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lunedì 18 gennaio 2021

Gruppo di lettura “Libri nuovi”: Nicola LAGIOIA, La città dei vivi, Einaudi, 2020.




Roberta Rondini

Un libro che, nel parlarne, mette le ali ai piedi e le catene ai polsi, perché non è solo cronaca di un delitto efferato, narrazione di una città in un quasi sfacelo, racconto di un incubo materializzatosi tra le quattro pareti di un mediocre spazio domestico ma spunto per riflettere anche su altro, di un molto altro che riguarda tutti noi e per questo forse più difficile da accettare e da metabolizzare.

Raccontare una storia orribile, l’omicidio efferato del ventiquattrenne Luca Varani da parte di Manuel Foffo e Marco Prato, due giovani poco più grandi di lui, accaduto nel 2016 a Roma, non era né semplice né scontato. Una vicenda ancora molto calda mentre Lagioia si accinge a scrivere e sulla quale gravavano polemiche e giudizi drastici anche per la grande risonanza sui media che non avevano lesinato sulla vicenda, e su alcuni suoi risvolti, articoli, servizi giornalistici e programmi televisivi.

Lagioia inizia ad interessarsi all’omicidio su incarico del Venerdì di Repubblica per un reportage all’indomani del delitto. Inizialmente declina per un suo malessere ad affrontare il lavoro, tenta di scantonare, ma ci torna su per una sorta di attrazione fatale, come poi espliciterà, un’ossessione, in parte spiegata da motivazioni personali e psicologiche legate alle sue esperienze passate, in ogni caso spinta da una spiccata sensibilità per certe situazioni di frontiera culturali, sociali e comportamentali.

Una maggiore sfida, dunque, a rappresentare in un “altro” modo un accadimento altrimenti inspiegabile che lasciava intravedere nelle sue molteplici increspature aspetti complessi e sotterranei della nostra contemporaneità. Un romanzo distopico? Forse, se si intende con ciò il racconto della distopia stessa del nostro vivere metropolitano odierno. Comunque, una storia resa viva e pregnante da fatti, emozioni, irrazionalità, solitudini ed efferatezze, da un dolore serpeggiante, nascosto, poi moltiplicato ed esploso in mille frammenti di ferocia e di apparente disumanità in una Capitale attonita e esterrefatta ma infine complice.

Perché, pur se racconto di un delitto tra i più feroci e disumani che si possa immaginare, è anche  una narrazione corale che riguarda generazioni di giovani (a Roma ma non solo romani), spesso “di buona famiglia” che sembrano aver mancato molti dei punti di riferimento di quelle precedenti, e le generazioni dei loro padri e delle loro madri, genitori che si materializzano come comparse mute o fin troppo ciarliere ma sempre distanti e inadeguati, impreparati ad assolvere alla loro funzione di educatori e infine di cittadini:

… ragazzi assolutamente normali, a cui non mancava niente sul piano materiale, sembravano vivere come autentici disperati, per le droghe che prendevano, per come non riuscivano a mettere a fuoco la propria stessa identità, … per l’uso irrispettoso che facevano dei propri corpi, per il rapporto che intrattenevano con il denaro, per come sembravano incuranti di sprecare interi periodi delle loro vite...

È evidente, perciò, anche un atto di accusa forte e disperato verso una funzione genitoriale sempre più carente e incapace, fenomeno al quale negli ultimi anni molto poco si sta prestando attenzione a livello sociale e politico. 

Così, altrettanto forte e disperato è lo sguardo sulla montagna di cocaina che “splende” sulla città, consumata senza differenza di censo o di status sociale; evidenza di certo non solo letteraria ma sostanziata dai numeri e dalle analisi che certificano costantemente l’aumento del consumo di cocaina soprattutto in Europa, soprattutto nelle grandi città.

Ecco che lo sfacelo di Roma acquistava all’improvviso una sua logica…. la noia diventava speranza, l’accidia svaniva nell’operosità. Era il percorso della coca, la bianca rete elettrica che avvolgeva la città.

Il risultato finale è un romanzo documentario, rigoroso, ben strutturato e congegnato, distaccato per l’alterità che l’autore cerca e mantiene nei confronti dei colpevoli e della vittima che non è mai freddezza, bensì tentativo testardo di comprendere nelle radici più nascoste una sequenza di avvenimenti apparentemente slegati tra loro, di banalità, di compulsioni, di solitudini, di compimento del male estremo. 

venerdì 1 febbraio 2019

Gruppo "Al cinema con MVL"

Maria Vayola
Gli ultimi due film che il gruppo "Al cinema con MVL" ha visto e su cui ha conversato sono Roma di  Alfonso Cuarón e Cold War di Paweł Pawlikowski.

 Roma di Alfonso Cuaron

Il film inizia con l'immagine dell'acqua che scorre e si ritrae sul pavimento del cortile della casa dove Cleo, la domestica india, lavora senza sosta al servizio di una famiglia medio borghese di origine europea, nel quartiere Roma di Città del Messico. Scorre e si ritrae come il dolore che abita gli animi delle donne protagoniste del film, mentre gli aerei solcano il cielo in un andirivieni continuo.
Sulla scia dei ricordi della sua infanzia, per onorare quella che fu la sua tata, il regista costruisce un film asciutto e intenso intorno alla sua figura, mettendo a nudo le diseguaglianze sociali che collimano con le diversità etniche e di genere.
Cleo, insieme ad un'altra domestica sempre india, lavora incessantemente dalla mattina alla sera senza soluzione di continuità tanto che far finta di morire le appare come un gioco che dà pace.
Si occupa anche dei bambini con cura amorevole e la dedizione di una madre, tanto da rischiare la propria vita per loro. La sua vita però è stretta nella gabbia della discriminazione in cui è costretto il suo popolo da quando la colonizzazione europea ha fatto scempio delle loro vite, terre, culture; le contraddizioni non tardano a scoppiare, siamo nei primissimi anni '70, in manifestazioni che vengono sedate a colpi di pistola dalle milizie private sorrette dal governo.
Il volto di Cleo esprime la sua dolente situazione ma si apre a dolci sorrisi affettuosi quando si relaziona con i bambini, afferma il suo essere umano con dignità, amorevolezza e rispetto per gli altri. Il suo isolamento sociale verrà scalfito solo dalla solidarietà che la sua "padrona" le riserberà per l'innestarsi di una solidarietà femminile tra donne che "non possono che essere sole, sempre" ma i ruoli sociali, tra loro due, di fatto non vengono alterati da questo.
Messico, terra di deserti, di terremoti, di conquista, di contrasti in un bianco e nero luminoso che quasi abbaglia e contorna le figure e gli animi.
In una intervista il regista ha detto: "Ci sono periodi nella storia che lasciano cicatrici nelle società, e momenti nella vita che ci trasformano come individui. Tempo e spazio ci limitano, ma allo stesso tempo definiscono chi siamo, creando inspiegabili legami con altre persone, che passano con noi per gli stessi luoghi nello stesso momento. Roma è il tentativo di catturare il ricordo di avvenimenti che ho vissuto quasi cinquant’anni fa. È un’esplorazione della gerarchia sociale del Messico, paese in cui classe ed etnia sono stati finora intrecciati in modo perverso. Soprattutto, è un ritratto intimo delle donne che mi hanno cresciuto, in riconoscimento al fatto che l’amore è un mistero che trascende spazio, memoria e tempo."

mercoledì 14 ottobre 2015

Conflitti rimossi e sempre aperti in "Adua" di Igiaba Scego


Valerio De Simone
Ambientato tra le città di Roma e Magalo, in Somalia, lungo un arco di tempo che va dagli anni Trenta fino ai giorni nostri, l'ultimo romanzo di Igiaba Scego ha per protagonisti Zoppe e sua figlia Adua (da cui il libro, appena uscito per Giunti, prende nome), i quali, in epoche differenti, narrano al lettore le loro esistenze mettendo in luce cosa significhi essere un migrante, uno straniero. A differenza del suo primo romanzo Rhoda (Sinnos, 2004), con Adua Scego sceglie quindi di raccontare - per dirla con le parole di Gayatri Chakravorty Spivak - la subalternità dei soggetti coloniali.
Il termine sottomissione è infatti elemento comune nelle vite degli eroi. Grazie al lavoro di interprete, Zoppe riesce a coronare il suo sogno di raggiungere Roma, città da lui venerata. Ma come accadde per il soggiorno romano di Giacomo Leopardi, ne rimane profondamente deluso. Mentre sua figlia, l’aspirante attrice Adua, viene “presentata” nella grande città come Saartjie Baartman la Venere ottentotta, con la promessa di divenire una diva di Cinecittà. A incrinare il loro rapporto con la città sono le violenze che subiranno in primis sui loro corpi. Zoppe viene brutalmente picchiato e arrestato dai fascisti in quanto “negro”, mentre il corpo della giovane, come una colonia, verrà brutalmente “conquistato e defraudato” da produttori cinematografici e magnati dell’ambiente. L’elevazione a feticcio della giovane donna per il suo carattere “esotico” mostra come i “saccheggi” dei colonizzatori italiani non siano cessati con l’indipendenza della Somalia (1960), aprendo così a una lunga stagione di neocolonialismo.
Divenuta adulta e ormai matura, Adua, il cui nome è stato scelto dal padre per ricordare «la prima vittoria africana contro l’imperialismo» (battaglia a cui il regista Haile Gerima ha dedicato nel 1999 il film Adwa – An African Victory),  assiste ai nuovi flussi migratori che interessano il mediterraneo e quindi l’Italia. Sceglie così di sposare un giovane somalo in fuga dalla povertà e dal conflitto, emblematicamente soprannominato Titanic. «Io lo so che Titanic – dice il giovane somalo a sua moglie - è un film dove tutti muoiono. Ma ricordati che io non sono morto». In realtà la loro relazione sembra essere più quella di una madre con un figlio che di due amanti. E consapevole che il ragazzo non è davvero innamorato di lei, e presto “spiccherà” il volo verso altri luoghi più ospitali, alla donna non resta che cercare nella città di Roma un conforto confidandosi con l'elefantino del Bernini e  raccontando alla statua silenziosa la propria storia, le speranze, i sogni, i rimpianti.
Roma insomma, con le sue architetture, le sue strade e le sue storie, non è solo uno sfondo neutro alle vite dei nostri eroi, ma si fa parte attiva allo svolgersi delle loro azioni fino a diventare un personaggio a parte intera. Proprio la capitale, dove le tracce del colonialismo italiano sono tuttora evidenti come Scego ha splendidamente mostrato in Roma negata – Percorsi postcoloniali nella città (Ediesse, 2014), si trasforma da miraggio di speranza in un luogo freddo e poco sicuro.
Caratteristica distintiva del romanzo, e in generale dell’intera opera del’autrice, è la presenza dell’ibridismo linguistico tra italiano e somalo (ovviamente corredato da un glossario finale), che sottolinea - come già Gloria Anzaldùa aveva fatto in Terre di confine/La Frontera (Palomar, 2000) - le numerose identità del soggetto migrante, il suo appartenere contemporaneamente a due culture: una del colono, l’altra del colonizzatore.
Dunque Adua è una storia che ci racconta di conflitti mai terminati, di migrazioni, di imperialismo, del colonialismo italiano «uno dei grandi rimossi della storiografia del nostro paese», di neocolonialismo, di sfruttamento dei corpi, ma soprattutto di sogni, spesso infranti, e di speranze.

sabato 24 gennaio 2015

Roma Caput Immundi: il Ponte della Scienza Rita Levi Montalcini


G. Luca Chiovelli

Se potessi esprimere un desiderio - solo per togliermi uno sfizio e ridere alle spalle dei romani - bene, il desiderio sarebbe questo: "Oh Signore Dio, Causa Efficiente e Finale dell'Universo, governatore dell'Assoluto e Facitore del Tempo e della Materia, per favore, per piacere, se non disturbo, ascolta il tuo servo ed esaudisci questa sua breve preghiera: fai sparire tutti i monumenti costruiti a Roma prima del 1945, chiese ponti colonne palazzi, tutti, falli sparire tutti, ti prego, fallo per me; e poi, se vuoi, nascondiamoci dietro le quinte, assieme, per vedere le reazioni di quei quattro minchioni e farci qualche sghignazzata".
Cosa sarebbe di Roma in quel caso? Diverrebbe appetibile turisticamente come Milano 2, certo, ma con questa differenza: che Milano 2 al confronto di questa NeoRoma rileverebbe quale città ideale rinascimentale (e, infatti - non sto scherzando - Berlusconi l'ha pensata proprio come città ideale, influenzato dalla lettura giovanile dell'Utopia di Tommaso Moro. Non ci credete? Leggete qui, Silvio era un utopista di grana fina).
Insomma, privata del suo passato urbanistico e architettonico, che i nostri attuali amministratori, peraltro, dilapidano costantemente con tranquilla inettitudine (chiamiamola così), la NeoRoma si ritroverebbe esclusivamente Corviali, Torbellamonache, Nuovi Salari, Tiburtini III, le varie follie abitative deposte accanto alla Casilina, nonché, in buon ordine lo stupidissimo Ponte della Musica, la goffa scatola da scarpe che contiene l'Ara Pacis, ulteriori ammassi di materiali a casaccio firmati da Calatrava e Fuksas più archeomostri a piacere di cui non mi ricordo e che non voglio ricordare. 
Il Ponte della Scienza è uno di questi orrori.
Preparato negli anni (tanti anni) da diatribe, opposizioni, progetti, riunioni, ciacole, unzioni di ruote amministrative, annunci e preventivi buoni per almeno tre piramidi di Cheope, il pedonale Ponte della Scienza, dal 29 maggio scorso è, purtroppo, realtà.
A cosa serva non lo so. Sicuramente ad affliggere la memoria dell'incolpevole Montalcini (o di Vittorio Gassman, cui hanno dedicato il Lungotevere adiacente). Direbbe Groucho Marx: a tale vista i miei antenati si rivolteranno nella tomba. E mi toccherà rimboccargli la lapide! 
Serve forse a collegare la zona Marconi alla zona Ostiense? Per ora vedo solo un collegamento fra due lungotevere luridissimi, abbandonati a se stessi, folti di erbacce, accampamenti abusivi, rifiuti vecchi di decenni, officine sgangherate, supermercati, chiese postmoderne (ah, la morte del sacro ...) ed esornati dal caro, immancabile e inamovibile monumento della periferia e semiperiferia romana: lo sfasciacarrozze ("Che ciai er fanale de dietro destro daa Yaris?").


Altri babbei: è il primo passo della riqualificazione dell'intera area! Come no ... che sia un primo passo, è indubbio, vista la fatiscenza dell'area anzidetta, ma pongo una domanda: come si può riqualificare un luogo qualsivoglia con tale accrocco? Meglio non fare niente, allora. Come la lettura: se devi leggere Fabio Volo è meglio che guardi la televisione.
Il ponte è inutile, possiamo dirlo. Inutile. E brutto, Cristo santo. Brutto. Mi si intenda, però. Brutto in modo cool, postmoderno, avanzato. Di quella bruttezza che scaturisce dall'ignoranza di qualsiasi euritmia, garbo, e simmetria (come le abbiamo apprezzate nei millenni) e da quel minimalismo micragnoso e inumano spacciato per progressismo concettuale. Ma non vedete l'angustia mentale, e la piccineria della concezione, che sovraintendono maestre a tutto? Osservate bene: i lampioncini stitici, le solite panchine nichiliste a parallelepido, la balaustra col filo di ferro, il cestino di rifiuti buono neanche per il McDonald's. A sette anni col Meccano costruivo modellini più aggraziati ... e poi la struttura ... la forma ... Leggo da Wikipedia: "Il Ponte della Scienza nasce dall'unione di due concetti strutturali: quello della trave a sbalzo da un triangolo, la cosiddetta stampella, e quello della travata centrale appoggiata con post-tensione esterna". Eccola più sotto. Complimenti a tutti.


Brutto. Talmente brutto che le scritte vandaliche, subito comparse, donano paradossalmente al ciofecone un'arietta più accettabile.
Debbo confessare, però, che il ponte ha cambiato d'un sol colpo le urgenze urbanistiche per la riqualificazione dell'intera area. Ora la prima è, indubbiamente, il suo abbattimento.


Foto tratte dai siti Romafaschifo.com e Skyscrapercity

venerdì 14 novembre 2014

Giorgio Manganelli e la pisciatina notturna

G. Luca Chiovelli

Una divagazione di Giorgio Manganelli, che lessi su un quotidiano romano decenni fa:

“Tempo addietro, credo fosse la scorsa estate, mi accadde di passare, una sera, per la mirabile piazza della Bocca della Verità a Roma; era con me, dignitosa e virtuosa compagnia, una giovane e brillante giornalista romana; nella sera tiepida si chiacchierava del più e del meno: Dio, l'aldilà, la vita sulle galassie, quando noto nella mia vereconda collega i segni di indubbio malessere; educatamente mi allarmo, costei si schermisce, offro assistenza, vengo bruscamente respinto; infine, il segreto turbamento esige una spiegazione: la giovane giornalista dovrebbe andare al bagno; ma nulla del genere esiste in quella parte della città; pura follia pensare che sia stato previsto un evento tanto incredibile, che una giovane donna debba andare al bagno in Piazza Bocca della Verità .... quell'angolo, a destra, le ingiungo; vergognosa, la fanciulla si apparta, mentre io fo da guardia; un notturno zampillo; e la fanciulla riemerge serena, e riprendiamo a discutere sulle probabili forme di vita delle galassie”.

Chi non ha sofferto disavventure simili a Roma?
E la signora è stata fortunata. Se avesse trovato il bagno sarebbe stato molto peggio.
Una volta, in un bar di periferia, fui costretto personalmente a eliminare i residui dal water con un tubo da giardino, che il proprietario ebbe l’accortezza di far penzolare da una feritoia del fetido stambugio. Un'altra volta, invece, battei rovinosamente la cervice alla sommità di un cunicolo che, mi era stato detto, sarebbe sboccato nella toilette (toilette, dissero proprio così; zona Garbatella). Presso Piazza S. Giovanni di Dio, per accedere al Nirvana della prostata, fui dapprima costretto a sollevare una botola, fissarla con lo spago alla parete, e quindi inscenare una catabasi nella penombra fra due muri compatti di confezioni di bitter e acqua minerale: al termine non trovai la Giudecca, ma, in compenso, un bugliolo infernale. Per tacere di quando, nel Cimitero Monumentale del Verano, dovetti abbattere una porta per liberare una signorina rimasta chiusa au cabinet, al buio … si era dalle parti della lapide di Vittorio Gassman, mi sembra ... che dire … basta così ...
Urge un baedeker dei cessi romani. Senza dubbio.
Cessi, latrine. Bagni, servizi.
Certo servirebbe anche di quelli fiorentini, parigini, cairoti, berlinesi e bonaerensi, lo concedo, ma di quelli romani ...
A Roma conosciamo tutto su musei, biblioteche, centri culturali, siti archeologici, chiese, basiliche, arene, privé, discoteche, cattedrali, club per sadomasochisti, conventi e palazzi patrizi, ma ignoriamo dove estrovertire con tranquilla dignità le più irrefrenabili e frequenti pulsioni dell'animo umano.
Consideriamo, peraltro, la fredda aritmetica.
Tre milioni e mezzo di residenti più un milione circa fra turisti, immigrati, irregolari, pendolari, terroristi e scansafatiche vari fanno quattro milioni e mezzo di esseri umani in giro per la Città; ogni giorno che Cristo, o chi per lui, manda su questa valle di lacrime.
Calcoliamo: almeno tre minctiones e una stercoratio cadauno nelle ore diurne (08.00-20.00) e si raggiunge la spaventevole cifra di potenziali diciotto milioni di esternazioni, fra deflussi ed espulsioni: in un arco di sole dodici ore. Al giorno.
Lo ripeto con allarme: urge una guida ai cessi romani.

Perché a Roma saper pisciare e defecare con tranquillo decoro pare impossibile. E non da oggi - da quando, cioè, la città appare, come è, in pieno declino. 
Questo libro, come la materia trattata, è perciò ineludibile.
È una guida che nessuno ha mai pensato di compilare (ah, i tabù), ma serve, serve come il pane; inoltre mi divertirebbe scriverla.
Sì, un baedeker dove il passeggiatore e, soprattutto, il turista, avrebbe modo di trovare preziosissime indicazioni su come risolvere le fatali incombenze nei modi e nei luoghi più dignitosi ... sarebbe un successo ... ragionate: quale guida è più essenziale a Roma, oggi? Un successo ... ho tutto in testa: aneddoti, luoghi, avvertenze ... basterebbe ammollarmi qualche mazzettone in anticipo ... ho già in mente il titolo: Dove la faccio? Guida ragionata a bagni cessi e latrine pubbliche nella Città Eterna ... da aggiornare online … un successo, lo ripeto, eventuali editori non siano timidi …
Infine puntualizziamo tre punti.
1. Per pubblico (bagno cesso latrina pubblici) voglio significare non solo la struttura comunale o statale confacente, come dire?, alla bisogna, ma anche bagni cessi latrine privati di bar, ristoranti, fast food, pizzerie, hamburgerie, birrerie, caffetterie, pub, aperti ai deflussi e alle deiezioni pubbliche di coloro che, incautamente, si ostinano ancora a visitare e andare a zonzo per i meandri della Cittá Eterna (da qualche tempo in qua piuttosto caduca, in verità).
2. Inutile storcere il naso di fronte a tali estroversioni dell'apparato corporeo: esse fanno parte della nostra vita, ogni giorno (anzi: più volte al giorno); sono fastidiose, lo ammetto; sgradevoli, ne convengo, ma, purtroppo ineludibili - come la morte, il respiro e il canone RAI: ad esse nulla può opporsi, neanche la volontà più fiera. Barack Obama e Jean-Claude Juncker, Monica Bellucci e George Clooney, Messi e Serena Williams, George Soros e Luca Cordero di Montezemolo, tutti (tutti!) devono piegarsi (alla fine, anche fisicamente) a tale incoercibile imperio.
3. Attraverso tale guida, inoltre, si ovvierebbe a una gigantesca ingiustizia storica; talmente enorme che, in tempi di acuto revisionismo, esige d’esser sanata senza por tempo in mezzo.
Mi spiego: non è forse vero che tali esternazioni non sono che uno dei due corni di un unico fenomeno? Ovvero uno dei due volti di un unico Giano bifronte?
Mi rispiego: non è forse vero che la cauta, meticolosa, e schifata eliminazione di tali sostanze è simmetrica all'ingestione (anelata, sublimata, simbolizzata, festeggiata e declinata secondo gusti e forme variegatissimi) di simmetriche sostanze (in realtà pari a merda e piscia, ma più gradevolmente assemblate a livello molecolare)?
Non avete capito? Lo urliamo, allora, in altri, più crudi, termini: non si piscia ciò che si beve? Non si defeca ciò che si mangia? Come è possibile, quindi, magnificare e magniloquire la materia che si introduce da un orifizio superiore e deprecare e disinteressarsi con disgusto quando la stessa ci saluta da quelli inferiori? Non vedete voi in tale diportamento una ipocrisia millenaria e un atteggiamento falso e iniquo che ha prodotto una letteratura sbilanciatissima e profondamente parziale? Come è possibile, insomma, continuare ad appesantire le scaffalature con le più svariate e pletoriche guide: guide ai ristoranti, guide agli happy hour, guide a trattorie, locali, bar, night, cantine, boutique del gusto, enoteche, fraschette, pizzerie, agriturismi, griglierie, birrerie, senza dedicare neanche un minuscolo scartafaccio ai luoghi ove poter decentemente eliminare gl'inevitabili decorsi di tali bagordi e imbandigioni?
E allora, come dire?, sforziamoci tutti.
Compiliamo questa benedetta guida.
Ogni locale pubblico (pubblico nel senso sopra indicato) si vedrà assegnare delle stellette (da una a dieci) a seconda della qualità dei servizi.
Ti picchi di avere il dolcetto artigianale e lo smerci a caro prezzo? Bene, ma che le ceramiche della coppa del cesso sia altrettanto curate, altrimenti …
Servi una sublime amatriciana? Benissimo, ma se manca il sapone, la carta igienica, l'asciugatore o i fazzolettini noi ti stronchiamo.
Il museo tal dei tali espone il dipinto ritrovato di Caravaggio? Bravi, bis, ma poi vogliamo anche accosciarci nel profumo di Anitra WC ed essere accecati dai riflessi dell’acciaio inossidabile dei rubinetti.
E così via.
Un Gambero Rosso (Gambero Zozzo?) degli sciacquoni, un Baedeker della coppa del cesso.
Avanti. Non fatelo perché lo dico io. Fatelo per Roma.

venerdì 6 giugno 2014

Breve storia imperiale del pane e pomodoro

G. Luca Chiovelli

Nel 1521, alla vigilia di Ferragosto, Hernan Cortés espugna Tenochtitlán, capitale dell'Impero Azteco. Quella che, per ammissione dello stesso Cortés, era la città più bella del mondo, viene rasa al suolo.
Il conquistatore lasciò ai posteri alcune considerazioni:

"Intendevo attaccarli e ucciderli tutti ... decisi di penetrare in città poco prima dell'alba e distruggere il più possibile ... la nostra foga di distruzione ... nelle strade si alzavano mucchi di cadaveri ... fummo costretti a camminarci sopra ..."

In appena mezzo secolo la popolazione del centro America collassò da 28 a 4 milioni.
I libri, i monumenti e la storia della civiltà mexica si dissolsero in polvere e cenere.
I sopravvissuti alla guerra, alla fame e alle pestilenze furono asserviti allo sfruttamento del Nuovo Reame di Spagna: piantagioni e miniere reclamavano con forza i loro schiavi.
I tesori dell'intelligenza e della terra, invece, vennero sequestrati e recati in Europa: oro, argenti, gioielli, vesti, uomini, bambini, animali, frutta e bacche esotiche: fra queste ultime lo xitomatl, succoso e giallo: un pomo rigonfio, dorato, dissetante, gustoso. In spagnolo xitomatl tramutò in tomatl, quindi in tomate (come in francese e tedesco) da cui l'inglese tomato. In italiano, ovvio, pomi d'oro.

In Italia il pomo d'oro arriva nel 1596 (a Napoli, la spagnola Napoli) e abbellisce i davanzali come pianta ornamentale. Fra le mani spagnole e italiane, ghiotte di incroci e varietà, la bacca diviene definitivamente rossa. E commestibile. La plebe se ne infischia dell'ikebana e scopre la novità americana. Chef, gourmet, filologi della salsa e dotti del cibo, invece, si svegliano lentamente dal torpore, sbadigliando sbadati, come il giovin signore di Parini: il grande cuoco Vincenzo Corrado nota (1815) che il popolo, irretito dallo stomaco, già abbina il pomo d'oro a maccheroni e pizza: trasfonde, perciò, la rivelazione nei suoi ricettari; Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino (1839), fine gastronomo, codifica il ragù; s'avanza, infine, il piatto transnazionale par excellence: la pizza, rossa di xitomatl, e riverberata in combinazioni innumerevoli.

A quelle date gli Aztechi sono già finiti nel cassetto a scomparsa della dimenticanza.
Nel 1992 Manuel Vázquez Montalbán, letterato, comunista e raffinato crapulone, entro le cui vene scorre - suo malgrado - il sangue bollente dei conquistatori, erompe in un divertente panegirico del pomodoro; o meglio: del pane e pomodoro:


"È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell'alimentazione umana. Piatto peccaminoso per eccellenza perché comprende e semplifica il peccato rendendolo accessibile a chiunque. Piatto peccaminoso in quanto può significare un'alternativa a tutto ciò che è trascendente, a tutto ciò che è pericolosamente trascendente, se diventa cultura della negazione. Non fate la guerra ma pane e pomodoro. Non votate per la destra ma mangiate pane e pomodoro. No alla NATO e sì al pane e pomodoro. Ovunque e sempre"

Ovviamente Montalbán (in quanto Montalbán: pace all'anima sua) non era tenuto a ricordare lo xitomatl; in quanto spagnolo forse sì; in quanto spagnolo e comunista sicuramente sì: eppure anch’egli dimenticò le ascendenze di un frutto talmente usuale sulle nostre tavole da farcelo ritenere europeo e di nostra proprietà, italiana o spagnola. E invece era il frutto - suo malgrado - di una rapina cruenta e abietta.


* * * * *

D'estate ci godiamo la caprese, l'insalata, e la sera, al ristorantino, una rassicurante pizza: capricciosa, rustica, boscaiola o, magari, napoletana (potremmo dire: spagnola).

Invitante, profumata; rossa di pomi d'oro: che, se ci pensate bene, e non conoscete Cortés, è un bel controsenso: ma come? Pomi d'oro, va bene, ma perché in realtà sono rossi, di un rosso evidente, plateale, inconfutabile? Cos'è questa storia?
Una storia beffarda, risponderemo, come la Storia maggiore: spietata, immemore, ingiusta.
Oggi i pomidoro per la nostra insalata e per la nostra pizza estive li raccolgono gli ultimi, come sempre - africani, disoccupati, inoccupati, bengalesi: sono, per il volgere del Saṃsāra dell'iniquità, gli schiavi e i vinti dei tempi a venire, i nuovi Aztechi.


* * * * *

Facciamo pace con Montalbán.
Montalbán, scrittore, comunista e crapulone, stringe la fetta di pane raffermo per impregnarla meglio d'olio. Con i polpastrelli delle dita esercita una dolce pressione sulla crosta della larga fetta: la mollica, perciò, già infracidita dai succhi dello xitomatl, s’imbeve di umori aciduli, salati e vellutati al tempo stesso.
Montalbán, sono sicuro, compiva questo gesto già da ragazzino, quando non era né comunista né scrittore né crapulone; e neanche l’ispirazione per un fittizio commissario siciliano di Vigata.

Stringere il pane, quello del pane e pomodoro, è, infatti, un gesto dettato non dall’esperienza, ma dall’olio.
Io e Montalbán, lo spagnolo Montalbán, l’abbiamo condiviso per decenni, senza conoscerci. Era l'olio, il filo d'olio, giallino, sottile, perfetto e implacabile - quello che stillava dalle vecchie caraffe di casa - a imporci tale liturgia gestuale.
L'olio d'oliva, comune alla Spagna e all'Italia da due millenni. Forse più. L'olio: più antico della Croce e della Beata Vergine Maria.
Le giare d'olio spagnolo, a milioni, sbarcavano a Roma almeno dai tempi del primo imperatore: Ottaviano Augusto; olio – milioni di tonnellate d'olio, per secoli - olio i cui contenitori - innumeri anch'essi - si accatastarono a Testaccio (ripetiamolo: per secoli!), sino a formare una collina - o un monte. Il Monte dei Cocci.
Per duemila anni (e più) gli antenati di Montalbán, e i miei antenati, strizzarono insieme il pane mollo d'acqua; e d'olio.
Duemila anni fa gli spagnoli erano i servitori di Roma e accudivano quei cespugli umili e senza pretese per noi, allora padroni del mondo (Te pido disculpas, Manuel).
Millecinquecento anni dopo sarà la volta degli Aztechi a servire: a rifornire i nuovi aguzzini (gli Spagnoli stavolta) di oro, stoffe, esseri umani e, dulcis in fundo, pomodoro (o xitomatl).
Un’ulteriore scorreria, insomma, ebbe a perfezionare la leggendaria semplicità del pane e olio per donarci pane, olio e pomodoro.
Furono necessari dieci congiurati (tre imperi, tre popoli, due continenti e due oceani, Atlantico e Mediterraneo), qualche milione di morti e quasi duemila anni per ordire il piatto dei poveri più sopraffino.

giovedì 8 maggio 2014

Laboratori di Officina poesia/Appunti VIII incontro



Antonia Pozzi
Giuseppe Ungaretti

appunti di Raethia Corsini

Tema: Progetto del laboratorio "La città poetica. Roma" 
           Conduce Sonia Gentili

Si definiscono le linee per la creazione di un lavoro "collettivo" partendo dal corpo

che è poesia mescolato alla e nella quotidianità: che cos'è il particolare, il luogo particolare. 


Le forme:
profumi
volumi e spazi
suoni
colori
persone
eventi
assenza
vuoto
non luoghi

Si leggono alcuni componimenti dei partecipanti. 
Gabriella con Sonia propone una selezione di poeti e poetesse 
che hanno scritto su Roma, da stranieri. 
Eccone due esempi. 

lunedì 28 aprile 2014

I cinema perduti di Roma / 1: le prime visioni nel marzo 1976



I cinema romani (di prima visione) in un giorno qualunque del 1976: il 4 marzo per l'esattezza. Ecco la programmazione, con indirizzo e costo del biglietto.
Ognuno riconosca i suoi caduti ... Airone, Astor, Roxy, Smeraldo ... 

Adriano, Piazza Cavour 22 (Prati)

L. 2000
Roma a mano armata

Airone, Via Lidia 44 (Appio Latino)
L. 1500
Rapporto al capo della polizia

Alfieri, Via Repetti (Casilino)
L. 1000
Roma drogata la polizia non può intervenire

Ambassade, Via Accademia degli Agiati 57 (Ardeatino)
Lire 1800
Un gioco estremamente pericoloso

America, via Natale Del Grande 5
Tel. 581.61.68
L. 1600
Roma drogata la polizia non può intervenire

Antares, Viale Adriatico 15 (Monte Sacro)
L. 1000
La supplente

Appio, Via Appia Nuova 56 (Appio)
L. 1200
Attenti al buffone!

Ariston, Via Cicerone 19 (Prati)
L. 2000
Colpita da improvviso benessere

Arlecchino, Via Flaminia 27 (Flaminio)
L. 2000
La nuora giovane

Astor, Via Baldo degli Ubaldi 134 (Aurelio)
L. 1500
Marlow il poliziotto privato

domenica 6 aprile 2014

Riflessioni poetiche sulla città




San Silvestro – Arco di Travertino

Sembrava che ubbidisse a un comandamento di gioia
la folla
sull’autobus, quell’ampia vasca
di lamiere fosfate e ventricoli
in moto: all’interno
del parallelepipedo rosso e arancio
un volume variabile di estranea bellezza
era scosso all’unisono
a causa dei salti delle gomme sui dislivelli
dell’asfalto,
così dal fondo della carne umana affioravano i dettagli
della vita
che altrimenti scorre misteriosa – le unghie
quadrate e bianche di un ragazzo, la sciarpa
della ragazza con le scarpe rosse, qualche improvviso
rischiararsi del volto nascosto
da uno zainetto a fiori – e altre cose
improvvisamente evidenti
di corpi destinati a non conoscersi
ora emergevano dall’indistinto come sonagli
d’amor proprio
ma sopra tutto era la gentilezza
a rivelarsi, l’invincibile e definitiva
gentilezza umana

Maria Grazia Calandrone



Roma, all’improvviso, notte

buio improvviso. il sole
splende sui tetti e non al suolo. il giorno
si capovolge come uno scarabeo
d’oro. sfolgora il metallo delle gru,
i meccanismi e i giunti unti di sole
colano pioggia d’oro.
una grandine chimica, innaturale, incrina
il contratto sociale del cielo
con gli uomini. i palazzi di Roma popolare, della mia bella Roma
contro il sereno: un paradiso caduto
sotto la fiamma liquida del cielo. il cielo butta
da una piaga sulfurea
un rovescio squillante di gabbiani: un luccichio scontento
di ali fatte per capire il mare
batte
pochi metri più in alto
del suolo, quasi che le nuvole si siano chinate
a calare uno sconforto solo terrestre e l’azzurro ne resti tutto
indifferente, scosceso di luce
nel gelo imperscrutabile del padre

Maria Grazia Calandrone



Serata in ghetto (il Greco)

Il blu incastrato di lato nella notte
come un ala o un auto parcheggiata male

la bocca del divieto, tonda
e sbarrata, muta nel buio
come l’infrazione

un’auto blu sotto la lettera di dio sul sonno
del carabiniere, un’auto nera maritata al muro: sotto
c’è l’argine e poi il fiume

hai benedetto schiuma
sul fiume tossico
e furioso, basso nella sua corsa
come un topo, tu, luna del ghetto, e il disco
gemello del semaforo che è rotto, e il ponte
che per metà è in rovina. Tu splendi fino ai morti e sai cosa si lascia
vivendo: perciò ha un breve sorriso il tuo silenzio. Sai che la luce brilla
come il buio: perciò gli scemi la cercano
nel buio. Il Greco, il sopravvissuto, il mentitore
nel lungo viaggio dalla guerra a dove, a quale tempo imboscato
nella sera, a quale presente
o cronaca
o finzione
a quale topo annegato in questo fiume
                                                
Sonia Gentili



Porta Latina (i bastioni del mondo)

Nello sbiancato agosto, alti sul moto
cieco delle automobili, i bastioni
del mondo sono bianchi

bianchi essi soli, nel pallore
di stracci o metalli che tornano alla polvere
del sole, alti come il silenzio tra i tralicci, tra le braccia
morte dei lampioni, ed essi soli rifugio
degli uccelli, dei fatali ritorni
dalle guerre, dell’orina
preistorica di cani che fiutano presagi
di battaglie, dei volti asciutti
di antiche soldataglie che stanno ancora, invisibili, al piantone: morte
sentinelle che scrutano guerre
di polvere e luce
all’orizzonte

una colonna di polvere
e luce: il glicine
è lo scettro del balcone
prossimo al crollo

il viola quasi bianco del suo fiore annuncia
Porta Latina

il grande volto bianco della porta 
rivolto all’orizzonte, a eterni fragori di luci
che sono polveri di morti, non sa che dalla sua bocca
vuota è sorta come un castello infero la strada: vuota
perché affollata di sepolture, di perdite
di attese

Porta Latina di polvere
e luce

Sonia Gentili




Questo testi introducono il tema che verrà trattato nel pomeriggio del 7 aprile 2014 dalle ore 17.00 da Plautilla nell'incontro del Laboratorio di 
Officina Poesia, come sempre coordinato da Sonia Gentili. Parteciperà Mariagrazia Calandrone. 
Intorno alla tematica della città prenderà corpo il progetto collettivo finale dei Laboratori di Officina poesia 2014. 

sabato 25 gennaio 2014

"Ascolta, Roma, regina bellissima del mondo che è tuo ...". Un requiem

Il magnifico portale barocco presso le Mura dei Francesi, a Ciampino, opera dell'architetto secentesco Rainaldi, "noto per aver progettato palazzo Pamphili a Piazza Navona e terminato i lavori del Campidoglio dopo la morte di Michelangelo". Un decreto ministeriale lo mise sotto tutela nel 1935. Almeno sino al 2011.
Lo stesso portale dopo il crollo del 2011. "Qualcosa deve essere stato trascurato nella difesa della nostra patria ... con i barbari non si può parlare, non conoscono la nostra lingua e non ne hanno una loro ... il nostro modo di vivere e le nostre abitudini sono loro tanto incomprensibili quanto indifferenti" (F. Kafka, Un vecchio foglio). Dall'epistolario di Rainer Maria Rilke: "Per i nostri avi, una casa, una fontana, una torre loro familiare, un abito posseduto erano ancora qualcosa di infinitamente di più che per noi, di infinitamente più intimo, quasi ogni cosa era un recipiente in cui rintracciavano e conservavano l'umano. Ora ci incalzano dall'America cose nuove e indifferenti, pseudo-cose, aggeggi per vivere. Una casa nel senso americano, una mela americana, o una vite americana non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo in cui erano riposte le speranze e la ponderazione dei nostri padri". Ma Rilke, nel 1920, peccava di poca lungimiranza. A differenza di Kafka.
Una statua della Villa di Marco Valerio Messalla, sempre a Ciampino. Una metafora della distruzione. "Roma non perit, si Romani non pereant", si diceva. Purtroppo i Romani la pensano diversamente. Ed Ecco Rutilio Namaziano, da Il ritorno:

"Non si possono più riconoscere i monumenti dell’epoca trascorsa,
Immensi spalti ha consunto il tempo vorace.
Restano solo tracce fra crolli e rovine di muri,
Giacciono tetti sepolti in vasti ruderi.
Non indignamoci che i corpi mortali si disgreghino:
Ecco che possono anche le città morire"

martedì 22 ottobre 2013

Roma è un uomo

Raethia Corsini
Sono una delle tante romane adottive. In questa città eternamente bella e eternamente inamovibile, ci sono arrivata nel 2006 come mi è già capitato di raccontare. Grande amore. Durato, come ogni grande amore, tre anni di passione accecante, seguiti dal risveglio post incantamento, da attese disattese, da piccole illusioni che tali si sono rivelate, da sorprese come tali impreviste ma spesso liete, da liti furibonde, pacificazioni languide e ruffiane, dichiarazioni d'amore sincero e adulto seguite da minacce di separazione all'ultimo coltello o fiammifero, a memoria di gladiatori o del Nerone che fu. La relazione è ancora in corso. Abbiamo superato i fatidici sette anni, ritenuti vox populi il break event point dell'amore. Ora ci guardiamo reciprocamente senza incanti, ma un sentimento via via più profondo si sta facendo strada. Si sta profilando un'intesa che passa attraverso la conoscenza dei reciproci limiti, non più solo attraverso il desiderio di piacersi. Anche perché lei, Roma, è granitica come un bell'uomo che sa di esserlo e non fa il minimo sforzo per com-piacerti. Lui è bello, tutti cadono ai suoi piedi statuari e questo basti anche a te, partner del momento.

venerdì 21 giugno 2013

Letti di notte 2013. La notte bianca dei libri

La prima notte d’estate è la notte dei libri. Oggi, 21 giugno, saranno molte le iniziative legate alla notte bianca della lettura. A Roma, ma anche a Torino e Milano, in Toscana e in Emilia Romagna, come in altre città estere si festeggia l’inizio della bella stagione con una notte da dedicare ai libri e non solo. Al modo in cui vengono letti, alla maniera in cui vengono scritti, all’intelligenza con cui vengono pensati, alla fantasia con cui vengono raccontati.
Le case editrici in collaborazione con le librerie indipendenti e le biblioteche proporranno un vasto assortimento di eventi, perfomance, incontri.
Idee particolari, accostamenti originali, letture classiche, libri da ascoltare o da immaginare.
A Roma ci saranno reading espressionisti e reading collettivi e condivisi; attori che presteranno la loro voce per audiolibri dal vivo; racconti scritti ad hoc; danze e letture magiche come quelle dei tarocchi; autori presentati e autori presentatori; esperti traduttori e musiche improvvisate; deliri narrativi e oratori; generi letterari tinti di nero e di giallo; scimmiette letterarie e compleanni noir; letture bendate e degustazioni visive; abitudini scrittorie e favole prima di andare a dormire.
Ognuno potrà scegliersi un libro su misura, in una sola notte.

Link utili:


giovedì 6 giugno 2013

Quando Flaiano telegrafò: "Obelisco"

Autoritratti di Amerigo Bartoli
e Vincenzo Cardarelli. Sotto,
Flaiano in un disegno di Bartoli
In questa pagina tratta dall'Almanacco dell'Altana (1995) i ricordi di un vecchio libraio che per me è stato solo mio padre (antonio sforzini)

Vittorio Sforzini
La mattina andavo a via Veneto per aprire la libreria Rossetti nella quale avevo incominciato a lavorare nei primi giorni del luglio 1944. C'era, allora, a causa del coprifuoco, I'orario unico fino alle quattordici e non esistevano mezzi di trasporto pubblico. Ero riuscito a procurarmi una vecchia bicicletta senza freni, tenuta insieme più che altro dalla ruggine. Il ritorno, in discesa, mi compensava della faticaccia dell'andata. Peppino (Rossetti) arrivava più tardi dopo aver visitato le librerie antiquarie, oggi scomparse, di Camerlengo in via del Babuino e dell'ingegnere Gerra in via di Propaganda Fide: trovava quasi sempre qualche conveniente acquisto.la libreria iniziò la sua attività occupando i Iocali, abbastanza vasti, che erano stati dell'Artigianato Libico, ma poco dopo, per varie ragioni, si restrinse in un vano piuttosto piccolo acquistando una intimità da boutique del libro. Via Veneto aveva, allora, una sua fisionomia e, anche se i giudizi che se ne davano erano diversi, sembrava che dovesse rimanere immutabile nel tempo. Una volta gli autentici intellettuali difficilmente erano soliti fermarsi a via Veneto e soltanto da Rosati c'era qualche tavolo in cui era possibile riconoscere alcuni scrittori, giornalisti e critici d'arte che abitavano nelle vie adiacenti.
L' idea di mettere una libreria a venti passi da Rosati venne ad un esperto e notissimo librario romano: Giuseppe Rossetti. Lo seguirono i suoi affezionati clienti di quando lavorava nella vecchia e gloriosa libreria Modernissima in via delle Convertite, adiacente alla famosa "Terza Saletta" del caffè Aragno. La libreria era piccola, ma aveva due poltroncine attorno a un tavolinetto con riviste, giornali e portacenere. Scaffali alle pareti, un tavolo bacheca, e uno sgabuzzino in fondo.

domenica 2 giugno 2013

MVL cinema: Sorrentino, bellezza e decadenza

Patrizia Vincenzoni
Il sesto film del regista Paolo Sorrentino è una pellicola e un'esperienza di per sé visionaria, sensoriale, a tratti onirica e surreale, attraversata da una venatura pop che il montaggio accentua,  cosi come i movimenti di camera, così rapidi e condensati da lasciare senza respiro. La citazione di Céline riportata all'inizio ci introduce in questo viaggio immaginario ma realistico, nel quale il tempo ha perduto ogni sacralità a favore di un tempo profano che percorre in senso laico la trama del film, intersecando accenni di esistenze che restano tali. Una parata di personaggi, ormai macchiette di se stessi, che si muovono nella location di una Roma mozzafiato esaltata dalle luci e dai riflessi, anche notturni, delle architetture che ne perimetrano gli spazi vuoti di 'persone'. Queste apparenze popolano feste, su terrazze panoramiche, ridotte a ritualizzazioni di un divertimento fasullo, che sembra trasformarsi in una metaforica camera iperbarica di suoni e balli di gruppo, orfani finanche di quegli atteggiamenti tribali che riescono a produrre aggregamento, unione. Le solitarie passeggiate notturne a ridosso dell'alba che il personaggio principale, interpretato da Tony Servillo, compie nel tornare a casa dopo questi baccanali, sono occasioni di incontri casuali e sfuggenti che gli restituiscono comunque lampi di percezioni, sensibilità e un contatto con un'umanità ordinaria e, dunque, ancora viva.

venerdì 10 maggio 2013

Una montagna di talenti per il sindaco Siddharta

L'inaugurazione di Plautilla
Nicola Lagioia
Se gli anni Novanta a Roma hanno testimoniato la fioritura dell'editoria indipendente (case editrici come Fazi, Castelvecchi, minimum fax, Fanucci, Voland, Fandango dimostrarono all'epoca la possibilità di un altro mondo rispetto ai grandi gruppi del nord), questi primi scorci di XXI secolo sono stati una continua esplosione di iniziative culturali nate dal basso. Dal teatro al cinema alla musica fino al piccolo ma attivo mondo delle riviste, per non parlare delle librerie indipendenti, dei circoli di lettura, dei festival e dei laboratori, Roma in questi anni è stata un ribollire di iniziative che puntavano tutto sui sacrifici di chi con la cultura lavora quotidianamente, e poco, in certi casi nulla, su coperture istituzionali degne della città che vorremmo essere.
Chi sarà sindaco dopo le elezioni di fine maggio, è bene che comprenda la natura del privilegio che gli è toccato: presidiare la stanza dei bottoni di una delle città potenzialmente più attive sul piano culturale. Ma è anche necessario (guardando al lungo sonno dell'amministrazione ora in scadenza) che il nuovo primo cittadino avverta il rischio di poter essere lui, questa volta, a far sì che la montagna di talenti da cui siamo circondati partorisca un topolino.
Non ci vuole molto perché un'amministrazione incompetente trasformi in deserto una prima fioritura. Basta finanziare i progetti sbagliati, preferire i fedelissimi ai capaci, e soprattutto non conoscere il campo in cui agisce.
Come Siddharta prende coscienza del 
mondo quando abbandona il castello in cui è cresciuto, al nuovo sindaco direi: "Venga fuori dal Palazzo!" Ammesso che accetti il consiglio, lo porterei in giro per Roma, facendogli vedere posti che non conosce, o che conosce forse in quanto voce di campagna elettorale. 

giovedì 25 aprile 2013

Nell'estetica di Newton l'edonismo della nuova borghesia

Il primo scatto d’autore di Helmut Newton, un nudo dell’attrice Charlotte Rampling, è così descritto: “La linea sinuosa della schiena, con lo sguardo fisso in camera. Nuda, vestita solo della sua bellezza, tra l'opulenza di un arredamento d'alto antiquariato”. Una notazione preziosa poiché riassume in un guscio di noce tutta l’estetica del fotografo berlinese (e americano d’adozione), turgida di cattivo gusto e altrettanto vincente nell’assecondare il montante edonismo delle nuove classi borghesi.
Non sappiamo se fu cosciente di tale complicità (in tal caso fu uomo assolutamente astuto) o se fu uno dei casi in cui l’esprit du temps riesce a concretarsi nella produzione individuale di un artista di sensibilità superiore. In entrambi i casi va riconosciuto alle sue creazioni un rilievo sociologico e documentario di assoluto livello pur nell’insignificanza artistica.
Fu sicuramente un precursore. Egli nacque nell’ambiente della moda (pubblicò in gran parte su Vogue) e, quindi, della pubblicità; e dalla pubblicità trasse l’unica, ma potentissima linea guida del proprio operare: épater le bourgeois, sbalordire il borghese, la nuova massa. In pochi anni, infatti, a partire dalla metà dei Sessanta, in tutto il mondo occidentale (con ritardi più o meno accentuati fra le varie nazioni), i ceti medi abiurano definitivamente le vecchie ideologie di riferimento (famiglia, stato, religione) sostituendovi un  permissivismo consumista e totalizzante. Il borghese si ritrova quindi libero da reticenze e lacci morali fino a poco tempo prima asseriti da autorità secolari: il nuovo cielo è libero da nubi; ciascuno può osare tutto, purché consumi, ovvio.
Newton attizza le pulsioni del nuovo individuo in libera uscita dall’antico ordine morale sostanzialmente in due modi.

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