mercoledì 14 ottobre 2015

Conflitti rimossi e sempre aperti in "Adua" di Igiaba Scego


Valerio De Simone
Ambientato tra le città di Roma e Magalo, in Somalia, lungo un arco di tempo che va dagli anni Trenta fino ai giorni nostri, l'ultimo romanzo di Igiaba Scego ha per protagonisti Zoppe e sua figlia Adua (da cui il libro, appena uscito per Giunti, prende nome), i quali, in epoche differenti, narrano al lettore le loro esistenze mettendo in luce cosa significhi essere un migrante, uno straniero. A differenza del suo primo romanzo Rhoda (Sinnos, 2004), con Adua Scego sceglie quindi di raccontare - per dirla con le parole di Gayatri Chakravorty Spivak - la subalternità dei soggetti coloniali.
Il termine sottomissione è infatti elemento comune nelle vite degli eroi. Grazie al lavoro di interprete, Zoppe riesce a coronare il suo sogno di raggiungere Roma, città da lui venerata. Ma come accadde per il soggiorno romano di Giacomo Leopardi, ne rimane profondamente deluso. Mentre sua figlia, l’aspirante attrice Adua, viene “presentata” nella grande città come Saartjie Baartman la Venere ottentotta, con la promessa di divenire una diva di Cinecittà. A incrinare il loro rapporto con la città sono le violenze che subiranno in primis sui loro corpi. Zoppe viene brutalmente picchiato e arrestato dai fascisti in quanto “negro”, mentre il corpo della giovane, come una colonia, verrà brutalmente “conquistato e defraudato” da produttori cinematografici e magnati dell’ambiente. L’elevazione a feticcio della giovane donna per il suo carattere “esotico” mostra come i “saccheggi” dei colonizzatori italiani non siano cessati con l’indipendenza della Somalia (1960), aprendo così a una lunga stagione di neocolonialismo.
Divenuta adulta e ormai matura, Adua, il cui nome è stato scelto dal padre per ricordare «la prima vittoria africana contro l’imperialismo» (battaglia a cui il regista Haile Gerima ha dedicato nel 1999 il film Adwa – An African Victory),  assiste ai nuovi flussi migratori che interessano il mediterraneo e quindi l’Italia. Sceglie così di sposare un giovane somalo in fuga dalla povertà e dal conflitto, emblematicamente soprannominato Titanic. «Io lo so che Titanic – dice il giovane somalo a sua moglie - è un film dove tutti muoiono. Ma ricordati che io non sono morto». In realtà la loro relazione sembra essere più quella di una madre con un figlio che di due amanti. E consapevole che il ragazzo non è davvero innamorato di lei, e presto “spiccherà” il volo verso altri luoghi più ospitali, alla donna non resta che cercare nella città di Roma un conforto confidandosi con l'elefantino del Bernini e  raccontando alla statua silenziosa la propria storia, le speranze, i sogni, i rimpianti.
Roma insomma, con le sue architetture, le sue strade e le sue storie, non è solo uno sfondo neutro alle vite dei nostri eroi, ma si fa parte attiva allo svolgersi delle loro azioni fino a diventare un personaggio a parte intera. Proprio la capitale, dove le tracce del colonialismo italiano sono tuttora evidenti come Scego ha splendidamente mostrato in Roma negata – Percorsi postcoloniali nella città (Ediesse, 2014), si trasforma da miraggio di speranza in un luogo freddo e poco sicuro.
Caratteristica distintiva del romanzo, e in generale dell’intera opera del’autrice, è la presenza dell’ibridismo linguistico tra italiano e somalo (ovviamente corredato da un glossario finale), che sottolinea - come già Gloria Anzaldùa aveva fatto in Terre di confine/La Frontera (Palomar, 2000) - le numerose identità del soggetto migrante, il suo appartenere contemporaneamente a due culture: una del colono, l’altra del colonizzatore.
Dunque Adua è una storia che ci racconta di conflitti mai terminati, di migrazioni, di imperialismo, del colonialismo italiano «uno dei grandi rimossi della storiografia del nostro paese», di neocolonialismo, di sfruttamento dei corpi, ma soprattutto di sogni, spesso infranti, e di speranze.

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