mercoledì 4 dicembre 2013

Nazim Hikmet. Due poesie romane

Giovanni Anchiseo

Nâzım Hikmet-Ran, ovvero Nazim Hikmet (Salonicco, 20 novembre 1901 - Mosca, 3 giugno 1963), l'ho sempre considerato un lirico dalla vena piuttosto facile. Infatti ebbe successo immediato, vasto, popolare. Il suo verseggiare senza inciampi, d'un piano petrarchismo, coadiuvato da un richiamo vagamente esotico (era mezzo turco e mezzo polacco), riecheggiava altri ritmi, quelli d'un Tagore o d'un Gibran, altri poeti buoni per le signorine.
Nella vita, però, si cambia. Anche i poeti cambiano.
Si può affermare questo: io e Hikmet siamo cambiati.
E, da poco, siamo entrati più in sintonia. In corrispondenza d’amicali sensi.
Lui sa che non diverrà mai uno dei miei favoriti, ma si rallegra di questa mia recente conversione. Io, per conto mio, lo disporrò in una sezione della biblioteca meno sperduta.  A questo punto qualche anima bella insorgerà giustamente: posso capire che sei cambiato tu (ma di te c'importa poco), ma come è possibile che sia cambiato Hikmet, che non è più da mezzo secolo?
Più che possibile; inevitabile.
Vediamo Hikmet. Ecco cosa scrive nelle sue autobiografie, una in versi, l'altra in prosa:


Ho dormito in prigioni e anche in alberghi di lusso
Ho sofferto la fame compreso lo sciopero della fame
E non c'e quasi pietanza
Che non abbia assaggiata ...
Nel '51 con un giovane compagno
Ho camminato verso la morte
Nel '52 col cuore spaccato ho atteso la morte
Per quattro mesi sdraiato sul dorso ...
Le mie poesie sono pubblicate
In trenta o quaranta lingue
Ma nella mia Turchia
Nella mia lingua turca
Sono proibite ...
In una parola compagni ...
Posso dire di aver vissuto
Da uomo
E quanto vivrò ancora
E quanto vedrò ancora
Chi lo sa

E ancora: "A 18 anni passai in Anatolia, scoprii il mio popolo e le sue lotte. Lottava con i suoi cavalli magri, con le sue armi preistoriche, in mezzo alla sua fame e alle sue cimici ... ero tutto stupito, ebbi paura, lo amai, lo adorai, compresi che bisognava scrivere tutto ciò in un altro modo ... [poi, nella Russia comunista, nel 1921] fui mille volte più stupito, e sentii un amore e un'ammirazione cento volte più forti, perché avevo scoperto ... una carestia cento volte più terribile, e delle cimici cento volte più feroci, e una lotta contro tutto un mondo cento volte più potente, e una immensa speranza, un'immensa gioia di vivere, di creare. Ho scoperto tutta un'altra umanità. E cominciai a scrivere in un altro modo. E da allora non posso non scrivere delle poesie"

Il mondo di Hikmet, il comunista, l'esule, il perseguitato Hikmet, che rischiò più volte la forca, che giacque col cuore spaccato in galera, il carcerato Hikmet, poeta civile e cosmopolita, non esiste più. È per noi impossibile gustarne i versi come nel 1950 o nel 1963, anno della morte; è impossibile perché le passioni, le ideologie, le ansie, i rancori di oggi sono altri da quelli di ieri e ci mettono in rapporto con le sue poesie in modo assolutamente diverso. Il mondo è cambiato, Hikmet è cambiato.
Anche il sottoscritto. Perché ho vissuto, ovviamente, accumulando amori, delusioni, esultanze; e nuove passioni, nuove ideologie, nuovi rancori. E soprattutto perché ho letto. Ho letto tanto, e legger parecchio significa vivere parecchia vita. Dicono che la vita è altro dalla letteratura, ma non è vero: non è così, no, non è così, se abbiamo l'accortezza di non separarle, la letteratura e la vita. Solo i babbei prendon tutto alla leggera; vivere e leggere questo:

”L’isola è piena di questi sussurri,
di dolci suoni, rumori, armonie …
A volte son migliaia di strumenti
che vibrando mi ronzano agli orecchi;
altre volte son voci sì soavi,
che pur se udite dopo un lungo sonno,
mi conciliano ancora con Morfeo,
e allora, in sogno, sembra che le nuvole si spalanchino
e scoprano tesori pronti a piovermi addosso;
ed io mi sveglio, nel desiderio di dormire ancora”

fa parte di un'unica e vasta recita, umana e irripetibile, in cui i mondi scoperti nelle letture e le nostre esperienze, persino le più triviali, si illuminano a vicenda.
E così sono cambiato.
E un bel giorno leggo che, il 20 novembre, ricorre l'anniversario della nascita di Nazim Hikmet, il turco, il comunista, il perseguitato, il poeta civile, padre e marito e amante.
E riprendo, per pura curiosità, l'edizione delle Poesie d'amore. Una brutta edizione, che il tempo e la polvere e l'umidità di ventidue inverni hanno accartocciato agli orli. La apro a caso e leggo:

"Poi mi sono innamorato follemente di varie ragazze e ho scritto per loro dei versi ... "

Oltre troviamo la sua prima poesia romana, una semplice presa d’atto della bellezza femminile; a cui si miscela un presagio di morte; ed eccole, Amore e Morte a Roma:

Roma 1960

Quante donne belle ci sono al mondo
Quante belle ragazze
S'affacciano sulle terrazze della città.

Contemplale vecchio
Contemplale e mentre da un canto i tuoi versi
Si fanno più tersi e lucenti

Dall'altro
Devi contrattare cercando di tirarla in lungo
Con la morte che ti sta accanto.

E ancora, a caso, una dichiarazione di poetica:

Lo so
Quando si è presi da questa passione
E il cuore ha un peso rispettabile
Non c'è niente da fare, Don Chisciotte,
Niente da fare
È necessario battersi
Contro i mulini a vento

E allora ho capito, che, mentre fissavo questi versi dimenticati (io, che, in un senso assai più modesto e metaforico, sono a mia volta diventato un carcerato e un esule), Hikmet mi rimandava lo sguardo, accorgendosi d'esser cambiato pure lui e meravigliandosi di quanto il mondo ruotasse in maniera assolutamente diversa dal 1950 o dal 1963, da quando cioè il poeta Hikmet, il carcerato ed esule Nazim Hikmet, lo calcava sicuro.
Ed è così che, dopo tutti questi anni, ci siamo incontrati a mezza strada, entrambi col cuore mutato.
E credo che d'ora in poi andremo più d'accordo, io e lui, in attesa di riconciliarci per sempre.
Vedete che scherzi fa il tempo.
Ed ecco la seconda poesia romana.

Roma 1960

La tua anima e un fiume, mio amore
Scorre in alto tra le montagne
Tra le montagne verso la piana
Verso la piana senza poterla raggiungere
Senza raggiungere il sonno dei salici piangenti
La quiete dei larghi archi di ponte
Dell'erbe acquatiche dell'anatre dalla testa verde
Senza raggiungere la dolcezza triste delle superfici piane
Senza raggiungere i campi di grano al chiaro di luna
Scorre verso la piana
Scorre in alto tra le montagne
Tirandosi dietro le nubi che si fondono e si separano
Portandosi di notte le grosse stelle
Le stelle delle cime di montagne
Il sole azzurre delle nevi di montagne
Scorre schiumeggiando mescolando nel fondo le pietre nere con quelle bianche
Scorre coi suoi pesci che nuotano contro corrente
Vigili nelle curve
S'inabissa e s'inalbera
Pazza del proprio fragore
Scorre in alto tra le montagne
Tra le montagne verso la piana
Verso la piana inseguendola
Senza poterla raggiungere.

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