Maria Teresa Carbone
Il
Gruppo 63 ha cinquant'anni. I giovanotti che circondavano Giuseppe
Ungaretti in una fotografia divenuta celebre sono per lo più –
quelli che ci sono ancora – distinti signori carichi di onori e di
riconoscimenti. Eppure, a leggere certi articoli usciti per la
ricorrenza (che sarà celebrata in autunno con un convegno, come con
un convegno in autunno tutto è cominciato), viene da pensare che,
mezzo secolo dopo, quel “Facciamoli incazzare” di Nanni
Balestrini da cui, stando alla testimonianza di Umberto Eco, nacque
la decisione di dar vita al Gruppo, rimanga una parola d'ordine
esplosiva, come se la spinta iconoclasta di allora non si fosse
esaurita.
Possibile?
chiedo a Balestrini, che in questi cinquant'anni ha scritto decine
di libri tra romanzi e poesie, ha avviato riviste su carta, in rete,
in tv, ha coagulato intorno a sé giovani autori e critici, ha
sviluppato un'attività sempre più intensa di artista visivo, senza
mai sfilarsi il suo manto di soave pigrizia (e senza neppure negarsi
qualche capitolo di vita avventurosa).
Come
è possibile che ancora oggi, intorno a un'occasione tutto sommato
polverosa come un anniversario, il Gruppo 63 abbia il potere di far
incazzare?
Forse,
per capire, bisogna ricordare che il Gruppo 63 è nato da una spinta
incredibilmente forte. In effetti, tutto era cominciato prima, alla
fine degli anni '50, con Luciano Anceschi, che aveva avuto il
coraggio di chiamare dentro la sua rivista, “il Verri”, una
quantità di giovanissimi molto diversi fra loro, ma accomunati da un
rifiuto radicale delle generazioni precedenti, ormai fuori dalla
storia. In Italia c'erano state enormi trasformazioni economiche e
sociali: il paese, da agricolo, era diventato industriale; le
migrazioni interne portavano a un rimescolamento di cittadini mai
visto; nascevano le metropoli, luoghi dove le persone non si
conoscono ma comunicano e mettono a confronto tradizione, cultura,
lingua. Del resto, la lingua italiana, quella che parliamo oggi, è
nata con l'immigrazione, la scuola dell'obbligo, la tv. A farla
breve, una trasformazione così in Italia non c'era stata dai tempi
di Roma antica. E noi ci trovavamo nel mezzo di questo cambiamento, e
dato che lavoravamo con il linguaggio, non potevamo non vedere che
gli scrittori della generazione precedente ignoravano questa società,
parlavano di contadini e di villaggi, non avevano idea di cosa
fossero le tecnologie e, soprattutto, scrivevano nella lingua di
Manzoni. E allora ci siamo detti: che fare? E la risposta è stata:
sperimentare.
Una sperimentazione tutt'altro che omogenea, che ha avuto diverse fasi.
Una sperimentazione tutt'altro che omogenea, che ha avuto diverse fasi.
Sì,
già all'inizio eravamo diversi, anche se tutti ci riconoscevamo in
quella utopia di cambiamento e di uguaglianza che da due secoli
pervade la società e soprattutto in comune avevamo questo desiderio
fortissimo di rompere con il passato, di agganciarci a quanto si era
prodotto in campo culturale fuori dall'Italia negli anni precedenti e
che da noi non era arrivato a causa del fascismo. A spingerci,
insomma, era la necessità di essere contemporanei. Ogni scrittore
desidera essere contemporaneo, ma la nostra, allora, era una
situazione di emergenza. In quei primi anni '60, ci siamo trovati ad
avere veri e propri scontri perché dovevamo demolire quanto era
stato scritto prima, dovevamo fare a pezzi i nostri avversari.
Volevamo dimostrare che la letteratura era diventata incomunicabile e
portavamo all'estremo la situazione facendo cose incomunicabili. Da
questo punto di vista l'esempio più radicale è il mio Tristano.
Per tutti, comunque, l'idea di fondo era che il mondo è composto di
tante storie che si accavallano e che di questo accavallarsi oggi
siamo consapevoli, per cui non possiamo tornare alle narrazioni
lineari di un tempo. Già il nouveau
roman,
in Francia, aveva cercato di rispecchiare questa situazione, di
portare nel linguaggio quanto si era fatto sul versante dell'arte e
della musica. Così scrivevamo cose deliberatamente illeggibili,
anche se, a differenza di quanto allora e dopo hanno detto in molti,
non volevamo distruggere la letteratura.
E
così, si può dire, è cominciata la seconda fase della
sperimentazione, quella in cui avete ripreso a “costruire”.
Secondo quali forme?
Beh,
a furia di distruggere, ci eravamo formati degli strumenti
linguistici ben affilati e quindi abbiamo cominciato a usarli, in
tempi e modi diversi, come diversi eravamo stati dall'inizio. Così è
stato per Arbasino che in Fratelli
d'Italia
ha elevato un certo chiacchiericcio a letteratura, così è stato per
Eco che con Il
nome della rosa
non ha rinnegato le teorie esposte in Opera
aperta,
ma ha scritto un testo fondato sui suoi studi delle tecniche di
comunicazione. E così è stato per me, da Vogliamo
tutto
in poi: sono partito dall'idea che l'oralità è, oggi come e più di
prima, pervasiva, e ho messo a punto una scrittura che mima la lingua
parlata attraverso una serie di procedimenti stilistici, dalle
ripetizioni all'abolizione dei punti e delle virgole. Una oralità
scritta che è, naturalmente, quanto di più letterario si possa
immaginare.
Oralità
letteraria... In Africa si parla di “oratura”, ma è tutta
un'altra cosa. In questi termini sembra un ossimoro.
Forse,
ma quello che voglio dire è che a me, di raccontare la realtà, non
interessa affatto, non ha mai interessato. Il mio obiettivo è fare
letteratura o, se vogliamo metterla diversamente, a me piace
armeggiare con le parole, a prescindere dal loro contenuto. Anzi,
sogno da sempre di scrivere un romanzo dove le parole non dicano
niente. Mi
piace pensare che con le parole non ho niente da dire
ma
solo qualcosa da fare.
E però, siccome il contenuto è una condanna alla quale, a quanto
pare, non si sfugge, scelgo temi che mi appassionino, la politica
spesso, e cerco di attingere, in un modo o nell'altro, a materiali
che trovo stimolanti: penso a libri come l'Autobiografia
della leggera
di Danilo Montaldi e poi, naturalmente, alle cronache dei giornali.
Questo
discorso vale anche per i testi poetici?
Per
quanto riguardo la poesia, fin dagli inizi la molla che mi ha spinto
a scrivere è stata una vera fascinazione per l'idea della variante
infinita. Avevo letto da ragazzo le varianti di Ungaretti e mi aveva
colpito il pensiero che l'elettronica potesse dare una risposta a
questa infinità di variazioni, dove fosse esclusa la nozione di
“edizione principe”, come un albero le cui foglie sono tutte
uguali e al tempo stesso tutte differenti.
In
certo senso, anche in prosa, la versione 2007 del Tristano,
dove – grazie all'editoria digitale – ogni copia è diversa, è
la realizzazione di quel sogno. Il che porta a chiederci: cosa è
cambiato rispetto a mezzo secolo fa?
Difficile
immaginare oggi una sperimentazione simile a quella degli anni 60,
opere come il Laborintus
di Sanguineti, per esempio. Eppure le reazioni al Gruppo 63,
l'avversione della generazione successiva, i legami con quella che è
venuta dopo, negli anni '90 e di cui fanno parte alcuni degli autori
e delle autrici più interessanti di oggi, perfino le polemiche
attuali, mostrano che la carica di quel periodo non si è esaurita.
Diverso, oggi, è il divario tra letteratura e editoria. Giangiacomo
Feltrinelli nel '61, quando ho cominciato a lavorare per lui, mi ha
detto per prima cosa che compito dell'editore è vendere libri.
Eppure pubblicava i libri del Gruppo 63, che non vendevano affatto,
perché capiva l'importanza di allevare nuovi autori, un po' come
fanno le squadre di calcio. Oggi invece l'editoria cerca un profitto
immediato.
Anche
questo è, in effetti, la spia di cambiamenti profondi, avviati con
la globalizzazione e di cui sono segnali gli scontri sociali sempre
più forti. Impossibile pensare a un nuovo Gruppo 2013 o 2023, che si
stia preparando a dare una nuova scossa poderosa all'esistente?
Mi
sembra presto, di solito i grandi ribaltamenti non sono mai troppo
ravvicinati. Però, forse, tra un po' di tempo, chissà.
L'intervista a Nanni Balestrini è uscita sul numero 14 (aprile-giugno 2013) della rivista "Il Reportage"
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