giovedì 26 dicembre 2013

Edoardo Sanguineti tra piacere dell'insegnamento e malinconia della scrittura

Ti racconto un libro (anzi tre)

Edoardo Sanguineti
Ballate
a cura di Anna Maria Giancarli, postfazione di Niva Lorenzini
Tracce, 2013, 40 pp., € 12,00

La ballata del quotidiano. Conversazioni con Giuliano Galletta (1994-2009)
introduzione di Erminio Risso
Il Nuovo Melangolo, 2012, 105 pp., € 12,00

Per Edoardo Sanguineti: lavori in corso
Atti del Convegno internazionale di studi (Genova, 12-14 maggio 2011)
a cura di Marco Berisso ed Erminio Risso
Cesati, 2012, 410 pp., € 40,00

Maria Teresa Carbone

Quando, nell’estate del 1974, Edoardo Sanguineti si trasferisce a Genova per prendere la cattedra di letteratura italiana all’università, non ha ancora compiuto quarantaquattro anni. È, secondo i parametri cui siamo oggi abituati, un giovane. Ma allora, giovane Sanguineti non appare affatto agli studenti che lo aspettano nelle aule di via Balbi e che, ben prima del suo arrivo, hanno imparato a conoscerlo attraverso le poesie, i saggi, l’allestimento rivoluzionario dell’Orlando Furioso di Ronconi, i due tomi della Poesia italiana del Novecento su cui sono piovute polemiche a non finire. Sono quindi, gli studenti, non poco eccitati, in quella prima metà degli anni Settanta così ricca di movimenti e sommovimenti, all’idea di avere come professore non un qualsiasi docente universitario ma uno scrittore e un poeta, un protagonista della cultura italiana e europea, in una parola: un intellettuale. (Sono, questi di cui si parla, ancora i tempi in cui gli intellettuali esistono e soprattutto non temono di presentarsi come tali).
Sanguineti, da parte sua, è soddisfatto del trasferimento, ma Genova – la città dove è nato e che ha lasciato piccolissimo – gli appare lontana, se non estranea: ancora un anno dopo, nel 1975, all’uscita nei Reprints Einaudi della nuova edizione di Guido Gozzano. Indagini e letture, commenterà con qualche fastidio in una conversazione privata la nota biografica in quarta di copertina («è nato nel 1930 a Genova, dove vive ed insegna presso la Facoltà di Lettere»): «Sembra che non mi sia mai allontanato di qui».

Non gli piace, evidentemente, che vengano obliterati d’un colpo i lunghi anni di Torino, che resta – e resterà a lungo – per lui la «sua» città, il luogo della formazione e dell’affermazione (anche se l’epilogo, con la revoca dell’incarico universitario, è stato brutale e doloroso: «qualcosa di simile a un trauma, a uno shock, a una catastrofe»), e il periodo di Salerno (1968-1974) caratterizzato da una «densissima specificità», come osserva Nicola D’Antuono all’interno del volume Per Edoardo Sanguineti: lavori in corso, dove sono raccolti gli atti del Convegno internazionale di studi che si è tenuto a Genova a un anno dalla morte del poeta.
Non è quindi probabilmente casuale che, per il suo primo anno nell’ateneo genovese, Sanguineti scelga di tenere un corso che si muove su un doppio binario: da un lato un approfondimento dell’opera di Arbasino e di Landolfi (di cui sono in quei mesi usciti, rispettivamente, Specchio delle mie brame e A caso), dall’altro uno studio del Decameron di Boccaccio, che – ma pochi dei suoi nuovi allievi lo sanno – completa idealmente l’ultimo corso monografico tenuto a Salerno nell’anno accademico 1973-74, quella Lettura del Decameron che nel 2011 è stata pubblicata da Aragno grazie al prezioso lavoro di Emma Grimaldi la quale, studentessa di quel corso salernitano su cui «gravava l’aura triste di un prossimo commiato», aveva deciso «in modo alquanto confuso» di «prendere appunti meno rapsodici e pasticciati di quelli degli anni precedenti”. È davvero un peccato, ma purtroppo lo si capisce meglio oggi a distanza di quasi quarant’anni, che a nessuno dei giovani pigiati nell’aula di via Balbi sia venuto in mente di fare lo stesso. Il corso genovese, infatti (concentrato a differenza del precedente su un’unica novella, la settima della seconda giornata, quella della vergine Alatiel «la quale per diversi accidenti in spazio di quattro anni alle mani di nove uomini perviene in diversi luoghi; ultimamente, restituita al padre per pulcella, ne va al re del Garbo, come prima faceva, per moglie»), avrebbe reso ancora più vivo e evidente quel «credito di una coscienza strutturalista ante litteram», riconosciuta da Sanguineti a Boccaccio, come a colui che, «portando a compiuta codificazione il genere “novella”, inventa una volta per tutte [...] la narratività, nella gamma esaustiva di tutte le sue possibili enunciazioni».
Tra Torino e Salerno e infine Genova, un filo stretto tiene legato l’insegnamento – e la vita stessa – di Sanguineti, né la cosa può apparire sorprendente se si considera che  l’insegnamento è per lui «la professione naturale», il lavoro del piacere, indissolubile e insieme contrapposto al lavoro della malinconia (la scrittura), come rileverà tanti anni dopo, nel giugno 2000, al momento di andare in pensione, in una delle sue numerose interviste a Giuliano Galletta raccolte nel volumetto La ballata del quotidiano, edito dal Melangolo. Così di anno in anno, da una città all’altra, il dialogo con gli studenti, la quotidiana ricerca fatta «anche parlando, discutendo», si rinnova e si rinsalda. Ma il dialogo non rimane chiuso all’interno delle aule universitarie. Appunto a Genova, città (ri)acquisita dove finirà per trascorrere tutta la seconda parte della sua esistenza, Sanguineti sceglie di assumere per intero i panni del chierico rosso, secondo la sua celebre definizione di quello stesso periodo: nel 1976 viene eletto in consiglio comunale (sarà poi deputato tra il ’79 e l’83), comincia a scrivere regolarmente per i quotidiani locali, dirige una collana di testi della letteratura italiana per la casa editrice genovese Costa & Nolan. Le conversazioni con Galletta, tenute nell’arco di quindici anni, dal 1994 al 2009, sugli argomenti più disparati, dalla crisi dell’«Unità» alla globalizzazione, dal delitto di Novi Ligure alla pubblicità degli atei sugli autobus genovesi, portano diretta testimonianza di questo impegno (parola negli anni Settanta abusata, oggi caduta in disuso) e, più ancora, di una visione del dialogo – scrive Erminio Risso nell’introduzione – come «antidoto primo di ogni pensiero unico», come «punto di partenza di una visione dialettica del mondo».
Può sembrare strano, per chi ha affidato alla pagina scritta il suo pensiero e la sua poesia, parlare di un tessuto profondo di oralità. E tuttavia, come non evocare il suono di una lingua che nasce anche “parlata” di fronte, per esempio, alle Ballate appena riproposte in volume da Tracce con un'acuta postfazione di Niva Lorenzini? Ma pure i testi critici di Sanguineti non si comprenderebbero a fondo, se non si tenesse conto di quella che Guido Davico Bonino, nel primo intervento degli atti del convegno genovese, evoca come «la sua straordinaria carica didattica: un’eccezionale capacità di dialogare con gli allievi mantenendo un livello altissimo di discorso critico, ma al tempo stesso con una comunicativa immediata di altissima presa». Anche per questo suo insegnamento Sanguineti dovrebbe oggi essere preso a esempio.

Questa recensione è uscita nello Speciale dedicato al Gruppo 63 allegato al numero 33 della rivista Alfabeta2.

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