Valerio De Simone
Ambientato tra le città di Roma e Magalo, in Somalia, lungo un arco di tempo che va dagli anni Trenta fino
ai giorni nostri, l'ultimo romanzo di Igiaba Scego ha per
protagonisti Zoppe e sua figlia Adua (da cui il libro, appena uscito per Giunti, prende nome), i quali, in
epoche differenti, narrano al lettore le loro esistenze mettendo in luce cosa significhi essere un migrante, uno straniero. A differenza del suo primo romanzo Rhoda
(Sinnos, 2004), con Adua
Scego sceglie quindi di raccontare - per dirla con le parole di Gayatri
Chakravorty Spivak - la subalternità dei soggetti coloniali.
Il termine sottomissione è infatti elemento comune nelle vite degli eroi. Grazie al lavoro di interprete, Zoppe riesce a coronare il
suo sogno di raggiungere Roma, città da lui venerata. Ma come accadde per il soggiorno romano di Giacomo Leopardi, ne rimane profondamente
deluso. Mentre sua figlia, l’aspirante attrice Adua, viene
“presentata” nella grande città come Saartjie Baartman la Venere
ottentotta, con la promessa di divenire una diva di Cinecittà. A
incrinare il loro rapporto con la città sono le violenze che
subiranno in primis sui loro corpi. Zoppe viene brutalmente
picchiato e arrestato dai fascisti in quanto “negro”, mentre il
corpo della giovane, come una colonia, verrà brutalmente
“conquistato e defraudato” da produttori cinematografici e
magnati dell’ambiente. L’elevazione a feticcio della giovane
donna per il suo carattere “esotico” mostra come i “saccheggi”
dei colonizzatori italiani non siano cessati con l’indipendenza
della Somalia (1960), aprendo così a una lunga stagione di
neocolonialismo.
Divenuta adulta e ormai matura,
Adua, il cui nome è stato scelto dal padre per ricordare «la prima
vittoria africana contro l’imperialismo» (battaglia a cui il
regista Haile Gerima ha dedicato nel 1999 il film Adwa
– An African Victory), assiste ai nuovi flussi migratori che interessano il
mediterraneo e quindi l’Italia. Sceglie così di sposare un
giovane somalo in fuga dalla povertà e dal conflitto,
emblematicamente soprannominato Titanic. «Io lo so che Titanic
– dice il giovane somalo a sua moglie -
è
un film dove tutti muoiono. Ma ricordati che io non sono morto». In realtà la loro relazione sembra essere più quella di una madre con un
figlio che di due amanti. E consapevole che il ragazzo non è davvero innamorato di lei, e presto “spiccherà” il
volo verso altri luoghi più ospitali, alla donna non resta che
cercare nella città di Roma un conforto confidandosi con l'elefantino del Bernini e raccontando alla statua silenziosa la propria storia, le speranze, i sogni, i rimpianti.
Roma insomma, con le sue architetture, le sue strade
e le sue storie, non è solo uno sfondo neutro alle vite dei nostri
eroi, ma si fa parte attiva allo svolgersi delle loro azioni fino a diventare un personaggio a parte intera. Proprio la capitale, dove le tracce del colonialismo italiano sono tuttora evidenti come
Scego ha splendidamente mostrato in
Roma negata – Percorsi postcoloniali nella città
(Ediesse, 2014), si trasforma da miraggio di speranza in un luogo freddo e poco sicuro.
Caratteristica
distintiva del romanzo, e in generale dell’intera opera
del’autrice, è la presenza dell’ibridismo linguistico tra
italiano e somalo (ovviamente corredato da un glossario finale), che
sottolinea - come già Gloria Anzaldùa aveva fatto in
Terre di confine/La Frontera (Palomar,
2000) - le numerose identità del soggetto migrante, il suo appartenere
contemporaneamente a due culture: una del colono, l’altra del
colonizzatore.
Dunque
Adua
è
una storia che ci racconta di conflitti mai terminati, di
migrazioni, di imperialismo, del colonialismo italiano «uno dei
grandi rimossi della storiografia del nostro paese», di
neocolonialismo, di sfruttamento dei corpi, ma soprattutto di
sogni,
spesso infranti, e di speranze.
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