G. Luca Chiovelli
Il carcere (il tema del più interessante dei tre racconti del libro: Il giardino delle arance amare) è, da sempre, una delle metafore più stringenti della condizione umana e degli inappagati aneliti dell’esistenza. Gramsci, Wilde, Dostoevskij, Settembrini, Salamov, Primo Levi, Pellico, Hikmet, François Villon scrissero dalla prigione; e Dante, Machiavelli, Seneca, Cavalcanti, Cicerone, Catullo lontano dalla patria. Fra i numerosissimi. Infatti, in modo apparentemente contradditorio, il carcere diviene anche luogo di poesia poiché l’esilio dalla socialità, e il silenzio dal clamore del secolo, spingono irresistibilmente sia all’inventario drammatico della propria esistenza sia ad una considerazione spietata e cristallina dell’esistenza umana – considerazione altrimenti impossibile se coinvolti nel flusso quotidiano delle amicizie, degli amori, delle conoscenze, degli obblighi. La limitatezza della prigione, quindi, con le sue tetre ripetizioni e i miserevoli espedienti per la sopravvivenza, finisce per stimolare una sorta di ripensamento stoico, filtrato da una nuova sensibilità purgatoriale, su sé stessi e sulla condizione umana in generale. Non a caso i due racconti del libro di Bonvissuto che seguono (Il compagno di banco e Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta) sono episodi minimi del passato, ma di densa nostalgia; la brutalità dell’esperienza carceraria ha, perciò, individuato e poi raffinato quei momenti della vita che ciascuno di noi, preso nei tumulti e nella vorticosi mediocrità d’ogni giorno, tende a smarrire, a ridimensionare, a derubricare a sbiadite istantanee fotografiche. Non sappiamo se tutto ciò corrisponda all’effettiva biografia di Bonvissuto; ciò che importa è che egli ha legato i tre racconti in una consequenzialità psicologica ed esistenziale ineccepibile e, visti gli illustri precedenti, classica. L’unico limite dell’autore, che delinea una prosa senza scarti, è l’incapacità ad elevare il discorso a riflessione universale e tragica, ristando nell’indugio di una dimensione particolare e privata.
Il carcere (il tema del più interessante dei tre racconti del libro: Il giardino delle arance amare) è, da sempre, una delle metafore più stringenti della condizione umana e degli inappagati aneliti dell’esistenza. Gramsci, Wilde, Dostoevskij, Settembrini, Salamov, Primo Levi, Pellico, Hikmet, François Villon scrissero dalla prigione; e Dante, Machiavelli, Seneca, Cavalcanti, Cicerone, Catullo lontano dalla patria. Fra i numerosissimi. Infatti, in modo apparentemente contradditorio, il carcere diviene anche luogo di poesia poiché l’esilio dalla socialità, e il silenzio dal clamore del secolo, spingono irresistibilmente sia all’inventario drammatico della propria esistenza sia ad una considerazione spietata e cristallina dell’esistenza umana – considerazione altrimenti impossibile se coinvolti nel flusso quotidiano delle amicizie, degli amori, delle conoscenze, degli obblighi. La limitatezza della prigione, quindi, con le sue tetre ripetizioni e i miserevoli espedienti per la sopravvivenza, finisce per stimolare una sorta di ripensamento stoico, filtrato da una nuova sensibilità purgatoriale, su sé stessi e sulla condizione umana in generale. Non a caso i due racconti del libro di Bonvissuto che seguono (Il compagno di banco e Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta) sono episodi minimi del passato, ma di densa nostalgia; la brutalità dell’esperienza carceraria ha, perciò, individuato e poi raffinato quei momenti della vita che ciascuno di noi, preso nei tumulti e nella vorticosi mediocrità d’ogni giorno, tende a smarrire, a ridimensionare, a derubricare a sbiadite istantanee fotografiche. Non sappiamo se tutto ciò corrisponda all’effettiva biografia di Bonvissuto; ciò che importa è che egli ha legato i tre racconti in una consequenzialità psicologica ed esistenziale ineccepibile e, visti gli illustri precedenti, classica. L’unico limite dell’autore, che delinea una prosa senza scarti, è l’incapacità ad elevare il discorso a riflessione universale e tragica, ristando nell’indugio di una dimensione particolare e privata.
Ma
attenzione: egli può vantare una peculiarità che nessuno possiede; ha scritto
quel primo racconto sul carcere oggi, e in Italia.
E quel racconto (tale giudizio
è forse colpevole d’una mia forzatura interpretativa tutta personale), pubblicato
in pieno 2012, qui e adesso, risalta come una metafora della sua e della nostra
patria, dell’Italia contemporanea. L’insensatezza della routine burocratica (“Il
dottore snocciolò una serie di domande, come recitasse un salmo … Non mi toccò
nemmeno con un dito … Infine si mise a compilare una cartella, una fotocopia di
una fotocopia, un foglio dove ormai non si vedeva più niente”); le
richieste sempre disattese o assecondate quando non vi è più bisogno d’esse; la
sala di ricreazione con un solo biliardino, scassato e inservibile; il cortile,
spoglio d’ogni cosa; la grottesca pantomima del voto (“Era assurdo nelle nostre condizioni votare per la composizione del
Parlamento della Repubblica Italiana … Per noi il paese reale era come se fosse
all’estero”); la divisione in clan etnici; i suicidi; l’esercizio dei
diritti civili svolto da figure fuori della legalità (il detenuto avvocato, lo
scrivano, lo spesino); la biblioteca senza libri; i muri incombenti (“Purtroppo non esistono muri fatti contro
qualcosa, perché i muri sono sempre fatti contro qualcuno, contro gli esseri
viventi”): tutto tratteggia una comunità post-democratica dove gli istituti
liberali vengono rispettati da una burocrazia formalistica, complice nell’assegnarsi
alibi, ma, di fatto, sopravvivono svuotati di senso e sostanza. Un paese -
proprio questo, l’Italia - dove la maggioranza ormai scivola a testa bassa
lungo sentieri già tracciati, trascinando la vita alla giornata, gravida di un
cinismo senza speranza e futuro, prigioniera d’un passato tanto più irrecuperabile
quanto più ferocemente rimpianto.
Tale chiave di lettura
sembra lecita; se non lo fosse renderemmo lo stesso merito all’autore per
averla stimolata.
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