Caroline
Lunoir, La mancanza di gusto, 66thand2nd, traduzione di Maurizia Balmelli e Elena Malanga, pp. 112, euro 12
Stella Sofri
Come
in un rito che si rinnova nel tempo, quattro generazioni di una
famiglia, i cui privilegi vengono da lontano, si danno appuntamento
in un castello nel sud della Francia per trascorrere insieme il tempo
della vacanza in un sottile equilibrio, una specie di interludio che
ha come tema, ad di là di ogni storia personale, la continuità
della genealogia e la l’appartenenza ad una élite sociale. Una
grande famiglia organizzata in modo gerarchico, dominata dalle
quattro sorelle della nonna della protagonista Mathilde, voce
narrante, e un nonno per il quale la giovane donna mostra
comprensione e simpatia.
La
custodia e la cura della casa è affidata a Rosana, donna energica,
capace di tenere a bada la molteplicità dei personaggi che si
affacciano periodicamente in quel luogo di intermittente letargo.
Rosana ha una sua famiglia, marito e figlio adolescente che compaiono
sullo sfondo della vicenda.
Per
Mathilde, le giornate scorrono nella luminosità irreale di una noia
senza tempo, in un vacuum estivo in cui ogni componente della
famiglia scivola verso una regressione assecondata dal permanere di
un ambiente, il castello, apparentemente sempre uguale, in realtà,
ad un occhio attento, sottoposto ad un lento inesorabile
deterioramento. Quasi testimone e specchio del deteriorarsi di una
società di cui anziani e giovani lì convenuti sono espressione.
Nei
discorsi degli anziani affiorano opinioni politiche, confronti tra la
loro generazione e la attuale. Mathilde si limita, di tanto in tanto
a esprimere qualche considerazione polemica. “I nostri vent’anni,
i nostri trent’anni, non sono carne da macello. La voracità della
storia mi ha risparmiata. E’ vero sono tra quelli che il proprio
secolo lo contemplano da seduti. Da bordo di una piscina.” Solo
qualche accenno ad una consapevolezza di un distacco non dichiarato,
quasi nel rispetto di un family
agreement che
vincola ogni componente della famiglia a quel luogo.
Nessun conflitto, nessuna dichiarazione di
guerra: “Non infrango nessuna regola”
afferma Mathilde.
L’atmosfera ovattata non consente il manifestarsi di quelle
contraddizioni che solo qualche decennio prima avrebbero segnato i
rapporti generazionali. Dell’inerzia e della passività di fronte
alla comodità e al benessere vissuto dalla sua generazione nel
presente Mathilde è pienamente consapevole: «Mi abbronzo, ma ho
paura. Paura di questa abbronzatura facile. Paura di questa vita
senza lotta. Paura della disinvolta logica del clan di cui sono un
degno prodotto. [...] Non c’è niente che io debba strappare al
mondo per esistere. Ho conosciuto sempre e soltanto il benessere. Ho
avuto in dote tutto il necessario per perpetuare la mia classe».
E’ il
nonno Paul, che si propone come elemento discordante, perlomeno agli
occhi di Mathilde, a concepire l’idea di creare qualcosa che rompa
la monotonia, a introdurre una novità, un’attrattiva per quel
luogo fermo nel tempo. Forse nell’intento di sventare il rischio
che a lungo andare genitori e figli possano cercare altrove una meta
alle vacanze. Paul decide di dotare il castello di una piscina in cui
giovani e vecchi possano affrontare la calura estiva: è la piscina
all’origine dell’esile trama del racconto. La decisione impulsiva
e generosa di Paul di concedere a Rosana, custode del castello, di
bagnarsi nelle chiare, fresche e dolci acque in assenza della
famiglia, scatena l’immediato sdegno e l’irritazione dei
congiunti che invitano Paul a ritirare la proposta incauta. Ma la
custode, che percepisce da subito il disagio del clan familiare,
rifiuta autonomamente l’offerta.
Mathilde,
il cui agire è esteriormente rinunciatario e passivo, lascia
trasparire la propria diversità solo nei pensieri. Lo sguardo
critico, accompagnato da un sentimento di nostalgia per les temps
jadis che percorre l’intera narrazione, è rivolto ad indagare il
permanere di un sistema di valori familiari e l’accettazione di
quel sistema da parte di una giovane generazione rassegnata. La
piscina diventa così la metafora di una incapacità ad accogliere il
cambiamento da parte di una borghesia che considera diritti
inalienabili i propri privilegi in quel rifugio fuori dalla storia
che è il castello; una borghesia incapace di modificarsi in un
contesto storico in cui privilegi e pregiudizi non sono più
indiscussi e intoccabili.
La
qualità straordinaria del breve racconto sta nella raffinatezza di
un linguaggio, che non è mai costruzione formale, ma pura,
essenziale espressione di un sentire che si esprime attraverso parole
che danno vita a situazioni, luoghi, persone.
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