Giulia
Caminito
Spostando
il pannello bianco un po’ più in alto e il proiettore un po’ più
indietro si ha quasi l’impressione di un’istallazione degna del
Macro. Alice
Ceresa, in una foto datata e in bianco e nero, quando ancora aveva un
volto da fanciulla – dice chi l’ha studiata – appare sul
pannello, proiettata anche tra i libri, tutti donati, della bibliolibreria Plautilla. Appare lì, con la sua vita. Anzi, non solo.
Con il “vuoto di memoria”; il suo essersi ritirata dal mondo e
dalle cose, come quel famoso padre. L’aver fatto avvizzire i
vestiti e i ricordi, ma l’aver toccato le persone.
Sono
proprio le relazioni che vengono proiettate, grazie al documentario
di Rai Educational di Gianna Mazzini e Loredana Rotondo, a due metri da noi. La voce pacata del nipote, le
leggerissime pause commosse e celate della compagna, il tono
squillante di chi l’ha studiata, la nota calda delle amiche e
colleghe, la tenerezza romantica del fratello. Ognuno con un colore
diverso e un accento percepibile a orecchie tese.
Passaggi,
pulviscoli e difficoltà. La tenacia di una ragazza che non ha potuto
studiare Lettere perché osteggiata dal padre; i viaggi, che
all’inizio erano vere e proprie fughe, e poi i ritorni a casa
sempre e comunque; l’aver trovato a Roma, la città dove si può
essere liberi, quei “cigni bianchi” letterari, come lei, pronti
ad accoglierla; nuove case fatte solo di stanze vuote e una macchina
da scrivere.
Si muove
in immagini e parole, Alice, definita come una donna che scriveva in
italiano pensando in tedesco, poliglotta, smilza, pietrosa e
calcarea. Alice nel paese delle meraviglie, nel mondo della
letteratura come se fosse una strega e dovesse “distillare” la
realtà.
Alice
dice che il romanzo non è qualcosa per le donne, troppo legato a ciò
che ci hanno sempre insegnato. Dice di non voler usare mai la prima
persona per scrivere, perché porta dritti alla strada per l’inferno.
Il fratello, invece, la incitava a raccontare di più, a respirare
con più parole, e lei rispondeva di non riuscire a farlo, di aver
bisogno di quel filtro, di storie senza trama e senza protagonisti,
storie che quindi fossero di tutti, distillati di realtà femminile.
Madri,
figlie, compagne, moglie, donne, bambine.
Il
documentario procede cronologicamente e lascia addosso a chi lo vede
il passaggio dell’autrice, come se avesse camminato al nostro
fianco. Ed è vero, c’è un suo indietreggiare alla fine, quando il
proiettore fa apparire i titoli di coda. Ma per nostra fortuna
arrivano le parole di Patrizia Zappa Mulas e Laura Fortini, il
dibattito e le spiegazioni, che vogliono raccontare Alice.
Per
riempire ancora quel vuoto di memoria. Si parla di lingua e di
linguaggio, di identità
e
differenza, di famiglie e donne, di pietre e airedale terrier.
Il primo
romanzo, La figlia prodiga, Alice lo ha scritto in venti anni,
e non è un romanzo. Viene definito una grande chiosa, una lunga
attesa, di un inizio che poi in realtà non arriva mai. Un preambolo
che però svela al lettore di essere presente nell’opera, lontano
dalle metafore che ingannano e dai personaggi che incantano. Resta il
lettore che guarda al microscopio “tante piccole formiche”
presentate clinicamente, e scopre di essere una di loro.
La
vittoria del Premio Viareggio opera prima nel ’67 e l’attesa di
chi, come Manganelli, voleva sapere fin dove Alice si sarebbe spinta
con il secondo libro, nei suoi esperimenti “da strega”, quanto
avrebbe rivoluzionato la forma linguistica del parlare al femminile.
E dopo
passano altri venti anni, perché la forma richiede lavoro, numerose
stesure, molte bozze.
Alla
fine arriva anche Bambine, la scrittura della la vita fin dal
primo momento di una donna in una famiglia patriarcale, come era la
sua, di quelle che hanno reso il padre un’essenza piuttosto che una
persona.
Così
Patrizia parla dei loro colloqui, dell’ironia, della necessità di
Alice di trovare i propri “simili”, di appartenere a quella
comunità letteraria, lontana dalla sua famiglia svizzera e italiana
insieme.
È
uno scambio di battute e impressioni, tra Patrizia e Laura, un po’
di animo “illuminista” e un po’ di fuoco bianco letterario, per
ricostruire Alice, un pezzetto alla volta. Sentirla, proprio dentro Plautilla, dove si parla di lei, del suo pensare alle
donne nel mondo, dove altre donne possono farla tornare. Sempre
attraverso le parole.
Perché
proprio l’italiano come lingua di scrittura? Perché impiegò venti
anni per ogni romanzo? Perché La morte del padre venne
scritto in un solo mese? Perché usare una lingua così lontana dal
linguaggio comune, ostica, ciottolata, essenziale?
Patrizia
dà le sue risposte, Laura insinua qualche dubbio, insieme cercano
sguardi per Alice.
Tutti
ascoltano trascinati dall’atmosfera del racconto.
Resi
vigili dalle immagini, così care ad Alice quanto la lettura, e
motivati dalle parole che delineano, amalgamano e modellano un
ritratto dell’autrice.
Si
arriva alla fine, quando Plautilla deve ormai chiudere,
senza che nessuno si sia reso conto dell’orario.
La
rivincita di quella “figlia prodiga”, che questa volta non viene
punita, poiché dopo la sua morte, rimane un coro di voci pronte a
narrarne la vita. Di una donna, che morì mentre ancora leggeva, con
un libro in mano.
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