La biblioteca del Trinity College di Dublino fotografata da Candida Höfer |
Pubblichiamo la parte finale del saggio La biblioteca senza libri. Il testo integrale, seguito dalla nota di Riccardo Ridi La biblioteca piena di libri (elettronici), si può scaricare gratis dalla pagina della collana Note azzurre nel sito della casa editrice Quodlibet.
David A. Bell
Oggi, lettori interessati o ambiziosi studiosi dilettanti hanno a disposizione aiuti più cospicui, e di immediato accesso per le loro dita esperte nella navigazione in internet. In rete ci sono interi corsi universitari, con tanto di lezioni gratuite offerte da istituzioni come Harvard e il MIT. Ci sono anche eccellenti lezioni rivolte esplicitamente ad un pubblico generico prodotte da aziende come The Teaching Company, accessibili ad un prezzo modico o gratuitamente tramite una biblioteca pubblica. Esistono poi una mezza dozzina di canali televisivi cosiddetti «educativi», anche se alcuni, come The History Channel, hanno via via indirizzato la loro programmazione verso il semplice intrattenimento. E ovviamente ci sono un’infinità di siti web che offrono un’introduzione a qualunque argomento immaginabile. Caveat lector, d’accordo – ma stiamo parlando di un’incredibile ricchezza di contenuti.
Grazie a siti web istituzionali e all’e-mail, contattare specialisti qualificati su di un argomento accademico e chiedere loro consiglio è più facile che mai. Dopo una mia apparizione in un popolare documentario di History Channel ricevo più volte al mese durante l’anno scolastico domande riguardanti il mio lavoro, spesso da parte di studenti delle scuole superiori (e io lavoro su un argomento relativamente esoterico, gli albori dell’Europa moderna, non su un tema popolare come, per esempio, la guerra civile). Intanto, i principali editori sempre più danno ai loro autori indicazioni pressanti su come dialogare col pubblico attraverso la rete. Apri un sito web. Dai vita a un blog. Crea una pagina Facebook. Apri un account Twitter. Sii disponibile con i blogger. Non si tratta più di firmare qualche autografo ogni tanto. Nel complesso, non è difficile farsi l’idea che il «grande confinamento» degli studi all’interno delle università, iniziato con la professionalizzazione delle discipline accademiche nel XXIX secolo, stia per avere termine. La torre d’avorio si sta sgretolando.
Le nuove forme di comunicazione in grado di superare le vecchie barriere sono ovviamente in massima parte elettroniche, ma la loro crescita non ha in nessun modo ridotto il desiderio di interazione personale. Proprio come l’alta fedeltà non ha ucciso i concerti dal vivo, il cinema non ha ucciso il teatro e le foto ad alta risoluzione non hanno preso il posto dei musei, allo stesso modo la possibilità di seguire un corso universitario da una stanza da letto non ucciderà il desiderio di stare spalla a spalla con altri studenti e un professore. È paradossale, ma la rivoluzione digitale, spingendo milioni di persone in più verso letture e studi d’altro profilo, ha di fatto accresciuto il bisogno di spazi per l’interazione fisica. E per soddisfare questo bisogno, quali luoghi potrebbero esser più adatti delle biblioteche? Le università di solito si trovano lontano dei centri più popolati, e lo spazio nelle classi è spesso merce rara e attentamente gestita. Al contrario, le più grandi biblioteche pubbliche americane occupano alcuni degli edifici migliori e più accessibili del paese. Da Benjamin Franklin in poi, inoltre, il loro principale obiettivo è il contatto con la gente e l’istruzione pubblica. Fino ad oggi potevano raggiungere il loro scopo principalmente offrendo accesso a libri e periodici. Ora che libri e riviste sono disponibili sempre più anche altrove, il pubblico richiede in misura via via maggiore altre forme di interazione: lezioni e seminari legati a corsi online e letture pubbliche; incontri con gli autori; gruppi di lettura; mostre e rassegne di film; centri di ricerca che ospitino studiosi che possano contribuire ad un pubblico confronto. Le biblioteche pubbliche già fanno molte di queste cose, ma c’è bisogno che ne facciano ancora di più, in collaborazione con le università, con gli editori e con chiunque voglia e possa dare una mano. Considerando che raramente le migliori iniziative di questo genere nascano da commissioni organizzative, le biblioteche dovrebbero avere spazi pubblici aperti a semplici lettori che possano progettare e realizzare attività di loro interesse in totale autonomia. Se una volta i bibliotecari zittivano i lettori, da oggi dovranno invitarli a parlare.
Una trasformazione del genere porterà le biblioteche a ibridarsi con la formula degli internet café? Di certo è possibile, ma il cambiamento non dovrebbe avvenire a spese degli spazi comodi e silenziosi riservati alla lettura e alla scrittura, né dovrebbe minacciare la conservazione dei libri non disponibili liberamente online. In ogni caso, questa non è una ragione per opporsi al cambiamento. Prima di liquidare con disprezzo gli internet café come il contrario della biblioteca, ricordiamoci che questi stessi «caffè» hanno alle spalle una storia lunga e gloriosa. A partire dal XVII e XVIII secolo, a Londra, Parigi e Amsterdam, sono stati infatti luoghi di serio confronto pubblico, fondamentali nella costruzione di quel che gli storici chiamano la «sfera pubblica» della prima modernità, assieme alle sale di lettura e alle prime forme di biblioteche pubbliche. Non a caso molti dei più importanti tra questi grandi «caffè» mettevano a disposizione dei propri clienti sia giornali che libri. Anche se gli attuali frequentatori di internet café passano più tempo a controllare Facebook che a dibattere di grande letteratura e filosofia, bisogna ammettere che anche i lettori della stanza principale della biblioteca di New York non sono sempre impegnati a leggere grande letteratura e filosofia. Che ci piaccia o meno, le grandi biblioteche pubbliche del mondo semplicemente non potranno rimanere ciò che erano un tempo; non in un’epoca di rigido contenimento dei costi, nella quale un sempre maggior numero di cittadini porta nelle proprie tasche e nelle proprie borse più o meno l’equivalente di parecchie biblioteche di ricerca. Il cambiamento ci sta addosso. Come Anthony Marx ha più volte ripetuto, «il mondo delle biblioteche sta cambiando, e noi dobbiamo cambiare con lui». In definitiva, le biblioteche per sopravvivere debbono rendersi partecipi di una nuova sfera pubblica, in parte digitale, ed essere attente ai
suoi bisogni e ritmi così come a quelli della cultura e dello studio tradizionali. Sarà un equilibrio difficile da raggiungere: qualcosa andrà perso, e gli amanti del sapere nelle sue forme tradizionali continueranno a levare le proprie lamentazioni. Ma se non cerchiamo di trovare questo equilibrio, e di portare le biblioteche in una nuova era – bene, vediamoci fra qualche anno al Bryant Park Mall per discutere della questione.
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