G. Luca Chiovelli
Oltre
il viale si allarga. Ecco la piazzetta, dove il 495 si trascina a girare
impacciato e lento come un bacarozzo. Edifici tirati a nuovo si alternano a
quelli diruti; le finestre murate sono bocche impedite nel racconto. A
perpendicolo, rispetto al cammino, dipartono i vicoli: Via dei Laterizi, Via
delle Ceramiche, Via degli Embrici, Via delle Campigiane; una toponomastica
lieve e dolcissima che incapsula la memoria degli eventi come l'ambra fa con
gli insetti.
Si scorgono architetture insolite, in cui l'amore degli abitanti
nulla concede alle secchezze del funzionalismo. La cura quotidiana arrotonda
gli spigoli, si concede spazi inusitati fra le tramezzature. Ecco le porte, gli
infissi di legno, le persiane verdi, i terrazzini che traboccano di fiori, i civici
decorati incassati nelle mura. A destra le fabbriche ormai barrate, le fornaci
spente; dagli opifici deserti, la seconda ciminiera sopravvissuta punta verso
un cielo che si compone nelle striature dei cirri.
Le fornaci spente
|
Ancora
avanti il lastrico del viale si sfibra lentamente nello sterrato del parco, qui
ancora arruffato e selvaggio; una barra semovente segna il confine fra
l'abitato e la vegetazione quali diverse regioni della coscienza. La
oltrepasso. Al di là il campo da gioco della squadra Valle Aurelia.
Abbandonato
anch'esso, ma ancora visibile. Sopravvivono le strutture dei riflettori,
altissimi: altane da cui custodire un segreto dimenticato. A lato, un roveto
inestricabile avviluppa gli scheletri metallici degli spalti come misteriosi
reperti precolombiani. Ancora in piedi: un casotto. Del campetto sopravvive una
sola porta: i tre pali metallici disegnano un rettangolo fatale che inquadra,
desolato, il nulla.
Il
silenzio è assoluto.