Maria Cristina Reggio
Tre sorelle con un destino comune: una vita, anzi, una Villa
dolorosa. Questo è infatti il titolo dello spettacolo inaspettatamente
brillante (a dispetto del titolo) di
Roberto Rustioni che conclude la
XXII edizione di
Le vie dei Festival e contemporaneamente apre la nuova stagione del Teatro Vascello di Roma. Queste
"Tre sorelle" hanno gli stessi nomi Olga, Mascha e Irina, delle
protagoniste dell'omonimo dramma che Cechov scrisse all'alba del 1900, e hanno
un pure un Andrej come fratello, ma condividono (come suggerito palesemente dal
titolo) con quelle che potrebbero essere state le loro bisnonne uno stesso
sentimento, il dolore di vivere. L'autrice di questa riscrittura contemporanea
della pièce cechoviana è una giovane drammaturga tedesca classe 1974, Rebekka Kricheldorf, che trasforma i russi figli orfani di
un generale di provincia in altrettanti figli di una coppia di intellettuali
tedeschi, morti da poco in un incidente stradale e proprietari di una villa in
rovina. La morte dei genitori sovrintende sulla vita dei figli a loro
sopravvissuti, giovani e non più giovani, con nomi e destini simili a quelli
dei loro modelli di inizio Novecento.
Il testo, scritto sulla traccia dell'originale
russo, ne dilata alcuni temi, come la festa di carnevale che apriva il dramma e
che diventa una festa di compleanno di Irina ripetuta per tre anni successivi e
ne prosciuga altri, come i personaggi esterni alla famiglia che diventano solo
due, un maschio Georg (lo stesso regista, Roberto Rustioni), il maschio fascinoso
emblematico e sorprendente per quella famiglia e una femmina, Janine, anch'essa
in qualche modo paradigmatica di una femminilità estranea al nucleo famigliare.
Nella regia di Rustioni, che con questa opera continua il suo percorso di
ricerca su Anton Cechov, iniziato qualche anno fa con i Tre atti unici,
e proseguito all'interno di un percorso laboratoriale sfociato in questo
spettacolo, il testo ambientato in Germania si impregna dell'esperienza vissuta
da un gruppo di giovani della capitale con il loro strascinato linguaggio romano
fino a diventare lo squarcio spazio-temporale di vita di un piccolo gruppo di ragazzi,
tanto simile alla vita vera da ricordare agli spettatori la formula conosciuta
del "grande fratello" o di una probabilissima e poco esotica "isola
dei famosi". E in effetti il
paragone non è casuale: lo stile della recitazione improntato a un forzato
realismo linguistico privilegia il turpiloquio che caratterizza l'ostentata povertà
di linguaggio tipica di quei reality televisivi in cui una finta realtà si
esibisce al posto dell'autentica finzione teatrale per testimoniare la
necessità di coloro che vi partecipano, di esistere, come personaggi, almeno
nella rappresentazione.
Le "sorelle"che improvvisano per la
platea le loro danze etiliche su corredo di musica dello "stereo"
lanciata "a palla" ricordano le stesse danze compiute dai personaggi
dei reality di fronte all'occhio vigile e
vertoviano della telecamera e il loro balletto apparentemente compiuto in
solitudine come di fronte a uno specchio
è fatto consapevolmente per essere goduto da un pubblico televisivo di una
telecamera nascosta, indulgente e divertito di fronte alle storture di una
goffa danza improvvisata, come pure le battute divertentissime di una comica
Olga, brava e icastica come il personaggio comico di un varietà televisivo. A
parte qualche banalità di routine ormai in molti spettacoli contemporanei come le
inutili proiezioni video e l'intrusione fastidiosa di alcuni inserti musicali pop
ad alto volume, questi frammenti di dolorosa vita famigliare cechoviana colpiscono
con efficacia gli spettatori a cui si rivolgono attraverso la sottigliezza
comica che, nello scoppio delle sommesse risate svela, nel dipanarsi di
situazioni tanto conosciute quanto quotidiane, la difficoltà degli affetti,
delle relazioni umane e delle scelte di una vita vuota, inutile, straziata.
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