Pubblichiamo
qui l'incipit della presentazione di Stefano Rodotà al volume
Democrazia
senza partiti di Adriano Olivetti (Edizioni di Comunità), uno dei testi proposti nel
primo incontro di Ti
racconto un libro (Plautilla, lunedì 29 aprile 2013).
Stefano
Rodotà
Quando,
nel 1949, Adriano Olivetti pubblica Democrazia senza partiti,
il “moderno principe” si è già fortemente insediato nel sistema
politico italiano e ha trovato il suo riconoscimento istituzionale
nell’articolo 49 della Costituzione, dove si afferma appunto che
“tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in
partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la
politica nazionale”. Varrà la pena di tornare su questa
formulazione che, considerando il partito dal punto di vista dei
cittadini e vedendolo come strumento della loro partecipazione,
costruisce un modello assai lontano da quello che, soprattutto negli
ultimi tempi, abbiamo conosciuto. Ma, considerando lo scritto di
Olivetti, conviene segnalare subito la sua struttura: si apre e si
chiude con una esplicita discussione critica dei partiti, mentre la
parte centrale si presenta come una sintesi di quanto era già stato
scritto, nel 1945, ne L’ordine politico delle comunità. Questa
struttura induce a concludere che proprio nei partiti egli vedesse
l’insidia maggiore sulla strada del nuovo ordine politico da lui
vaticinato. Considerando la nuova stagione della critica dei partiti,
è d’obbligo chiedersi quale sia la parentela tra la critica
olivettiana, quella precedente (alla quale egli stesso si richiama,
citando Minghetti, Gioberti, Rosmini e poi Gobetti) e quella attuale,
che assume spesso i modi e le forme dell’antipolitica e approda ai
lidi della democrazia plebiscitaria o autoritaria.. Nessuna – vien
fatto di rispondere. E tuttavia questa affermazione richiede d’essere
in qualche modo argomentata. Le critiche, alle quali si fa
riferimento nelle pagine iniziali, in realtà hanno ad oggetto il
partito dell’età liberale e le degenerazioni politiche e
parlamentari che esso aveva prodotto. Ruggero Bonghi, autore di un
saggio su I partiti politici nel Parlamento italiano, aveva scritto
nel 1868 (lo stesso torno d’anni in cui scriveva Minghetti): “non
un impiego conferito senza raccomandazione di deputati, non una
promozione, quasi, accordata senza vista dell’interesse politico
(...); non un contratto stipulato dal governo, senza che chi lo
stipula fosse presentato da un deputato”.
Parole
che sembrano di oggi e che trovano echi in più d’una espressione
adoperata da Adriano Olivetti. Ma quel modello di partito, quando
Olivetti pubblicava questo saggio, era già stato sostituito dal
partito di massa, a proposito del quale in questo scritto non v’è
traccia di una ben diversa critica – quella di Mosca e Pareto, di
Sorel e Michels. Si può ritenere che questa omissione nascesse da
una sfiducia profonda nei confronti del partito in quanto tale, quali
che fossero le forme che veniva assumendo. Quella che verrà chiamata
“la repubblica dei partiti” gli appariva comunque sospetta fin
dal suo apparire. Se, tuttavia, si vuole stabilire quanto quella
valutazione pessimistica abbia poi avuto riscontri nella realtà, si
dovrebbe tener conto delle molte ricerche che hanno messo in evidenza
come nella fase costitutiva della democrazia repubblicana proprio
quel sistema dei partiti si sia rivelato come un forte strumento di
coesione e di garanzia dei diritti sì che, come scrive in un bel
saggio Mariuccia Salvati, “in Italia la crisi della repubblica dei
partiti lascia un vuoto che è sia istituzionale che costituzionale:
l’ondata di antipolitica, populismo, astensionismo che si inserisce
in questo vuoto rischia di minacciare l’intero equilibrio
democratico”. Muovendo proprio da questa considerazione, è agevole
concludere che la critica ai partiti di Adriano Olivetti non ha nulla
a che spartire con le ripulse di questi tempi, perché l’ordine
politico delle comunità, nel cui contesto quella critica si svolge,
è alieno da pericolosi scivolamenti verso le suggestioni del no alla
politica o del rifiuto d’ogni mediazione tra cittadini e
governanti, proprio perché le comunità sono la sede
dell’elaborazione politica e della mediazione sociale.
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