
Maria Teresa Carbone
È
passato più di un mese da quando Giuliano Zincone se n'è andato. Lo
hanno ricordato in tanti, come è naturale, perché è stato un
eccellente giornalista e una persona giusta, due cose che non sempre
vanno insieme. Aggiungo qualche parola anch'io, sia pure in ritardo, perché
ho avuto la fortuna di conoscerlo, giovane giornalista al “Lavoro”
di Genova quando lui era direttore. A differenza di altri, non l'ho
frequentato fuori dalla redazione (colpa del mio carattere ispido,
tendevo a etichettare come ruffianeria l'ipotesi di un'amicizia con
chi aveva più anni e più potere di me), ma avevo per lui enorme
stima e simpatia, almeno in parte ricambiate, direi.
In
molti, dopo la sua morte, hanno ricordato quasi con stupore i nomi
dei tanti ragazzi chiamati nel piccolo quotidiano genovese da
Zincone: Lucia Annunziata e Gad Lerner e Giorgio Boatti e Luigi
Manconi... Aggiungo qui che trattava i giornalisti “di fuori” e
quelli “di dentro”, i genovesi ereditati dalle tumultuose
gestioni precedenti, con la stessa attenzione, lo stesso garbo, la
stessa ironia affettuosa e partecipe, mai sprezzante. Dopo la
direzione di Cesare Lanza, i titoli sguaiati, le finte inchieste sul
sesso in città, era meraviglioso, almeno per me, avere un direttore che rispettava i giornalisti e i lettori (anche
questo capita di rado).
Che
Zincone abbia diretto un giornale per meno di due anni in tutto è un
paradosso e una ingiustizia: era bravissimo come giornalista, ma
soprattutto sapeva amalgamare e valorizzare, e perseguiva la sua idea
– ben precisa – di giornale condividendola con gli altri, non
catapultandogliela addosso.