Il 10 maggio 1933 sull'Opernplatz di Berlino i nazisti organizzarono un gigantesco rogo di libri "contrari allo spirito tedesco". Per ricordare quella giornata, stasera, 9 maggio 2013 (dal 1950 anche festa dell'Europa) il Teatro Argentina di Roma apre a partire dalle 21.30 le sue porte per una notte dei libri, una chiamata collettiva per restituire voce e
immagini ai testi che i nazisti vollero cancellare con i loro roghi. Riprendendo il titolo italiano di Feu la cendre di Jacques Derrida, Ciò che resta del fuoco è la sigla che si è scelto di dare a questa serata realizzata da lacasadargilla e da Muta Imago, ma aperta a tutti i cittadini che vorranno partecipare.
La scrittrice tedesca Elfriede
Brüning è oggi una vecchia signora avviata a compiere in novembre 103 anni. Nel '33 era una giovanissima giornalista comunista e assistette con orrore al terribile falò berlinese. Un ricordo che sarebbe rimasto per lei incancellabile, come testimonia la conferenza che la scrittrice tenne nella capitale tedesca dieci anni fa e di cui riportiamo qui un ampio stralcio:
"Sono
passati settant'anni da allora, il tempo d'una vita. Eppure ho
davanti agli occhi le immagini di quel giorno funesto, come se fosse
ieri. Ero andata anch'io sull'Opernplatz di Berlino, non per il gusto
del sensazionale, tantomeno con l'entusiasmo dei tanti curiosi
intorno a me, venuti per assistere all'orrendo spettacolo. Già da
giorni la stampa aveva annunciato che oggi, 10 maggio 1933, ci
sarebbe stato un grande rogo di libri, a conclusione della campagna
propagandistica «contro lo spirito antitedesco» organizzata
dall'associazione degli studenti. Manifestazioni analoghe erano state
indette in tutte le città universitarie. A Berlino la polizia e le
SA (Sturmabteilung, la milizia del partito) avevano chiuso
preventivamente l'accesso alla piazza di fronte alla
Humboldt-Universität. Ma adesso la folla poté oltrepassare i
cordoni, spingersi avanti fino alla catasta di legna che si ergeva in
un riquadro al centro della piazza, illuminato a giorno dai
riflettori. Quanti non riuscirono a conquistare un posto in prima
fila si aggrapparono alle sbarre che proteggevano le finestre dei
palazzi adiacenti, un po' appesi alle inferriate, un po' seduti sui
davanzali.
Una gigantesca croce uncinata decorava la tribuna
su cui si susseguivano giovanotti, studenti, tutti in uniforme delle
SA. Gettavano nelle fiamme pile di libri, presi da carri che ne
portavano sempre di nuovi, pronunciando invettive. «Contro il
decadentismo e la corruzione dei costumi», declamava uno che teneva
in mano libri di Heinrich Mann e Erich Kästner; «Contro il
giornalismo antinazionale, di impronta democratico-giudaica»,
strillava un altro all'indirizzo di autori come Georg Bernhard e
Theodor Wolff.
A un tratto i ragazzotti si fecero da parte per
far posto a un ometto esile, Josef Goebbels, il ministro della
propaganda in persona, appena sbarcato da un'auto sopraggiunta a gran
carriera. Era lui adesso a strillare sulla folla, con la voce che
minacciava di rovesciarsi in falsetto: «Getto alle fiamme i libri
degli ebrei e degli istigatori del popolo, di Heine, Brecht e
Feuchtwanger, di Thomas e Heinrich Mann...», finché la sua voce non
fu sopraffatta dalle urla della massa inneggiante.
Mi sentivo
persa in quel bailamme, come se un'ondata mi stesse sommergendo: solo
a fatica riuscivo a resisterle, in piedi. Le fiamme del rogo salivano
sempre più alte. Larghi fasci di scintille serpeggiavano su per il
cielo. Dense nubi di fumo coprivano la piazza, avvolgendomi e
togliendomi il respiro. La banda musicale delle SA intonò «Popolo,
alle armi» (Volk ans Gewehr), e tutti quelli che mi attorniavano si
unirono al coro, con voce tonante. Che ci facevo là in mezzo? mi
chiedevo disperata. Perché stavo lì?
Eppure sapevo che
dovevo restare. Ero andata per un motivo preciso. Speravo che anche
altri dei nostri fossero venuti, per essere testimoni di questo
oltraggio alla cultura, su cui dovevamo cercare di informare la
stampa estera. «Noi» eravamo un gruppo di giovani autori, tutti
all'inizio della loro pratica letteraria. Facevamo parte della «Lega
degli scrittori proletari rivoluzionari», cui appartenevano autori
già celebri come Johannes R. Becher, Anna Seghers, Bert Brecht e
Ludwig Renn. A febbraio, quando volevamo incontrarci ancora una volta
alla Enckestrasse, il nostro luogo di riunione, trovammo l'edificio
occupato dalle SA e dovemmo disperderci in fretta per non essere
arrestati, perché la «Lega» era stata vietata subito dopo
l'avvento al potere di Hitler. Il 27 febbraio c'era stato l'incendio
del Reichstag. Da allora si era scatenato l'inferno. I nazisti, che
verosimilmente lo avevano appiccato, accusarono dell'incendio i
comunisti. Un comodo pretesto per scatenare la caccia a tutti i
comunisti, socialdemocratici, pacifisti, perfino ai testimoni di
Jehova. A migliaia vennero strappati dai loro letti, trascinati nelle
famigerate caserme delle SA e sottoposti a brutali sevizie
(...).
Oggi, quel 10 maggio 1933, noi antifascisti eravamo
ancora sotto lo choc dei terribili eventi delle settimane precedenti.
Tanti di noi erano già stati arrestati: tra loro Ludwig Renn, Carl
von Ossietzky, l'anarchico Erich Mühsam, Hermann Duncker, il noto
studioso marxista Klaus Neukrantz, Kurt Kleber e Egon Erwin Kisch.
Quest'ultimo i nazisti dovettero tuttavia rilasciarlo, in seguito
alle proteste cèche; fu espulso verso la Cecoslovacchia. Chi ne
aveva la possibilità aveva cercato di passare il confine per
mettersi in salvo. A Praga si erano già rifugiati Johannes R.
Becher, Anna Seghers e Wieland Herzfelde.
A casa di Hans
Schwalm, che coordinava il nostro gruppo, si erano susseguite diverse
perquisizioni. Schwalm evitava la sua abitazione e si teneva
nascosto, dopo aver distrutto tutte le carte compromettenti,
portroppo anche le liste degli iscritti. Da allora avevamo perso i
contatti, ci sentivamo orfani, lasciati ognuno a se stesso. Non
conoscevo gli indirizzi dei miei amici. Come rintracciarli se non per
un incontro fortuito, magari in occasione dello spettacolo di quel
giorno?
Il rito si avvicinava alla conclusione. La banda
taceva, anche il crepitìo delle fiamme s'era attenuato. Dai quattro
lati della piazza vennero avanti carri dei pompieri. Scesero
tirandosi dietro i tubi degli idranti, per spegnere gli ultimi
bagliori. Stavo cercando di farmi largo verso il viale Unter den
Linden, sbracciandomi per tagliare la folla davanti a me, quando
sentii una pressione sul braccio. Hans! «Ci sono anche gli altri»,
mi sussurrò. «Non li hai visti?» Seguendo i suoi sguardi, li
scoprii anch'io: laggiù Herta, la bibliotecaria, col suo vestito
azzurro, tre file dietro a lei Walter, facilmente riconoscibile coi
suoi ricci; alle sue spalle riconobbi Hans Eckel, il nostro poeta,
che arrotondava come lavavetri il miserabile sussidio di
disoccupazione; c'erano anche Werner Ilberg e molti altri. Come
attratti da un magnete erano tutti venuti per lo stesso mio motivo:
ritrovarsi in questo orribile momento. Perché tutti noi, che avevamo
pubblicato poco e perciò non apparivamo pericolosi agli occhi dei
nazisti, eravamo decisi a restare in Germania per continuare a
scrivere, nonostante la messa al bando della nostra Lega: racconti,
commenti, satire sulla vita nel Terzo Reich. Testi che tuttavia
avremmo potuto pubblicare solo all'estero.
Hans riuscì a
passar parola: «Domenica alle 10, alla stazione Heerstrasse della
ferrovia urbana. Portate qualcosa da mangiare, e magari il costume da
bagno». Così la domenica seguente andammo in gita sull'Havel, e ci
accampammo sulla riva come innocui «amici della natura». Fu il
nostro ultimo incontro in grande stile. A noi si era unita - senza
che ne avessimo alcun sospetto - una spia, che più tardi ci tradì
alla Gestapo (...).
Col senno del poi, mi sembra che la
sciagura inimmaginabile che il «Reich millenario» avrebbe portato
con sé ebbe il suo inizio quel 10 maggio 1933. Penso
a Heinrich Heine. «È
stato solo un preludio», scrisse l'allora ventenne, commentando il
rogo di libri inscenato nel 1817 alla Wartburg dagli studenti delle
corporazioni patriottiche, decisi a eliminare scritti a loro avviso
estranei alla «cultura germanica». Heine aveva aggiunto: «Là,
dove si bruciano i libri, si finisce col bruciare anche gli uomini».
Toccò ai nazisti, col loro delirio razzista, realizzare la triste
profezia di Heine" (traduzione di Guido Ambrosino, dal "manifesto" del 10 maggio 2003)
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