Giulia Caminito
“Quello che è scritto qui dentro è tutto accaduto, fate
incluse”: così Simona Baldelli esordisce parlando del suo
romanzo Evelina e le fate, finalista al premio Calvino nel 2012 e
ora, uscito per Giunti, piccolo bestseller con oltre diecimila copie vendute in
poco più di tre mesi. E subito ammette che questa frase a effetto lei la ripete
sempre, a ogni presentazione, a ogni incontro.
“Ma perché è proprio così, questa è la storia di mia madre,
della mia famiglia, una storia che avevo con me da tanto tempo.”
Per raccontarla, Simona - che a Plautilla gioca oggi un
doppio ruolo, è socia di Monteverdelegge ma è anche, soprattutto, scrittrice -
ha scelto la disciplina dell'apprendistato.
Per anni aveva scritto per il teatro, ma voleva avere gli
strumenti per dar voce a quella storia che bussava, sepolta nel cassetto ormai
da troppo tempo. Per questo ha deciso di iscriversi alla Scuola Omero
-
anch’essa monte verdina - dove ha fatto un percorso volto a far emergere le
parole giuste per raccontare la storia di Evelina. Durante una delle
esercitazioni ha preso tra le mani un libro di Camilleri e ha pensato che lei
voleva scriverla in quel modo la storia della sua famiglia: facendo parlare
direttamente le persone attraverso i personaggi, arricchite dalla loro terra e
dalle loro radici, da quel dialetto che è considerato da molti una vergogna se
parlato fuori casa. Sono apparse così, grazie al lavoro fatto su se stessa,
alle direttive degli insegnanti di scrittura, al confronto con gli altri che lavoravano
anche loro ai propri testi d’esordio, le parole terrose del pesarese. Così ha
fatto capolino la vita di Evelina, che in realtà è sua madre, per raccontare
anche l’indignazione per un Paese, il nostro, che dimentica il passato più
prossimo e si abbrutisce pensando solo a insultare il presente.
C’è tutto in “Evelina e le fate”; tutto quello che Simona ha
tenuto per sé, come la rabbia per gli “smemorati”, la rivalsa delle voci
campestri, la difficoltà di mettere nero su bianco l’esistenza di una famiglia,
lo sguardo di una bambina sul mondo degli adulti. Quegli stessi adulti che
usano la parola “guerra” senza poi saperla spiegare.
Evelina, la protagonista, ha cinque anni, ancora non
è andata a scuola - racconta l'autrice - quindi non ha nessuna
categoria, nessuna imposizione, nessun insegnamento ad affollarle la testa e
per lei questo eco di guerra, che è fatto di piccoli dettagli e di grandi
drammi, non ha ancora un significato preciso. Simona torna indietro a quei
racconti di famiglia, fatti magari a tavola con un bicchiere di vino davanti, o
sottovoce prima di andare a dormire, che narrano di bambini ebrei nascosti ai
fascisti, gocce di sangue nel piatto, ladri di salsicce, pasti poveri ma
dignitosi, forme dialettali ritenute vergognose in pubblico, fate madrine.
Chi ha letto il libro lo sa, stiamo parlando della Seconda
Guerra Mondiale. Stiamo parlando della Resistenza. Stiamo parlando degli
effetti del fascismo. E allora cosa c’entrano le fate? Simona Baldelli lo
ripete: “tutto è accaduto, fate incluse”. Perché per avvicinare il lettore a
quella dimensione popolare, a ciò che realmente è appartenuto alla sua
famiglia, non si possono omettere le credenze. La magia della campagna,
potremmo chiamarla. Spiriti protettori del focolare, antenati che vegliano sui
loro pronipoti; fate, insomma, con nomi ben precisi e fattezze ancora più
indicative. Non sono sogni di una bambina che non capisce cosa
sia questo “farsi la guerra” e si rifugia nel mondo magico popolato da
entità inspiegabili. No, le fate sono un marchio di famiglia. Proteggono e
intervengono in caso di necessità. Senza bacchetta magica e senza parole.
E per
questo la loro “magia” è ancora più forte.
A questa magia quotidiana corrisponde la “voce” del testo,
le sue cadenze dialettali, le parole scelte a una una per essere ad altezza di
bambino. Una voce che dà al libro un risvolto doppiamente politico: da una
parte veicola l’intuizione che molte divisioni abbiano motivazioni umane,
troppo umane, più che ideali, e dall’altra la scelta del personaggio principale
propone una prospettiva “altra” rispetto a quella storica ufficiale. Per
parlare di quello spicchio di vita storica che poi è anche la nostra e per
domandarci, come ad esempio faceva Roland Barthes nella “Camera chiara”: chissà
com’era mia madre da bambina?
E anche Simona Baldelli recupera vecchie foto, oralità,
memorie, cassetti impolverati, modi dire che oggi a molti sembrano solo
“provinciali” e invece sono i guizzi di un’identità locale da preservare.
Perché in campagna arrivavano soprattutto le conseguenze della guerra come
gli sfollati, i fuggiaschi, i briganti e coloro che venivano nascosti. Ogni
membro della sua famiglia ha tutt’oggi un ricordo degli effetti che la guerra
stava portando con sé. Una guerra gettata sulla gente come un sasso nel lago,
che si era espansa a cerchi concentrici. Loro erano alla periferia di quella
pietra scagliata come piccoli e grandi eroi che in quell’acqua volevano lottare
per rimanere a galla.
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