lunedì 17 giugno 2013

Simona Baldelli: guerra e fate

Giulia Caminito

“Quello che è scritto qui dentro è tutto accaduto, fate incluse”: così Simona Baldelli esordisce parlando del suo romanzo Evelina e le fate, finalista al premio Calvino nel 2012 e ora, uscito per Giunti, piccolo bestseller con oltre diecimila copie vendute in poco più di tre mesi. E subito ammette che questa frase a effetto lei la ripete sempre, a ogni presentazione, a ogni incontro.
“Ma perché è proprio così, questa è la storia di mia madre, della mia famiglia, una storia che avevo con me da tanto tempo.” 
Per raccontarla, Simona - che a Plautilla gioca oggi un doppio ruolo, è socia di Monteverdelegge ma è anche, soprattutto, scrittrice - ha scelto la disciplina dell'apprendistato.


Per anni aveva scritto per il teatro, ma voleva avere gli strumenti per dar voce a quella storia che bussava, sepolta nel cassetto ormai da troppo tempo. Per questo ha deciso di iscriversi alla Scuola Omero 
- anch’essa monte verdina - dove ha fatto un percorso volto a far emergere le parole giuste per raccontare la storia di Evelina. Durante una delle esercitazioni ha preso tra le mani un libro di Camilleri e ha pensato che lei voleva scriverla in quel modo la storia della sua famiglia: facendo parlare direttamente le persone attraverso i personaggi, arricchite dalla loro terra e dalle loro radici, da quel dialetto che è considerato da molti una vergogna se parlato fuori casa. Sono apparse così, grazie al lavoro fatto su se stessa, alle direttive degli insegnanti di scrittura, al confronto con gli altri che lavoravano anche loro ai propri testi d’esordio, le parole terrose del pesarese. Così ha fatto capolino la vita di Evelina, che in realtà è sua madre, per raccontare anche l’indignazione per un Paese, il nostro, che dimentica il passato più prossimo e si abbrutisce pensando solo a insultare il presente.
C’è tutto in “Evelina e le fate”; tutto quello che Simona ha tenuto per sé, come la rabbia per gli “smemorati”, la rivalsa delle voci campestri, la difficoltà di mettere nero su bianco l’esistenza di una famiglia, lo sguardo di una bambina sul mondo degli adulti. Quegli stessi adulti che usano la parola “guerra” senza poi saperla spiegare.
Evelina, la protagonista, ha cinque anni, ancora non è andata a scuola -  racconta l'autrice  - quindi non ha nessuna categoria, nessuna imposizione, nessun insegnamento ad affollarle la testa e per lei questo eco di guerra, che è fatto di piccoli dettagli e di grandi drammi, non ha ancora un significato preciso. Simona torna indietro a quei racconti di famiglia, fatti magari a tavola con un bicchiere di vino davanti, o sottovoce prima di andare a dormire, che narrano di bambini ebrei nascosti ai fascisti, gocce di sangue nel piatto, ladri di salsicce, pasti poveri ma dignitosi, forme dialettali ritenute vergognose in pubblico, fate madrine.
Chi ha letto il libro lo sa, stiamo parlando della Seconda Guerra Mondiale. Stiamo parlando della Resistenza. Stiamo parlando degli effetti del fascismo. E allora cosa c’entrano le fate? Simona Baldelli  lo ripete: “tutto è accaduto, fate incluse”. Perché per avvicinare il lettore a quella dimensione popolare, a ciò che realmente è appartenuto alla sua famiglia, non si possono omettere le credenze. La magia della campagna, potremmo chiamarla. Spiriti protettori del focolare, antenati che vegliano sui loro pronipoti; fate, insomma, con nomi ben precisi e fattezze ancora più indicative. Non sono sogni di una bambina che non capisce cosa sia questo “farsi la guerra” e si rifugia nel mondo magico popolato da entità inspiegabili. No, le fate sono un marchio di famiglia. Proteggono e intervengono in caso di necessità. Senza bacchetta magica e senza parole. 
E per questo la loro “magia” è ancora più forte.
A questa magia quotidiana corrisponde la “voce” del testo, le sue cadenze dialettali, le parole scelte a una una per essere ad altezza di bambino. Una voce che dà al libro un risvolto doppiamente politico: da una parte veicola l’intuizione che molte divisioni abbiano motivazioni umane, troppo umane, più che ideali, e dall’altra la scelta del personaggio principale propone una prospettiva “altra” rispetto a quella storica ufficiale. Per parlare di quello spicchio di vita storica che poi è anche la nostra e per domandarci, come ad esempio faceva Roland Barthes nella “Camera chiara”: chissà com’era mia madre da bambina?
E anche Simona Baldelli recupera vecchie foto, oralità, memorie, cassetti impolverati, modi dire che oggi a molti sembrano solo “provinciali” e invece sono i guizzi di un’identità locale da preservare. Perché in campagna arrivavano soprattutto le conseguenze della guerra come gli sfollati, i fuggiaschi, i briganti e coloro che venivano nascosti. Ogni membro della sua famiglia ha tutt’oggi un ricordo degli effetti che la guerra stava portando con sé. Una guerra gettata sulla gente come un sasso nel lago, che si era espansa a cerchi concentrici. Loro erano alla periferia di quella pietra scagliata come piccoli e grandi eroi che in quell’acqua volevano lottare per rimanere a galla.



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