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domenica 5 maggio 2013

Genealogia della casta

Ti racconto un libro:
Barbara Raggi, Baroni di razza
Editori Riuniti, pp. 216, euro 22,90

G. Luca Chiovelli
Questo saggio si potrebbe tranquillamente titolare La casta. Appendice I. L’accademia italiana sotto il fascismo. Quasi tutti abbiamo perlomeno dato un’occhiata al libro di Stella e Rizzo, ci siamo indignati per il comportamento di coloro che abbiamo votato per decenni (ma non per il nostro comportamento che li ha legittimati), poi siamo tornati alle nostre occupazioni con il trito sentimento che accompagna sovente il lettore medio durante tale escursioni di coscienza civica: il presente non che è una degenerazione del passato, allora si stava meglio, nel dopoguerra vi era più sobrietà e tante belle cose. Gli stessi autori, abbastanza chiaramente, autorizzavano una tale interpretazione.
Purtroppo non è così.
Di cosa parla il libro della Raggi? Apparentemente di come un folto gruppo di accademici italiani (anche di livello altissimo) assecondarono la politica razzista del regime fascista decretando, di fatto, l’applicazione delle leggi razziali del 1938 (e del conseguente Tribunale della Razza dove alcuni magistrati attribuivano o meno patenti di italianità a individui e famiglie); e di come, tale gruppo di baroni, di razza appunto, sfuggì alle epurazioni del dopoguerra riconquistando carriere, privilegi, stipendi e pensioni ad onta delle scelte infami operate.
Questo però è il livello visibile. Sotto l’epidermide incombe una verità semplice da svelare, ma che nessuno ama riconoscere ovvero che la classe intellettuale italiana, composta da magistrati, scienziati, umanisti, artisti (quella che supporta tuttora la casta di Stella e Rizzo) era ed è, oggi Maggio 2013, vergognosamente conformista e illiberale. Più avanti definiremo in maniera più stringente il termine conformista.

domenica 14 aprile 2013

Bonvissuto, "Dentro" un paese svuotato di senso

G. Luca Chiovelli
Il carcere (il tema del più interessante dei tre racconti del libro: Il giardino delle arance amare) è, da sempre, una delle metafore più stringenti della condizione umana e degli inappagati aneliti dell’esistenza. Gramsci, Wilde, Dostoevskij, Settembrini, Salamov, Primo Levi, Pellico, Hikmet, François Villon scrissero dalla prigione; e Dante, Machiavelli, Seneca, Cavalcanti, Cicerone, Catullo lontano dalla patria. Fra i numerosissimi. Infatti, in modo apparentemente contradditorio, il carcere diviene anche luogo di poesia poiché l’esilio dalla socialità, e il silenzio dal clamore del secolo, spingono irresistibilmente sia all’inventario drammatico della propria esistenza sia ad una considerazione spietata e cristallina dell’esistenza umana – considerazione altrimenti impossibile se coinvolti nel flusso quotidiano delle amicizie, degli amori, delle conoscenze, degli obblighi. La limitatezza della prigione, quindi, con le sue tetre ripetizioni e i miserevoli espedienti per la sopravvivenza, finisce per stimolare una sorta di ripensamento stoico, filtrato da una nuova sensibilità purgatoriale, su sé stessi e sulla condizione umana in generale. Non a caso i due racconti del libro di Bonvissuto che seguono (Il compagno di banco e Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta) sono episodi minimi del passato, ma di densa nostalgia; la brutalità dell’esperienza carceraria ha, perciò, individuato e poi raffinato quei momenti della vita che ciascuno di noi, preso nei tumulti e nella vorticosi mediocrità d’ogni giorno, tende a smarrire, a ridimensionare, a derubricare a sbiadite istantanee fotografiche. Non sappiamo se tutto ciò corrisponda all’effettiva biografia di Bonvissuto; ciò che importa è che egli ha legato i tre racconti in una consequenzialità psicologica ed esistenziale ineccepibile e, visti gli illustri precedenti, classica. L’unico limite dell’autore, che delinea una prosa senza scarti, è l’incapacità ad elevare il discorso a riflessione universale e tragica, ristando nell’indugio di una dimensione particolare e privata.

Ma attenzione: egli può vantare una peculiarità che nessuno possiede; ha scritto quel primo racconto sul carcere oggi, e in Italia.
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