venerdì 24 maggio 2013

Pirati nel Mediterraneo

Barbarossa,
corsaro e ammiraglio

Ai banditi, antichi e moderni, è dedicata la nona edizione del festival èStoria, in programma a Gorizia da oggi a domenica 26 maggio. Anticipiamo qui uno stralcio dell'intervento dello storico britannico David Abulafia.

David Abulafia
È difficile dare una definizione precisa della pirateria. Spesso i mercanti sono stati accusati sia di comportarsi da pirati, sia di non essere più rispettabili di costoro, il cui coraggio poteva essere opposto alla mancanza di scrupoli degli uomini d’affari. Secondo Karl Marx la storia del commercio mediterraneo dimostrava che era iniziato come pirateria, ma ovviamente egli attribuiva una precisa connotazione morale a tutte le forme di attività economica. Inoltre è molto labile il confine fra la pirateria e la guerra di corsa, autorizzata da monarchi e città-stato che permettevano di compiere azioni piratesche contro i vascelli di nemici ben precisi, garantendo invece la sicurezza di quelli degli alleati. Le vittime potrebbero considerare il sequestro di beni da navi mercantili come vera e propria pirateria, mentre quanti compiono queste azioni potrebbero considerarlo un atto riparatorio, spesso conseguente a precedenti azioni da loro considerate piratesche. Colui che per alcuni è un pirata, per altri è un eroe del mare (si pensi a sir Francis Drake, il corsaro preferito di Elisabetta I, e alla sua straordinaria reputazione nella memoria collettiva britannica).
Si può cominciare con quanto si potrebbe definire una storia morale della pirateria, prendendo spunto proprio dalla regina Elisabetta. L’ammirazione per i pirati risale a molto tempo addietro. Omero li preferiva di gran lunga ai mercanti: disprezzava quelli fenici che ormai dominavano l’Egeo all’epoca in cui i greci stavano iniziando a insediarsi sulle coste ioniche (l’attuale costa della Turchia).
Il suo atteggiamento non era determinato soltanto dalla concorrenza commerciale: c’era qualcosa di eccezionale e attraente nel modo in cui i pirati dominavano i pericoli del mare, una forma di libertà d’impadronirsi di quanto volevano che li poneva al di sopra delle leggi morali. Tuttavia, man mano che le città greche iniziavano a dipendere sempre più dal commercio, la preoccupazione per la minaccia della pirateria andò affievolendosi. Negli inni omerici – una serie di poemi composta con ogni probabilità attorno all’epoca in cui i testi delle opere di Omero erano ormai diventati un parametro stilistico di riferimento – si racconta fra le altre una vivace storia di pirati etruschi (Tyrsenoi) che catturarono il dio Dioniso mentre si trovava su un promontorio nel Mediterraneo, e per punizione vennero trasformati in delfini; questo racconto divenne un tema prediletto dei ceramografi come Exekias.
Analogamente, nel Medio Evo la storia della pirateria rivela paradossi e contraddizioni morali. Le incursioni compiute contro le navi e i porti della Spagna musulmana e del Nordafrica dai marinai di Amalfi, Genova, Venezia e Pisa erano celebrate come guerra santa, e rappresentano eventi importanti nella formazione dell’ideale dei crociati; tuttavia, loro scopo era ottenere ricompense materiali, bottino sotto forma di mercanzie sottratte alle navi da carico e dalle banchine portuali di città come Mahdia, nell’attuale Tunisia. È difficile convincersi che per gli autori di queste azioni le ricompense spirituali fossero l’obiettivo principale, anche se la loro spiegazione sarebbe stata che tutto quanto guadagnavano l’avevano ottenuto con la benedizione di Dio. I pisani che compivano incursioni contro Mahdia lasciarono un poema in latino nel quale facevano riferimento a un oscuro passaggio del racconto biblico dell’Esodo, nel quale gli egiziani sono costretti con la forza a consegnare agli israeliti oro e gioielli, che poi costoro portarono con sé quando lasciarono l’Egitto. L’anonimo poeta scriveva: «Ecco, ancora una volta gli israeliti spogliano gli egiziani!».
I pirati non cercavano soltanto bottino, ma anche esseri umani, il cui destino era essere ridotti in schiavitù se erano di basso ceto sociale, o di essere riscattati se erano ritenuti di rango più elevato nella scala sociale. Gli straordinari documenti della Genizah del Cairo – una raccolta di frammenti di libri e lettere risalenti all’Alto Medio Evo lasciati dagli ebrei di questa città – rivelano il tormento delle vittime e l’enorme sforzo che le comunità ebraiche di tutto il Mediterraneo compivano per pagare il riscatto dei correligionari, nella gran maggioranza individui del tutto sconosciuti ai loro benefattori. Quanto valeva per gli ebrei valeva anche per i cristiani e i musulmani, e ogni religione aveva le proprie organizzazioni per raccogliere i fondi destinati ai riscatti e predisporre i negoziati spesso complessi necessari per convincere i sequestratori a liberare i prigionieri. In particolare, molto affascinante è il ruolo dei due ordini cristiani fondati a questo scopo: i Trinitari (cioè appartenenti all’Ordine della Santissima Trinità e redenzione degli schiavi) e i Mercedari (cioè appartenenti all’Ordine di Nostra Signora della Mercede), che inviavano nelle terre musulmane i loro confratelli a condurre queste trattative. Il pericolo era che più si insisteva, più la controparte aveva l’impressione che gli ostaggi valessero una buona somma di denaro. Vigeva però anche un principio di reciprocità: rilasciare i prigionieri poteva creare un’atmosfera tale per cui il nemico sarebbe stato disposto a fare altrettanto.
È importante ricordare che la pirateria mediterranea all’epoca dei corsari berberi – all’incirca dalla fine del XIV agli inizi del XIX secolo – non era affatto opera soltanto di pirati musulmani. Innanzitutto, molti corsari berberi non erano di origine araba o berbera, ma rinnegati: parecchi scozzesi ubriaconi abbandonarono la patria per diventare capitani di vascelli pirati ad Algeri o a Tunisi; inoltre, sull’altro fronte c’erano i Cavalieri di Malta (noti in origine come Ospitalieri, o Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme), altrettanto spietati e la cui base si trovava a poche ore di navigazione dalle terre governate dai reggenti berberi.
L’eliminazione della pirateria nel Mediterraneo è stata raggiunta due volte in modo molto efficace. Nel I secolo a.C. il generale romano Pompeo liberò il Mare Nostrum dai pirati, inaugurando un’epoca in cui le navi mercantili potevano muoversi liberamente da un’estremità all’altra del mare, comprese le famose galee che trasportavano grano dall’Egitto a Roma. Poi, nel XIX secolo le potenze nordeuropee, assieme alla flotta americana da poco costituita, spuntarono gli artigli dei corsari berberi, mentre la conquista francese dell’Algeria consolidava l’opera di americani, danesi e svedesi. Nel frattempo, la Gran Bretagna prendeva il controllo di una serie di scali da Gibilterra a Suez, e all’interno del Mediterraneo la pirateria diminuì. Questo non significa certo che sia scomparsa dal pianeta, come dimostrano di continuo gli episodi che si verificano nell’Oceano Indiano e altrove.

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