giovedì 9 maggio 2013

Ciò che resta del fuoco

Il 10 maggio 1933 sull'Opernplatz di Berlino i nazisti organizzarono un gigantesco rogo di libri "contrari allo spirito tedesco". Per ricordare quella giornata, stasera, 9 maggio 2013 (dal 1950 anche festa dell'Europa il Teatro Argentina di Roma apre a partire dalle 21.30 le sue porte per una notte dei libri, una chiamata collettiva per restituire voce e immagini ai testi che i nazisti vollero cancellare con i loro roghi. Riprendendo il titolo italiano di Feu la cendre di Jacques Derrida,  Ciò che resta del fuoco è la sigla che si è scelto di dare a questa serata realizzata da lacasadargilla e da Muta Imago, ma aperta a tutti i cittadini che vorranno partecipare.

La scrittrice tedesca Elfriede Brüning è oggi una vecchia signora avviata a compiere in novembre 103 anni. Nel '33 era una giovanissima giornalista comunista e assistette con orrore al terribile falò berlinese. Un ricordo che sarebbe rimasto  per lei incancellabile, come testimonia la conferenza che la scrittrice tenne nella capitale tedesca dieci anni fa e di cui riportiamo qui un ampio stralcio:

"Sono passati settant'anni da allora, il tempo d'una vita. Eppure ho davanti agli occhi le immagini di quel giorno funesto, come se fosse ieri. Ero andata anch'io sull'Opernplatz di Berlino, non per il gusto del sensazionale, tantomeno con l'entusiasmo dei tanti curiosi intorno a me, venuti per assistere all'orrendo spettacolo. Già da giorni la stampa aveva annunciato che oggi, 10 maggio 1933, ci sarebbe stato un grande rogo di libri, a conclusione della campagna propagandistica «contro lo spirito antitedesco» organizzata dall'associazione degli studenti. Manifestazioni analoghe erano state indette in tutte le città universitarie. A Berlino la polizia e le SA (Sturmabteilung, la milizia del partito) avevano chiuso preventivamente l'accesso alla piazza di fronte alla Humboldt-Universität. Ma adesso la folla poté oltrepassare i cordoni, spingersi avanti fino alla catasta di legna che si ergeva in un riquadro al centro della piazza, illuminato a giorno dai riflettori. Quanti non riuscirono a conquistare un posto in prima fila si aggrapparono alle sbarre che proteggevano le finestre dei palazzi adiacenti, un po' appesi alle inferriate, un po' seduti sui davanzali.
Una gigantesca croce uncinata decorava la tribuna su cui si susseguivano giovanotti, studenti, tutti in uniforme delle SA. Gettavano nelle fiamme pile di libri, presi da carri che ne portavano sempre di nuovi, pronunciando invettive. «Contro il decadentismo e la corruzione dei costumi», declamava uno che teneva in mano libri di Heinrich Mann e Erich Kästner; «Contro il giornalismo antinazionale, di impronta democratico-giudaica», strillava un altro all'indirizzo di autori come Georg Bernhard e Theodor Wolff.
A un tratto i ragazzotti si fecero da parte per far posto a un ometto esile, Josef Goebbels, il ministro della propaganda in persona, appena sbarcato da un'auto sopraggiunta a gran carriera. Era lui adesso a strillare sulla folla, con la voce che minacciava di rovesciarsi in falsetto: «Getto alle fiamme i libri degli ebrei e degli istigatori del popolo, di Heine, Brecht e Feuchtwanger, di Thomas e Heinrich Mann...», finché la sua voce non fu sopraffatta dalle urla della massa inneggiante.
Mi sentivo persa in quel bailamme, come se un'ondata mi stesse sommergendo: solo a fatica riuscivo a resisterle, in piedi. Le fiamme del rogo salivano sempre più alte. Larghi fasci di scintille serpeggiavano su per il cielo. Dense nubi di fumo coprivano la piazza, avvolgendomi e togliendomi il respiro. La banda musicale delle SA intonò «Popolo, alle armi» (Volk ans Gewehr), e tutti quelli che mi attorniavano si unirono al coro, con voce tonante. Che ci facevo là in mezzo? mi chiedevo disperata. Perché stavo lì?
Eppure sapevo che dovevo restare. Ero andata per un motivo preciso. Speravo che anche altri dei nostri fossero venuti, per essere testimoni di questo oltraggio alla cultura, su cui dovevamo cercare di informare la stampa estera. «Noi» eravamo un gruppo di giovani autori, tutti all'inizio della loro pratica letteraria. Facevamo parte della «Lega degli scrittori proletari rivoluzionari», cui appartenevano autori già celebri come Johannes R. Becher, Anna Seghers, Bert Brecht e Ludwig Renn. A febbraio, quando volevamo incontrarci ancora una volta alla Enckestrasse, il nostro luogo di riunione, trovammo l'edificio occupato dalle SA e dovemmo disperderci in fretta per non essere arrestati, perché la «Lega» era stata vietata subito dopo l'avvento al potere di Hitler. Il 27 febbraio c'era stato l'incendio del Reichstag. Da allora si era scatenato l'inferno. I nazisti, che verosimilmente lo avevano appiccato, accusarono dell'incendio i comunisti. Un comodo pretesto per scatenare la caccia a tutti i comunisti, socialdemocratici, pacifisti, perfino ai testimoni di Jehova. A migliaia vennero strappati dai loro letti, trascinati nelle famigerate caserme delle SA e sottoposti a brutali sevizie (...).
Oggi, quel 10 maggio 1933, noi antifascisti eravamo ancora sotto lo choc dei terribili eventi delle settimane precedenti. Tanti di noi erano già stati arrestati: tra loro Ludwig Renn, Carl von Ossietzky, l'anarchico Erich Mühsam, Hermann Duncker, il noto studioso marxista Klaus Neukrantz, Kurt Kleber e Egon Erwin Kisch. Quest'ultimo i nazisti dovettero tuttavia rilasciarlo, in seguito alle proteste cèche; fu espulso verso la Cecoslovacchia. Chi ne aveva la possibilità aveva cercato di passare il confine per mettersi in salvo. A Praga si erano già rifugiati Johannes R. Becher, Anna Seghers e Wieland Herzfelde.
A casa di Hans Schwalm, che coordinava il nostro gruppo, si erano susseguite diverse perquisizioni. Schwalm evitava la sua abitazione e si teneva nascosto, dopo aver distrutto tutte le carte compromettenti, portroppo anche le liste degli iscritti. Da allora avevamo perso i contatti, ci sentivamo orfani, lasciati ognuno a se stesso. Non conoscevo gli indirizzi dei miei amici. Come rintracciarli se non per un incontro fortuito, magari in occasione dello spettacolo di quel giorno?
Il rito si avvicinava alla conclusione. La banda taceva, anche il crepitìo delle fiamme s'era attenuato. Dai quattro lati della piazza vennero avanti carri dei pompieri. Scesero tirandosi dietro i tubi degli idranti, per spegnere gli ultimi bagliori. Stavo cercando di farmi largo verso il viale Unter den Linden, sbracciandomi per tagliare la folla davanti a me, quando sentii una pressione sul braccio. Hans! «Ci sono anche gli altri», mi sussurrò. «Non li hai visti?» Seguendo i suoi sguardi, li scoprii anch'io: laggiù Herta, la bibliotecaria, col suo vestito azzurro, tre file dietro a lei Walter, facilmente riconoscibile coi suoi ricci; alle sue spalle riconobbi Hans Eckel, il nostro poeta, che arrotondava come lavavetri il miserabile sussidio di disoccupazione; c'erano anche Werner Ilberg e molti altri. Come attratti da un magnete erano tutti venuti per lo stesso mio motivo: ritrovarsi in questo orribile momento. Perché tutti noi, che avevamo pubblicato poco e perciò non apparivamo pericolosi agli occhi dei nazisti, eravamo decisi a restare in Germania per continuare a scrivere, nonostante la messa al bando della nostra Lega: racconti, commenti, satire sulla vita nel Terzo Reich. Testi che tuttavia avremmo potuto pubblicare solo all'estero.
Hans riuscì a passar parola: «Domenica alle 10, alla stazione Heerstrasse della ferrovia urbana. Portate qualcosa da mangiare, e magari il costume da bagno». Così la domenica seguente andammo in gita sull'Havel, e ci accampammo sulla riva come innocui «amici della natura». Fu il nostro ultimo incontro in grande stile. A noi si era unita - senza che ne avessimo alcun sospetto - una spia, che più tardi ci tradì alla Gestapo (...).
Col senno del poi, mi sembra che la sciagura inimmaginabile che il «Reich millenario» avrebbe portato con sé ebbe il suo inizio quel 10 maggio 1933.
Penso a Heinrich Heine. «È stato solo un preludio», scrisse l'allora ventenne, commentando il rogo di libri inscenato nel 1817 alla Wartburg dagli studenti delle corporazioni patriottiche, decisi a eliminare scritti a loro avviso estranei alla «cultura germanica». Heine aveva aggiunto: «Là, dove si bruciano i libri, si finisce col bruciare anche gli uomini». Toccò ai nazisti, col loro delirio razzista, realizzare la triste profezia di Heine" (traduzione di Guido Ambrosino, dal "manifesto" del 10 maggio 2003)


  

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