mercoledì 29 maggio 2013

Alice ritrovata

Giulia Caminito
Spostando il pannello bianco un po’ più in alto e il proiettore un po’ più indietro si ha quasi l’impressione di un’istallazione degna del Macro. Alice Ceresa, in una foto datata e in bianco e nero, quando ancora aveva un volto da fanciulla – dice chi l’ha studiata – appare sul pannello, proiettata anche tra i libri, tutti donati, della bibliolibreria Plautilla. Appare lì, con la sua vita. Anzi, non solo. Con il “vuoto di memoria”; il suo essersi ritirata dal mondo e dalle cose, come quel famoso padre. L’aver fatto avvizzire i vestiti e i ricordi, ma l’aver toccato le persone.
Sono proprio le relazioni che vengono proiettate, grazie al documentario di Rai Educational di Gianna Mazzini e Loredana Rotondo, a due metri da noi. La voce pacata del nipote, le leggerissime pause commosse e celate della compagna, il tono squillante di chi l’ha studiata, la nota calda delle amiche e colleghe, la tenerezza romantica del fratello. Ognuno con un colore diverso e un accento percepibile a orecchie tese.
Passaggi, pulviscoli e difficoltà. La tenacia di una ragazza che non ha potuto studiare Lettere perché osteggiata dal padre; i viaggi, che all’inizio erano vere e proprie fughe, e poi i ritorni a casa sempre e comunque; l’aver trovato a Roma, la città dove si può essere liberi, quei “cigni bianchi” letterari, come lei, pronti ad accoglierla; nuove case fatte solo di stanze vuote e una macchina da scrivere.

Si muove in immagini e parole, Alice, definita come una donna che scriveva in italiano pensando in tedesco, poliglotta, smilza, pietrosa e calcarea. Alice nel paese delle meraviglie, nel mondo della letteratura come se fosse una strega e dovesse “distillare” la realtà.
Alice dice che il romanzo non è qualcosa per le donne, troppo legato a ciò che ci hanno sempre insegnato. Dice di non voler usare mai la prima persona per scrivere, perché porta dritti alla strada per l’inferno. Il fratello, invece, la incitava a raccontare di più, a respirare con più parole, e lei rispondeva di non riuscire a farlo, di aver bisogno di quel filtro, di storie senza trama e senza protagonisti, storie che quindi fossero di tutti, distillati di realtà femminile.
Madri, figlie, compagne, moglie, donne, bambine.
Il documentario procede cronologicamente e lascia addosso a chi lo vede il passaggio dell’autrice, come se avesse camminato al nostro fianco. Ed è vero, c’è un suo indietreggiare alla fine, quando il proiettore fa apparire i titoli di coda. Ma per nostra fortuna arrivano le parole di Patrizia Zappa Mulas e Laura Fortini, il dibattito e le spiegazioni, che vogliono raccontare Alice.
Per riempire ancora quel vuoto di memoria. Si parla di lingua e di linguaggio, di identità
e differenza, di famiglie e donne, di pietre e airedale terrier.
Il primo romanzo, La figlia prodiga, Alice lo ha scritto in venti anni, e non è un romanzo. Viene definito una grande chiosa, una lunga attesa, di un inizio che poi in realtà non arriva mai. Un preambolo che però svela al lettore di essere presente nell’opera, lontano dalle metafore che ingannano e dai personaggi che incantano. Resta il lettore che guarda al microscopio “tante piccole formiche” presentate clinicamente, e scopre di essere una di loro.
La vittoria del Premio Viareggio opera prima nel ’67 e l’attesa di chi, come Manganelli, voleva sapere fin dove Alice si sarebbe spinta con il secondo libro, nei suoi esperimenti “da strega”, quanto avrebbe rivoluzionato la forma linguistica del parlare al femminile.
E dopo passano altri venti anni, perché la forma richiede lavoro, numerose stesure, molte bozze.
Alla fine arriva anche Bambine, la scrittura della la vita fin dal primo momento di una donna in una famiglia patriarcale, come era la sua, di quelle che hanno reso il padre un’essenza piuttosto che una persona.
Così Patrizia parla dei loro colloqui, dell’ironia, della necessità di Alice di trovare i propri “simili”, di appartenere a quella comunità letteraria, lontana dalla sua famiglia svizzera e italiana insieme.
È uno scambio di battute e impressioni, tra Patrizia e Laura, un po’ di animo “illuminista” e un po’ di fuoco bianco letterario, per ricostruire Alice, un pezzetto alla volta. Sentirla, proprio dentro Plautilla, dove si parla di lei, del suo pensare alle donne nel mondo, dove altre donne possono farla tornare. Sempre attraverso le parole.
Perché proprio l’italiano come lingua di scrittura? Perché impiegò venti anni per ogni romanzo? Perché La morte del padre venne scritto in un solo mese? Perché usare una lingua così lontana dal linguaggio comune, ostica, ciottolata, essenziale?
Patrizia dà le sue risposte, Laura insinua qualche dubbio, insieme cercano sguardi per Alice.
Tutti ascoltano trascinati dall’atmosfera del racconto.
Resi vigili dalle immagini, così care ad Alice quanto la lettura, e motivati dalle parole che delineano, amalgamano e modellano un ritratto dell’autrice.
Si arriva alla fine, quando Plautilla deve ormai chiudere, senza che nessuno si sia reso conto dell’orario.

La rivincita di quella “figlia prodiga”, che questa volta non viene punita, poiché dopo la sua morte, rimane un coro di voci pronte a narrarne la vita. Di una donna, che morì mentre ancora leggeva, con un libro in mano.

Nessun commento:

Posta un commento