Io ci andai. Eravamo soli. La camera, che divideva con i fratelli, era in un disordine indescrivibile, io sedetti su un letto mentre lui si toglieva il costume e si metteva la maglietta e i pantaloncini. Provai una specie di calore, un fortissimo senso di intimità, come se, spogliandosi davanti a me, avesse dimostrato che davvero ci appartenevamo. Pensavo che era il ragazzino più fortunato del mondo, viveva a Parigi, gli lasciavano buttare i suoi indumenti per terra e la madre non si spaventava se faceva qualcosa di pericoloso. Se avessi potuto condividere con lui quella vita!
La nostra vacanza al mare doveva durare due mesi interi. Luglio e agosto. Mio padre venne solo per una settimana di ferie. Era da poco ripartito quando accadde un fatto imprevedibile.
La mattina presto come al solito eravamo andati in spiaggia . Non la spiaggia dei sassi, ma la spiaggia grande, con la sabbia fine e bianca. Ci andavamo in auto con la “giardinetta” di Marisa una delle altre mamme. Di solito a turno noi bambini ci sedevamo nel posto riservato ai bagagli . Da lì si godeva di una sensazione di libertà maggiore che seduti sui sedili. E si vedeva l’albergo allontanarsi e rimpicciolirsi e poi sparire. Una specie di magia.
Ci si ritrovava tutti in mare, noi bambini, a giocare. Con mia madre però le regole erano ferree. Dopo un po’, controllava a me e a mio fratello le dita; si rimaneva in acqua finché sui polpastrelli comparivano le piegoline e lei a quel punto diceva che anche le nostre labbra erano “viola” e che dovevamo uscire “di corsa”. Sulla riva ci faceva indossare delle giacche di stoffa tipo spugna, gialle, che lei stessa aveva cucito. Dopo avercele fatte indossare, ci frizionava forte. Lo ricordo come un supplizio. La stoffa di spugna era ruvida, forse non la risciacquava bene. La pelle scottata dal sole bruciava. Poi ci faceva stendere sull’asciugamano. Dovevamo stare dieci minuti stesi a pancia in giù, poi rivoltarci sul dorso per altrettanti minuti. Un po’ come se fossimo delle cotolette in padella. Non ci dovevamo alzare o muovere di lì per nessun motivo, pena terribili punizioni. Ci lasciava il suo orologio per controllare che i minuti fossero quelli giusti e andava a farsi una nuotata solitaria.

Non ricordo bene quel giorno. Il tempo era passato, ma lei non era ritornata. Forse io e mio fratello ci eravamo chiesti smarriti da quale lato dovessimo passare i prossimi minuti sull’asciugamano o forse avevamo disubbidito, ci eravamo alzati, eravamo corsi verso il mare e non l’avevamo vista. Ci fu una certa agitazione in spiaggia, un rincorrersi di domande, tutti si misero a scrutare l’orizzonte fino a quando lei ricomparve su una barca con degli uomini sconosciuti, pallida e un po’ smarrita anche se cercava di dominare l’agitazione. Ci raccontò poi che durante la consueta nuotata era stata presa in un vortice, aveva sentito come una mano afferrarle le caviglie e tirarla verso il basso. Non c’era nessuno intorno e non aveva neanche senso urlare. Ma poi quando stava per soccombere aveva sentito delle voci, due braccia l’avevano raggiunta e tirata in salvo su una barca. Un’apparizione magica, la definì in seguito. Tornammo in albergo come al solito, come se niente fosse successo, ma a pranzo mia madre rimandò indietro il suo piatto, dicendo che non si sentiva bene. La sera fu lo stesso, e così i giorni successivi. Era spesso in camera, stesa sul letto, ci sorrideva come sempre, ma non era più il suo sorriso, non ci portava più alla spiaggia dei sassi, non ci raccontava più favole. Io pensavo che fosse semplicemente malata. Ma non aveva la febbre o quelle altre malattie che conoscevo.
In fondo quella situazione non mi dispiaceva. Alla spiaggia dei sassi ci portò un’altra mamma e raccogliemmo tappi di bottiglia e granchi. Finalmente un passatempo diverso.
Benché mamma cercasse di rassicurarle, le amiche scuotevano la testa. Le sentivo bisbigliare fra di loro che non poteva andare avanti così. Doveva vedere un medico. Lei diceva che era solo inappetenza e le sarebbe passata. I bambini non dovevano interrompere la loro vacanza. Ma dopo una settimana non era ancora riuscita a toccare cibo. Allora qualcuno avvertì mio padre di venire a riprenderci. Mio padre lo fece in tutta fretta. Doveva tornare al lavoro. I saluti con tutti furono molto concitati; salutando Eric gli dissi che ci saremmo rivisti l’anno successivo lì, all’albergo La Scogliera. Lui rispose “sì ( o oui o yes) “ e per me più di una promessa, fu come una certezza. Ricordo il ritorno nel nostro appartamento di Napoli, la nonna gli zii, tutti preoccupati per mia madre. A noi nessuno chiese se ci era dispiaciuto abbandonare i nostri amici. Io pensavo ad Eric.
Mio zio che era medico visitò mia madre e stabilì che era vittima di un “esaurimento nervoso”. L’ “esaurimento” di mia madre, quale che ne fosse la causa, andava curato con robuste dosi di iniezioni ricostituenti. Dopo un po’, benché controvoglia, riprese a mangiare. Piano piano, con evidente fatica, tornò quella di sempre. Monsieur Fricher ricomparve a casa nostra a Napoli dopo una settimana o due. Mia madre fu cortese ma fredda. Lui era in imbarazzo, si informò dei progressi di mio fratello negli scacchi ( dopo un po’ aveva cominciato a fare qualche partita anche con lui per placare la sua evidente gelosia). Gli regalò un libro di scacchi, raccomandandogli di studiarlo. Mio fratello lo studiò, scoprì che in quel libro era citato Monsieur Fricher come autore di una celebre “variante nello scacco di cavallo”. Era un grande campione e lui fu orgoglioso di averlo avuto per maestro. I Trèbant mandarono per un po’ di tempo qualche cartolina da Parigi che mi tranquillizzò, ma poi scrissero che tornavano in America e, da quel momento, di loro si persero le tracce.
A quell’età non si riesce neanche a pensare che qualcuno sparisca per sempre.
Invece tutto sparì per sempre. Non tornammo mai più in quel paese. Non rivedemmo mai più l’albergo La Scogliera e la spiaggia dei sassi. Mio padre sentenziò che erano stati i due mesi di mare passati in quel “posto sperduto” a causare l’esaurimento nervoso di mia madre e che quindi l’anno dopo saremmo andati in montagna. Così fu purtroppo!
Ma per me Eric non sparì. Nel tempo continuai a pensare a lui. E a fantasticare su quello che sarebbe successo se mia madre non si fosse ammalata quell’estate. Ci saremmo baciati ancora, saremmo cresciuti anno dopo anno e forse alla fine avrei avuto il permesso di andarlo a trovare a Parigi. Ci saremmo sposati, avremmo avuto dei figli e saremmo vissuti felici e contenti, come nelle favole. Molti anni dopo, quando rimasi incinta, chiesi al mio partner se gli sarebbe piaciuto il nome Eric per il nostro bambino. Ma a lui non piaceva. Perché mai volevo mettergli un nome così assurdo?
Benché nessuno se lo sia spiegato, alla fine io credo di aver capito cosa era accaduto a mia madre. Mio padre di certo si sbagliava. Non era stata la lunga vacanza al mare a causare quella strana malattia ..e neanche, come sosteneva qualcun altro, lo choc per essere quasi annegata..ma era stato il Pifferaio magico.
Dovete sapere che mia madre odiava la favola del Pifferaio magico. Non ce la raccontava mai. Quell’uomo che prima attirava e poi portava via con sé i bambini, in un luogo lontano e sconosciuto, togliendoli per sempre alle loro famiglie, la trovava spaventosa. Forse per sottrarci a Lui, che sapeva essere sempre in agguato, ci portava ogni pomeriggio con sé alla spiaggia “dei sassi.” E ci raccontava solo favole allegre in cui alla fine tutti vivevano felici e contenti… per sempre. Lei voleva essere più forte del Pifferaio magico. Ci voleva salvare da tutti i mali, da tutti…
Ma il Pifferaio si era vendicato e così si era portato via proprio lei….in un luogo lontano e sconosciuto. E con lei si era portato via anche Eric, i Trèbant, Monsieur Fricher e la mia estate più felice.



Bianca Maria Vaglio ha curato la sceneggiatura di numerosi film e serie tv.
Tra i suoi script più popolari: Rossella, Amiche davvero! e Doppio segreto. Per le edizioni Rizzoli First è appena uscita sotto la sigla Private Room una sua serie di racconti, scaricabili da Internet.

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