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sabato 22 febbraio 2025

MVL TEATRO: Il Ministero della Solitudine al Vascello

La solitudine è un dolente karaoke cantato a una bambola di plastica 

Maria Cristina Reggio 

Di cosa si potrà mai occupare un Ministero della Solitudine? Bisognerebbe chiederlo agli inglesi, che nel 2018 ne hanno istituito uno per la prima volta al mondo, seguiti a ruota nel 2021 dal Giappone, e la compagnia guidata dalla regista Lisa Ferrazzo Natoli con Alessandro Ferroni, disegnatore del suono ce ne mostra una possibile declinazione immaginaria portandolo nuovamente sul palcoscenico al Teatro Vascello. In scena, accanto ad un ufficio provvisorio dell’ipotetico Ministero dotato di tavolino con bolla del pesce rosso e piantina con innaffiatoio che evocano, forse, il prendersi cura di un altro essere vivente, campeggia, centrale e girevole, un grande blocco verticale che funge da cambio scena, su cui girano la grande parete di un alveare, un distributore di oggetti e un maxi frigorifero formato famiglia, elementi-simbolo di una socialità. Nonostante la rotatoria apparizione di questi oggetti, i cinque personaggi che popolano il palcoscenico non riescono a farli diventare luoghi di scambio di una comunità. Vi camminano intorno frettolosi incrociandosi nelle loro traiettorie solitarie, senza incontrarsi davvero, senza mai entrare in relazione tra loro, se non per pochi istanti.

Ciascuno percorre ossessivamente la sua strada, talvolta si ferma, acceso da un attacco di danza, o meglio ancora da improvvisi movimenti incontrollati del corpo che più che al ballo fanno pensare alla sindrome di Tourette, perso nella propria musica pop. Proprio quest’ultima- da David Bowie a Lucio Battisti - e il suo volume diventano l’elemento principale che traccia la drammaturgia, avvolgendo gli spettatori in quella fascinazione ormai ricorrente in molti spettacoli e di cui anche noi spettatori sembra che non sappiamo più fare a meno. Alcuni spettatori accendono perfino il cellulare con Shazam per riconoscere i brani. Eppure, stavolta qualcosa sembra non funzionare nel volume: la musica si sente talvolta ovattata, soffocata come se provenisse da un auricolare di un personaggio, per poi esplodere e avvolgere l’intera platea, simulacro di un immenso auricolare collettivo. 

Non è un guasto, no, è il punctum dello spettacolo, quel qualcosa che, per via della sua incongruenza, colpisce profondamente i nostri sensi di spettatori per dirci qualcosa di importante, su cui riflettere: ciascuno dei personaggi, come noi, è perso nel proprio ascolto individuale e solitario, il “dispositivo” - walkman, cellulare o televisore che sia - che ogni giorno trasporta i nostri suoni, le nostre voci e le nostre parole fino al massimo volume.  Il fragore della musica è la loro - e la nostra - compagnia, e allora non resta altro da fare, ciascuno per nel proprio sordo ascolto, se non improvvisare un celibe Karaoke ad una testimone inerte, una bambola umana che giace su una sedia a rotelle. 

IL MINISTERO DELLA SOLITUDINE 

regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni

drammaturgia del testo Fabrizio Sinisi 

con Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Francesco Villano 

Uno spettacolo di lacasadargilla, 

al Teatro Vascello dal 18 al 23 febbraio 2025

dal martedì al venerdì h 2, sabato h 19 e domenica h 17.




giovedì 20 febbraio 2025

DI BOSCHI E DI SELVE con MUTA IMAGO al Casale dei Cedrati



22 febbraio 2025 @ 11.00 – 12.30 Casale dei Cedrati, Villa Pamphili, via Aurelia Antica 219, Roma

Quinto incontro del ciclo Di boschi e di selve, al Casale dei Cedrati, nella serie di otto dialoghi mensili curati da Maria Teresa Carbone e realizzati in collaborazione con l’associazione Monteverdelegge. Le tante declinazioni che può assumere una foresta su un palcoscenico o su uno schermo sono al centro del quinto incontro del ciclo Di boschi e di selve, otto dialoghi mensili curati da Maria Teresa Carbone e realizzati in collaborazione con l’associazione Monteverdelegge: alla conversazione, ideata con Maria Cristina Reggio, partecipa Riccardo Fazi della compagnia Muta Imago, caratterizzata da una costante ricerca di forme e storie che mettano in relazione la sfera dell’immaginazione con la realtà di oggi.

Come in tutti gli incontri del ciclo, che vede la presenza di persone attive in campi diversi, dalla scrittura all’arte, alla scienza, il bosco si rivela agli umani fonte di risorse, entità oscura, territorio magico del sogno. Muta Imago è una compagnia teatrale nata a Roma nel 2006. È guidata da Claudia Sorace, regista, e Riccardo Fazi, dramaturg e sound artist, ed è composta da tutte le persone che sono state, sono e saranno coinvolte nella realizzazione dei lavori. Da anni la compagnia sta portando avanti un percorso di ricerca sulla percezione del tempo e sulle possibilità che il teatro ha di formulare nuove modalità di racconto che indaghino le caratteristiche del rapporto tra tempo, memoria e identità. Fanno parte di questa ricerca gli ultimi lavori prodotti: Tre Sorelle (2023), Ashes (2022) e Sonora Desert (2021).

domenica 23 ottobre 2022

IL DOPO TEATRO. Cassandra risorge con Sonia Bergamasco al Teatro Vascello

Il DOPO TEATRO è una conversazione che si svolge su WhatsApp dopo ogni spettacolo. Scaturisce da alcune domande che si sono poste le persone del gruppo di teatro dell'associazione Monteverdelegge che hanno visto lo spettacolo, e i dialoghi vengono trasferiti e montati qui nel blog con una breve introduzione. Maria Cristina Reggio

Resurrexit Cassandra, foto di scena di Hanna Hauer

Il gruppo Monteverdelegge Teatro è andato a vedere al Teatro Vascello Resurrexit Cassandra, con regia, scenografia e video dell’artista belga Jan Fabre, recitata da una bravissima Sonia Bergamasco su testi di Ruggero Cappuccio. In scena, su un pavimento pieno di serpenti di legno, abbiamo visto ergersi una splendida Sonia Bergamasco, immobile e gigante come una statua della sacerdotessa, proferire i suoi vaticini davanti a un video a parete in cui l’attrice stessa si dibatteva imbracciando un’ascia distruttrice.

JACOB: “Ho visto al Vascello la Cassandra con Sonia Bergamasco: uno spettacolo ben confezionato, estetico, ma freddo e senza emozione. Lei è brava, precisa e volutamente estraniante. Personalmente non è mi è piaciuto ma il pubblico e la critica ne parlavano entusiasti.
Cosa pensate?


MARIA CRISTINA: “A me è piaciuto moltissimo: la voce dell’attrice che all’inizio dello spettacolo parlava con timbro maschile, accentuava la dimensione mitica delle sue parole. Così alta, statuaria, immobile, Cassandra era presente e umana solo nelle sue parole dette e sputate, inascoltate per punizione divina. Secondo il mito, infatti, Apollo aveva punito la sacerdotessa cui aveva donato la facoltà della preveggenza perché lei aveva rifiutato il suo amore, e, sputandole in bocca, la aveva condannata a proferire parole cui nessuno avrebbe prestato fede”.

JACOB: “Lei è una brava attrice, penso semplicemente che lei abbia fatto e interpretato ciò che il regista le aveva chiesto e lo abbia fatto in modo pulito e chiaro, impeccabile. Siccome le parole di Cassandra non devono essere prese in considerazione, la recitazione era volutamente estraniata, ma questo a me non è piaciuto perché allontanava lo spettatore dall’attrice e dallo spettacolo. Il risultato era una recitazione forte e chiara, ma anche molto statica, e per me, in definitiva, noiosa. Le parole dell’attrice erano chiare con una perfetta dizione all’inizio, ma poi diventavano liquide come l’acqua che inonda una città.

CLAUDIA: “La protagonista sulla scena dava una voce diversa ad ognuna delle accuse che rivolgeva: una volta severa, una volta suadente, una volta sarcastica e volgare, ma dietro di lei scorreva un filmato in cui l'azione aveva un risultato sempre uguale: restava solo l'autodistruzione e nessuna voce poteva essere ascoltata.

MARIA CRISTINA: “Il video bianco e nero di Jan Fabre con Cassandra in azione, rabbiosa e con una ascia in mano,  era in perfetto contrasto con lei che in scena cambiava i colori e gli stili degli abiti, ma era immobile, statuaria. Secondo voi perché?

CLAUDIA: “Il video proiettato dietro a Cassandra non era in bianco e nero, anche se avvolto in una nebbia che ingrigiva tutto e lei indossava una camicina di colore sempre diverso, intonato con quello del vestito che portava in scena: nero, rosso, verde, blu, bianco. 
Il video secondo me voleva esibire lo sdoppiamento forse incomprensibile di un’umanità che inganna sé stessa: da una parte si agita e autodistrugge, così come faceva l’attrice nella grande proiezione, e dall'altra, con le parole di Cassandra in scena, dichiara la propria colpevolezza.


JACOB: “Ma perché uno spettacolo deve essere così concettuale? Se lei sulla scena è statica, ma  in carne e ossa, perché il regista ha voluto dare un po’ di movimento solo nel video proiettato dietro di lei? Secondo me è teatro nel teatro, una matrioska in cui il reale si confonde con la finzione, ma così il teatro diventa elitario e perde il suo senso.

MARIA CRISTINA: “Non credo che ci sia uno sguardo elitario nella regia, se ci mostra rabbiosa una Cassandra che il mito ha tramandato come vittima. Per me assistere al conflitto tra la donna statuaria e prigioniera dei propri abiti sul palco e quella che si dibatte nell’azione del video è uno stimolo a riflettere sulla figura tragica della sacerdotessa, e su ciò che essa rappresenta: in fondo, la sua preveggenza è sempre muta, nessuno dà ascolto alle sue parole e alla sua disperazione. E ancora oggi non la ascoltiamo.

Hanno partecipato alla conversazione Claudia Corpetti, Maria Cristina Reggio e Jacob Olesen.









mercoledì 20 luglio 2022

Libri e Spritz a Monteverde: Conversazione sul libro Che ci faccio qui, a cura di Maria Teresa Carbo

 

Venerdì 22 Luglio alle ore 18:30 

presso il CineVillage Monteverde (Largo A. Ravizza 1)

Da qualche anno tutti abbiamo in tasca un dispositivo che ci permette di riprodurre il nostro sguardo e di rilanciarlo nel mondo. Cosa succede, però, quando a fotografare, sono gli scrittori? Perché poeti e narratori decidono di aderire a un social come Instagram, dove dominano le immagini? E quale rapporto si instaura fra scrittura e fotografia?

Maria Teresa Carbone, autrice, giornalista e traduttrice, scrive su diverse testate, insegna giornalismo all’ateneo di Roma Tre e si occupa di educazione alla lettura
Maria Cristina Reggio, studiosa di arti visive e performative, è docente ordinaria all’Accademia di Belle Arti di Roma, dove insegna Comunicazione Multimediale



lunedì 7 febbraio 2022

IL DOPO TEATRO. Miracoli Metropolitani al Teatro Vascello

Il DOPO TEATRO  è una conversazione che si svolge su whatsapp dopo ogni spettacolo. Scaturisce da una domanda specifica che viene rivolta a quanti nel gruppo di teatro dell'associazione Monteverdelegge hanno visto lo spettacolo, e le risposte vengono trasferite e montate qui nel blog come un dialogo preceduto da una breve introduzione. 

Miracoli Metropolitani
Qualche giorno fa, al teatro Vascello abbiamo assistito allo spettacolo Miracoli Metropolitani messo in scena dalla compagnia Carrozzeria Orfeo, con la drammaturgia di Gabriele Di Luca che ne ha firmato anche la regia insieme a Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi. Premettiamo che, con questo testo, Di Luca è stato selezionato come autore italiano nel progetto Americano ITALIAN PLAYWRIGHTS PROJECT 3a EDIZIONE. Il testo scenico narrava le disgraziate vicende di sette personaggi che si incontrano in una improbabile quanto fetida cucina, allestita in una ex carrozzeria sotterranea: in un mondo futuro divenuto una gigantesca cloaca per via di un progressivo allagamento di materiali tossici, un cuoco fallito e sua moglie, contornati da figure tanto grottesche quanto disperate, preparano cibi a domicilio per la popolazione costretta a stare rinchiusa dentro casa. La finzione paradossale narrata sul palcoscenico rispecchia in modo sconcertante la realtà vissuta da tante persone durante la pandemia, coinvolgendo la platea in una partecipazione calorosa alle situazioni tragicomiche narrate e alle battute che – per lo più intrise di una giovanile grevità - incalzavano i dialoghi a ritmo serrato. Pareri contrastanti hanno diviso gli spettatori di Monteverdelegge teatro che hanno assistito a questo spettacolo, ed io stessa, di fronte all’entusiasmo degli spettatori che mi stavano intorno, mi sono fatta tante domande, così ho chiesto 

MARIA CRISTINA: Un gran successo ha accolto questo spettacolo, eppure il linguaggio mi ha lasciata perplessa, tra lo show televisivo e la commedia satirica.  E noi, abbiamo applaudito ammirati oppure ci  siamo sentiti estranei a tanto divertimento? C'era un cambiamento, un’evoluzione una trasformazione nei personaggi e nel modo di raccontarne la storia? A me sembra evidente la volontà di farli "redimere" rispetto all'exploit trash iniziale. Mano a mano diventano più interessanti, meno tagliati con l'accetta. 

 ANNAMARIA: Mi è piaciuto molto! Secondo me c’erano molti spettatori perché lo spettacolo era coinvolgente, cinematografico, ricco di un'alternanza tra momenti corali e intensi primi piani. Ho apprezzato la recitazione degli attori e l’ottima regia, in cui le sequenze si alternavano come quelle di un film, senza mai avere tempi morti. La drammaturgia e la scrittura erano molto efficaci e in grado di portare lo spettatore a connettersi con i temi della nostra attualità e a sentirsi partecipi dei drammi individuali di ciascuno. Per me la drammaturgia non ha raccontato la trasformazione dei personaggi, quanto piuttosto le sfaccettature delle loro personalità e attraverso questo processo ha messo in scena la loro storia personale e relazionale. 

ALESSANDRO: Lo spettacolo è durato due ore e quindici minuti senza intervallo e se partiamo da questa considerazione, ci rendiamo conto che dopo Giorgio Strehler e Luca Ronconi ci saremmo potuti trovare di fronte a uno spettacolo di alto, altissimo livello. Che dire...il pubblico, in una sala completamente esaurita, si è a più riprese sganasciato dalle risate ed ha applaudito entusiasta alla fine dello spettacolo. Quindi a molti è sembrato ottimo. Personalmente ho seguito il lavoro abbastanza sconcertato dalla risposta degli spettatori. Mi sono trovato di fronte ad un umorismo assurdo, ma, purtroppo per me, non nel senso di Beckett o Ionesco. L'autore scrive così: "Una commedia dove si ride tanto, ma dove non si sta ridendo affatto. L’alimentazione, il rapporto con il cibo come forma di compensazione al dolore, come alienazione di un Occidente decadente e sovralimentato, sempre più distratto e imprigionato dai suoi passatempi superflui, la questione ambientale, la solitudine e la responsabilità: sono questi i temi attorno ai quali di sviluppa il mondo di Miracoli metropolitani. È il racconto di una solitudine sociale e personale dove ogni uomo, ma in fondo un’intera umanità, affronta quotidianamente quell’incolmabile vuoto che sta per travolgere la sua esistenza." Si - sono questi i temi dello spettacolo, ma a mio avviso sono temi drammatici, su cui c'è da piangere, non certo da ridere. Cambierei il termine commedia in quello più consono di tragedia, avvertirei gli spettatori di portarsi dietro dei fazzoletti per tamponare le lacrime dovute sia alla storia (che parla di rifiuti venduti come alimenti, di un suicidio che segue una terribile vicenda personale, di un personaggio paralizzato dall'ictus) che agli spettatori che se la sono spassata così tanto su argomenti del genere. Certamente gli attori assolvono con convinzione alle parti a loro assegnate, la realizzazione è stata adeguata al canovaccio, io comunque sono uscito estenuato e senza applaudire (ero in terza fila centrale e mi imbarazzava uscire a metà spettacolo). Anche se attorno a noi la società è sempre più penosa e sconcertante, non mi sembra il caso di ridere sugli aspetti più deprimenti che ci offre. Comunque gli spettatori hanno riso e questo secondo me era spiegabile solo in due modi: o per effetto gregge (ricordiamoci di Tre uomini in barca di J.K.Jerome nel pezzo sulla canzone in tedesco) oppure perché si vedevano riflessi in uno specchio grottesco del mondo in cui viviamo. Ma se il mondo è questo che c’è da ridere? Aggiungo una considerazione sulla drammaturgia: nel corso della storia i personaggi subiscono leggere, minime trasformazioni, ma appunto le subiscono perché il tempo passa e i figli nascono, i prigionieri finiscono di scontare la pena, etc. Forse solo il ragazzo prende coscienza e sembra diventare l’unica evoluzione quasi positiva. Per me è stato un supplizio. 

FEDERICA: Mi associo a quanto detto da Alessandro, perché anche io non ho compreso le battute tutte prevedibili e tutto l’entusiasmo visto in sala e nei social. Non ho mai applaudito nemmeno io e la motivazione delle ovazioni credo fosse nella geniale operazione di marketing fatta dalla compagnia, che prevedeva persino un cartoncino con un QR - appoggiato ciascuna poltrona – che portava ai video dell’esilarante lavoro di backstage. Il cambiamento dei personaggi non mi è pervenuto, ma ho ammirato l’interpretazione del personaggio di Hope realizzata da Ambra Chiarello, l’unica che mi abbia davvero convinta con il suo humour intelligente, soprattutto quando tratta il tema dei rapporti degli italiani con gli immigrati. 

GLORIA: A mio modo di vedere, l'utilizzo di una chiave comica nel disagio intendeva ricreare un’altalena di stati d'animo divergenti. Su molte cose non ci sarebbe da ridere, eppure esiste il black humor che, nella risata, solleva una consapevolezza amara e angosciante. Inoltre l’umor nero, che necessita d'esser sottile, era affiancato da caratteristiche affini alla blue comedy, che tende a lanciar battute più esplicite, grezze e volgari. Del resto, però, lo sprezzo tipico di quest’ultima ben rappresenta la realtà contemporanea, con i suoi stereotipi, le sua banalità e la sua sgarbatezza minacciosamente presenti. In questo contesto non giudicherei la bassa comicità come fine a sé stessa, ma piuttosto come profondamente educativa.
Credo che nessuno potrebbe considerarlo uno spettacolo divertente, così pervaso come è dall’angoscia della solitudine familiare, in cui l’inconsistente materialismo e la viltà portano al fallimento educativo, come ad esempio la retorica di un idealismo estremo che si perde nel comportamento concreto e quotidiano della figura della nonna, madre che, lottando per i suoi ideali socio-politici aveva reso il figlio un orfano d'amore. Di fronte a tutto questo, la figura del professore è il simbolo di una sorta di redenzione, con la sua disponibilità affettiva e gratuità di intenti. E tutto questo ci fa riflettere, meditare


Hanno partecipato alla conversazione Alessandro D., Annamaria C., Federica B., Gloria e la sottoscritta.

                                                                                                                                    Maria Cristina Reggio

lunedì 6 dicembre 2021

IL DOPO TEATRO. Tavola tavola, chiodo chiodo al teatro Vascello

Il DOPO TEATRO è una conversazione che si svolge su whatsapp dopo ogni spettacolo. Scaturisce da una domanda specifica che viene rivolta a quanti nel gruppo di teatro dell'associazione Monteverdelegge hanno visto lo spettacolo, e le risposte vengono trasferite e montate qui nel blog come un dialogo preceduto da una breve introduzione
Te piace ‘o teatro?” “Si, tanto”, sembrano dirsi Lino Musella e gli spettatori del teatro Vascello. Premio UBU per il migliore attore nel 2019, durante il lockdown ha preparato con Tommaso De Filippo lo spettacolo Tavola tavola, chiodo chiodo. Sul palcoscenico, questo straordinario attore ha portato la lotta per difendere il teatro compiuta per tutta una vita da Eduardo de Filippo, grande attore, autore e regista italiano. In scena Musella lo impersona mentre scrive e pensa ad alta voce, lavorando incessantemente, accompagnato dal suono vivo della chitarra vibrante di Marco Vidino. Fin dalla prima scena, infatti, armeggia intorno a un insieme di piccoli pezzi di legno che compone per farli diventare il modellino del “suo” Teatro San Ferdinando, e vi si dedica con la stessa devozione amorosa che aveva Luca, il personaggio più famoso di Eduardo, il protagonista di Natale in casa Cupiello.

MARIA CRISTINA «Il suo lavoro è una “costruzione” del teatro, sia come luogo che come istituzione culturale, ma la sua è una battaglia persa: alla fine dello spettacolo il suo modellino crolla come un castello di carte. Tutto questo lavoro, per costruire»

CARLA «Costruisce materialmente il teatro come fosse la sua casa, perché in fondo la sua vita è coincisa con il teatro»

MARIA CRISTINA   «Traffica sempre, lavora, inchioda, dipinge, monta un riflettore che va in soffitta, accende candele su una ribalta di ferro, ogni tanto risponde al telefono a un’Eccellenza che gli propone di diventare direttore del Teatro Stabile di Napoli, scrive e legge lettere indirizzate agli amici, ai colleghi, ai politici»

ALESSANDRA «Nel grido di dolore che traspare dalle lettere che scrive alle istituzioni, c’è amarezza, ma anche rabbia e sgomento verso coloro che non riescono a riconoscere l’immenso valore del teatro, del suo teatro, nella costruzione di un mondo nel quale si identificava pienamente»

ORNELLA  «Monta e smonta le assi del modellino del "suo" teatro, il San Ferdinando, allestisce le luci di scena, accende e spegne candele, ma attraverso tali gesti mette in scena la costruzione stessa della macchina teatrale mostrandone gli ingranaggi, che padroneggia da abile artigiano (come dice il titolo, "Tavola tavola, chiodo chiodo"). Le candele diventano così parte di un rito che si compie sul palcoscenico, illuminando un'inferriata che via via rappresenta un balcone di scena, la grata del carcere minorile Filangieri di Napoli, per i cui ragazzi Eduardo tanto si è speso, e altro ancora» 

ALESSANDRA «Costruisce tante cose … un futuro, una speranza, un riscatto, la memoria di una città, di un popolo»

MARIA CRISTINA «Con il suo corpo inventa, sì,  e costruisce cose e persone»

ORNELLA «Il corpo dell'attore "inscena" una grammatica di gesti e suoni: con il solo movimento della spalla Eduardo-Lino mostra il dolore interiore per la morte della figlia Luisella, mentre dal corpo-a-corpo fra Eduardo e Gervaso sul senso della vita, sul lavoro, sui rapporti sociali, sui valori (un pezzo di rara bravura, in cui Musella interpreta sia l'intervistato che l'intervistatore) emergono lo spessore umano e la passione civile dell'artista, e insieme la denuncia attualissima dell'insensibilità del potere politico».

Hanno partecipato alla conversazione Alessandra della Corte, Carla Zaccaro, Ornella Munafo e la sottoscritta.

ps. Ci permettiamo di segnalare che Valentina V. Mancini nella sua bella recensione per Teatro e critica, ricorda che il titolo Tavola tavola, chiodo chiodo recita come la lapide eretta in memoria di Peppino Mercurio, lo storico macchinista del San Ferdinando. 
Maria Cristina Reggio

mercoledì 1 dicembre 2021

IL DOPO TEATRO. Antichi Maestri al teatro Vascello

Il  DOPO TEATRO è una conversazione che si svolge su whatsapp dopo ogni spettacolo. Scaturisce da una domanda specifica che viene rivolta a quanti nel gruppo di teatro dell'associazione Monteverdelegge hanno visto lo spettacolo, e le risposte vengono trasferite e montate qui nel blog come un dialogo preceduto da una breve introduzione.
  Il gruppo Monteverdegge teatro ha visto al Teatro Vascello Antichi maestri, traduzione teatrale di Fabrizio Sinisi dall’omonimo libro di Thomas Bernhard, per la regia di Federico Tiezzi. Sandro Lombardi in gran forma è il perfetto protagonista Reger, un uomo ossessivo e bisbetico che da trent’anni si siede per l’intera giornata su una panca in una sala del Kunsthistorishes Museum di Vienna per osservare sempre lo stesso quadro, L’uomo con la barba bianca di Tintoretto. Atzbacher è un giovane uomo che dialoga con Reger, forse un suo amico o un suo estimatore, interpretato dal bravo Martino D’Amico, che prende appunti sul suo taccuino per disegnare a parole un ritratto di Reger, mentre il guardiano del museo, Irrsigler, non proferisce parola per tutta la durata dello spettacolo, ma semplicemente fa il guardiano: osserva, controlla, si allena, si sgranchisce, tutto senza dire alcunchè. Lo spazio scenico è contenuto in una specie di light box il cui perimetro è disegnato da tubi al neon, e al centro del quale, tra ritratti stampati in negativo, campeggia il quadro di Tintoretto. Anche se tutta la pièce si costruisce e sviluppa intorno a questo dipinto, del suo contenuto il protagonista non parla mai nel libro di Bernhard, e neppure nello spettacolo. Ma disserta di tante altre opere d’arte, che detesta e ritiene imperfette, concludendo tuttavia con l’invitare uno stupito Atzbacher a vedere uno spettacolo teatrale.
Tintoretto, L'uomo con la barba bianca, 1564
Il ritratto in questione mostra un anonimo vecchio canuto, che campeggia su un fondo scurissimo, di tre quarti, mentre osserva severo il suo ipotetico osservatore. Indossa un cappotto imbottito e mostra solo il dorso di una mano chiusa sul gonfio e ricco addome.

Perché Bernhard, l’autore di Antichi maestri e poi anche il regista Tiezzi, mettono il protagonista e noi spettatori proprio di fronte a quel quadro di Tintoretto?

Chi è quell’uomo che guarda non solo i personaggi, ma soprattutto la platea e che, soprattutto, si lascia guardare?

Con il gruppo di Mvl teatro abbiamo provato a dare delle risposte, inaugurando con la nostra conversazione virtuale un inedito dopo-teatro.   

Patrizia: “A me sembra che la scelta di Bernhard sia stata dettata dalla capacità che questo dipinto ha di evocare le tematiche trattate nel testo. Il guardare che diventa 'vedere' è sottolineato dalla potenza del volto, illuminato da una luce, che emerge dal buio. E questo volto, visivamente al centro della scena, contiene nello sguardo la necessità di interrogarsi sull'esistenza e sul vuoto di presenza, sull'assenza, non solo intesa come presenza fisica, ma anche come imperfezione della descrizione, della rappresentazione che l'Uomo fa del mondo, della realtà. Secondo me la dinamica di svelamento di questo ritratto si collega anche con l'esperienza della perdita della moglie che Reger sta vivendo”. 

Antonella: «La scelta di mettere al centro l'opera del Tintoretto potrebbe rappresentare l'evanescenza del vivere. La parabola del protagonista si fonde con lo sguardo dell'uomo con la barba bianca che a me sembra indagatore, ma anche benevolo. Credo che quel vecchio potrebbe essere il suo alter ego»

Alessandro: «La mia analisi sulla bellissima messa in scena di Antichi Maestri parte dalla fine della rappresentazione. Il regista, dopo che il custode ha riposto tutti i quadri in negativo nel magazzino per la chiusura giornaliera, ci mostra, con un sapiente gioco di luci, la trasformazione dell'unico quadro rimasto, L'Uomo con la Barba Bianca, nel viso di un uomo più giovane e con la barba corta come il protagonista, Reger. Il regista svela con questa soluzione scenica la sua opinione, quella che identifica l'uomo del quadro del Tintoretto con il protagonista, magistralmente impersonato da Sandro Lombardi. Reger dunque per trent'anni guarda sé stesso e se ne compiace, sottolineando nello stesso tempo la volgarità e la sporcizia della gente che vive nella sua città e oltre i suoi confini, nel mondo. Ma perché l'amico scrittore Atzbacher è così affascinato da Reger? Perché pende dalle sue labbra prendendo nota di tutto quello che dice? Tra le molteplici interpretazioni, quella che mi sembra personalmente più suggestiva, è questa: potrebbe trattarsi di una critica alla narcisistica autoreferenzialità dell'arte, rappresentata da Reger, e alla sostanziale incapacità di comprensione da parte di commentatori e critici, rappresentati da Atzbacher»

Maria: «Molto in breve, io penso che il quadro funga da quarto personaggio e come gli altri partecipi al gioco di specchi che si instaura tra di loro, in cui ciascuno guarda qualcun altro o tutti gli altri. In risposta al contradditorio monologo di Reger, allo studio che Atzbacher fa di lui, e al custode che sembra, col suo di occhio statale, controllare tutti gli altri, L’uomo dalla barba bianca rivolge il suo sguardo quasi ammiccante, ironico e forse derisorio, agli altri e al pubblico . Forse clii sta dicendo semplicemente che quello che l’arte non può dare risposte, ma solo esprimere l’interiorità umana che si pone le domande. Non è la perfezione lo scopo dell’arte, e non serve cercarne l’imperfezione che potenzialmente possono contenere le opere. Non esiste la perfezione, ma l’uomo la insegue nel tentativo di comprendere la vita e la morte. Perché proprio quel quadro? Perchè raffigura un uomo anziano che, oltre a rispecchiare Reger, esprime la saggezza umana che solo il pensiero esercitato nel tempo e l’esperienza di una vita intera possono permettere; esprime il disincanto di chi constata che nulla può essere compreso fino in fondo»

Maria Cristina: «Forse è muto come tante opere d’arte che, indifese e indifferenti di fronte ai giudizi degli umani, sono indispensabili proprio a farli pensare, giudicare, confrontare, parlare. Le opere ci guardano, come diceva il pittore Paul Klee» 

Hanno partecipato alla conversazione Alessandro Drago, Antonella Cecchi Pandolfini, Maria Vayola, Patrizia Vincenzoni e la sottoscritta. 
                                                                                                                                       Maria Cristina Reggio 







domenica 2 febbraio 2020

MVL TEATRO: Una Locandiera da non perdere, al Teatro Vascello fino al 2 febbraio


Nel 1783, a Parigi, Goldoni scriveva i suoi Memoires, ed a questa sua autobiografia si ispira Andrea Chiodi, regista con i Proxima Res de La Locandiera (al Teatro Vascello fino a domenica 3 febbraio, da non perdere), una tra le commedie più famose del grande veneziano.

Il perfetto orologio teatrale di Goldoni, la dinamica regia di Chiodi, l’esilarante estro attoriale di Tindaro Granata e l’elegante disinvoltura di Mariangela Granelli creano una narrazione che rapisce emotivamente gli spettatori, trascinandoli nell’incanto collettivo di un divertimento intelligente che gode tra arguzia e oscenità.
Il meccanismo teatrale, obbediente ai ricordi narrati da Goldoni nelle sue memorie, si sdoppia tra un gioco di attori in carne ed ossa e di bambole (simili a quelle con cui il commediografo, bambino, muoveva i primi passi nel campo dell’invenzione teatrale) che “giocano” a specchio i loro ruoli, sopra e sotto un lunghissimo tavolo sul palco. Gli attori, con la pelle incipriata e splendide parrucche in pastasciutta e costumi di Margherita Baldoni, che paiono usciti intatti da un baule di scena del Casanova creato da Danilo Donati per Fellini, interpretano bravissimi, in cinque, tutti i ruoli, resuscitando proprio quella comicità, talvolta molto più fisica che intellettuale, tipica di quella commedia dell’arte che Goldoni si era impegnato per una vita a riformare.

A mo’ di quinte infatti stanno sospesi in scena, su attaccapanni mobili, tutti i costumi dei personaggi, che i cinque attori, perfetti emuli di una compagnia di giro, (Caterina Carpio, Caterina Filograno, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Fabio Marchisio) si cambiano in scena con grande maestria e nonchalance. Qua e là Mirandolina accenna il noto canto della contadina insidiata da Don Giovanni, additando, come ora si suole, una certa similitudine tra la locandiera e l’aristocratico conquistatore punito. Ma se pure le arie di Mozart arrecano sempre piacere all’orecchio, anche se solo canticchiate, il parallelo tra i due personaggi suggerito dalla regia poco si confà alla saggia Mirandolina, più simile piuttosto alla collega Zerlinetta, che nel Don Giovanni abbandona i fantasiosi giochi della seduzione e punta sul sicuro, sposandosi il meno fascinoso Masetto, anzi no, Fabrizio.
 Maria Cristina Reggio



mercoledì 5 dicembre 2018

MVL teatro: Il decennio dei giovani leoni di Piazza del Popolo



Maria Cristina Reggio 
Fino al 9 dicembre va in scena al Teatro Vascello Fiato d’Artista, un diario teatrale che ha come sfondo la Roma degli anni Sessanta. Protagonista e autrice è Paola Pitagora, attrice che noi tutti, nati intorno a quel decennio abbiamo conosciuto come l’indimenticabile Lucia dei Promessi Sposi, incorniciata dalla coroncina stellata nel monitor bianconero della tivù. Erano i tempi dell’intervallo con le città d’Italia su sottofondo musicale della Sonata per arpa di Pietro Domenico Paradisi, quando le macchine percorrevano allegramente i centri storici e venivano parcheggiate anche in piazze come Piazza del Popolo, ora divenuta isola pedonale per le comitive di turisti che assaltano la capitale, nonché luogo orribilmente transennato per occasionali intrattenimenti politici e musicali. Proprio questa piazza è teatro virtuale del racconto dell’attrice, pubblicato nel 2001 da Sellerio con il titolo Fiato d’Artista, Dieci anni a Piazza del Popolo, affidato qui alla regia di sua figlia Evita Ciri e di Nicola Campiotti, e alla recitazione di due giovani attori, Giulia Vecchio e Francesco Villano. Lei controfigura dell’attrice ventenne e lui del suo giovane amore, Renato Mambor, artista della cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo. Con tantissime belle immagini proiettate su un fondale bianco, per la gioia degli occhi e del cuore di chi ha l’età per riconoscere luoghi e personaggi di quegli anni.

É un racconto che si snoda soprattutto sul piano sentimentale, sia tra i due protagonisti, a cui la stessa Paola Pitagora, presente in scena, affida la recitazione di alcuni momenti fondamentali della loro storia, sia con gli altri personaggi, qui solo evocati, con cui i due condividevano le giornate e le notti. Nei frammenti narrati si ritrova il fermento di una generazione ormai per lo più trascorsa, divenuta ormai il soggetto di un tempo dimenticato, un passato remoto: Jannis Kounellis, Mario Schifano, Pino Pascali, Sergio Lombardo, Tano Festa, Franco Angeli, Francesco Lo Savio, Renato Mambor e Cesare Tacchi. Questi erano gli artisti che negli anni Sessanta si incontravano al bar Rosati, dove trascorrevano lunghe ora a dialogare di arte e a inventare la battaglia di una nuova avanguardia italiana che nasceva sulle ceneri della guerra perduta dai futuristi e che cercava un proprio spazio in un mondo conquistato culturalmente dalla nuova capitale del mondo, New York. Più o meno erano tutti maschi, tranne Giosetta Fioroni, e tutti belli, anzi magnifici, eroici, e, alcuni di loro, destinati a morire giovani, proprio come si addice all’epica della giovinezza: è il caso esemplare di Pino Pascali, la cui vita si infranse mentre correva con la sua amata motocicletta alle quattro del mattino, proprio nei sottopassaggi del Muro Torto a due passi da Piazza del Popolo, come racconta in scena la stessa Paola Pitagora con parole emozionate.

Erano una decina di artisti che, proprio in quegli anni, si nutrivano di un poderoso fiato d’artista ispiratore, ma anche di una profonda e rigorosa meditazione teorica. Successivamente avrebbero intrapreso altre strade, spesso divergenti e con fortune diverse, alla ricerca di una rifondazione dell’arte e dei suoi linguaggi e strumenti. Di tutto questo Paola Pitagora è l’affettuosa testimone, che – sedotta dalle idee estetiche di quegli ultimi fascinosi del secolo trascorso – si ribellò ai divieti di un padre borghese che sognava per lei un avvenire di donna tranquilla, per partecipare alle vicissitudini di Renato Mambor e del gruppo di artisti di Piazza del Popolo. Ma che, di fronte agli slip di una amante occasionale trovati nel letto e denunciati con noncurante candore dal divertito fedifrago, lo piantò in asso sbattendo la porta e se ne andò per seguire la sua strada verso una carriera di attrice affermata. Affettuosa malinconia è il sentimento che resta per questa storia, ma forse ogni ricordo che osserva a ritroso una rivoluzionaria giovinezza che si è conclusa lascia questo sapore dolce e amaro insieme. Nel frattempo i giovani leoni della Scuola di Piazza del Popolo hanno scritto un capitolo fondamentale della storia dell’arte, e di questo si parlerà ancora nella rassegna Fiato d'Artista al Teatro Vascello, in un ricco programma di incontri, fino al 9 dicembre.

giovedì 13 aprile 2017

Monteverdelegge teatro: Vecchi per niente al Teatro Vascello

Maria Cristina Reggio
Il regista Nicola Russo racconta in Vecchi per niente al Teatro Vascello (in scena fino al 14 aprile) la vita di due uomini e due donne non più giovani, e lo fa  insieme con gli attori Benedetta Barzini, Sara Borsarelli, Teresa Piergentili  Marco Quaglia, Agostino Tazzini, Guido Tonetti: niente è più difficile che superare uno stereotipo così radicato nella società attuale come quello legato alla vita della maggior parte dei vecchi, esiliati dalla tecnologia e dunque da quella che oggi è la dimensione sociale più frequentata,  e le cui le cucine e soggiorni sono bombardate dagli spettri televisivi di malattie, dolori muscolari, artrosi e incontinenze che ottundono le giornate trascorse prevalentemente a casa, spesso  in compagnia delle badanti.

  Lo spettacolo, filtrato dalle teorie di Hilmann sul carattere, si vuole snodare con una prospettiva ribaltata, per cui i personaggi non vivono solo nel presente, ma  frequentano continuamente  il loro passato, alla ricerca ciascuno del proprio rapporto con i rispettivi genitori. Ma una domanda sorge spontanea: i vecchi veri non hanno sempre uno sguardo rivolto poco al loro presente, ma piuttosto  verso il proprio passato individuale più remoto?  E non è  anche questo un luogo comune? Quante nonne e nonni ripetono con estrema vividezza il racconto di quando erano bambini, senza riuscire e ricordarsi cosa hanno fatto il giorno prima. Ma l'assenza di una vera novità non cambia molto nella resa comunque interessante e problematica di questo breve spettacolo, in cui quattro attori-personaggi che indossano una maschera coincidente con il proprio corpo e il proprio nome, Teresa,  Benedetta, Agostino e Guido, si incontrano in scena per intrecciare i propri racconti.  Sul palco non ci sono elementi di arredo al di fuori di quattro sedie , mentre lo sfondo è un fondale verde cromakey, come quelli che si usano in televisione dietro ai giornalisti del tg per fare apparire, dietro di loro, le scene registrate in altri luoghi del mondo.

Quindi Teresa,  Benedetta, Agostino e Guido abitano in un luogo senza definizioni spaziali e temporali, catapultati in un limbo qualsiasi dove possono attraversare il tempo e lo spazio  e dove vengono a loro volta "interpretati", come in uno psicodramma di Moreno,  da due attori più giovani, Sara Borsarelli e Marco Quaglia, nel loro rivolgersi ai loro stessi genitori vecchi, dove l'influenza del setting e del linguaggio psicoterapeutico sembra alludere, a tratti, ad un In Treatment di matrice televisiva. In questo attraversamento dello spazio e del tempo trasuda l'intima umanità battagliera  di questi personaggi, così come l'ha disegnata il regista insieme agli attori, i cui toni sono volte un po' troppo da caratteristi, ma comunque  in bilico precario tra la realtà e la finzione e dunque al tempo stesso comica e sorprendente, ma anche quotidiana, ordinaria, per cui non ci si stupisce se, all'uscita da teatro alcuni attori sembra proprio che  indossino  gli stessi abiti che avevano in scena.  Senza tragedia, questi sei attori-personaggi non sono in cerca di autore, ma sembrano piuttosto alla ricerca di un luogo dove raccontare frammenti delle loro vite: che  sembri il set di uno studio terapeutico oppure un confessionale televisivo oppure, senza distinzione, un  palcoscenico teatrale, poco importa perché un  pubblico li ha ascoltati comunque e questo forse basta a dare voce alle storie di tante  persone vecchie che,  chiuse nelle loro reumatiche solitudini, si scolorano in un anonimato muto. 

lunedì 11 aprile 2016

MVL teatro: Gli Innamorati e il loro bisticci al Teatro Vascello

  Maria Cristina Reggio
L'amore è un gioco? Secondo Goldoni e la regista Andrée Ruth Shammah pare proprio di sì. Una scena elegante, quasi di memoria viscontiana e che narra con le sue crepe e a tinte smorzate, una  sobria ricchezza in rovina, fa da sfondo a personaggi de Gli Innamorati (al Teatro Vascello), vestiti tutti con le diverse tonalità dei bianchi e  all'eterna storia di due giovani  amanti tra cui si insinua una dispettosa quanto ben nota gelosia. Tutto è a tinte chiare, tonale come una tavolozza pittorica tipicamente italiana, compreso l'adattamento drammaturgico di Vitaliano Trevisan che, pur non avendo bisogno di alleggerire la già lieve trama borghese goldoniana, la arricchisce di punteggiature di teatro nel teatro che ammiccano con intelligenza divertita agli spettatori. Nessuna introspezione psicologia, ma solo tipi: nonostante tutti siano vestiti di bianco, ciascun personaggio  è immediatamente riconoscibile per via di una propria postura caratteristica e individuante, frutto senz'altro di un disegno registico estremamente rigoroso che ha deciso anche con estrema precisione le diverse coreografie di ogni scena: infatti si può in questo caso parlare proprio di coreografie, perché il corpo di ogni attore plasma  con i suoi gesti e movimenti il personaggio in ogni singola scena.

Marina Rocco nei panni di Eugenia, vestita con un abito di tulle simile a quelli di certe bambole parenti di Barbie, ha la gestualità  infantile tipica di una adolescente sdilinguita che ricorda le sit- com televisive. Con piglio sapiente e affidandosi, tramite l'impostazione registica,  a un notevole talento naturale, inventa un repertorio finito di figure: fa le faccette, si butta per terra, si strappa i capelli e gesticola simpaticamente in un modo che sembra avere poco a che fare con il teatro, ma che immediatamente attraggono verso di sé l'entusiasmo partecipe della platea, al punto da far quasi credere di sentire il sottofondo delle risate preregistrate tipiche di certe commedie televisive.  I  bisticci tra Eugenia e Fulgenzio- Matteo De Blasio, il suo fidanzato, seduti ambedue ai lati opposti di un ideale segmento, si dipanano con un ritmo crescente, in cui il dialogo si alterna continuamente all'abbraccio e alla rissa fino a  interrompersi,  ogni volta,  per via di una  nuova, piccola sorpresa che muove,  con andamento ondulatorio, le sorti dell'intreccio, piuttosto scontato, a dire il vero. Infatti i due si amano, poi si lasciano, poi si riprendono, poi lei si promette a un altro, ma la di lei saggia sorella Lisetta (una Elena Lietti deliziosamente minimalista che incarna anche una elegantissima quanto stralunata Clorinda) convince quest'ultimo a sciogliere il fidanzamento in favore dell'unico amato Fulgenzio.

C'è da ridere parecchio, a vedere questa bagarre amorosa per la quale i consigli più saggi vengono spesso dai più semplici, incarnati dai servi (come il puntuale Succianespole di Andrea Soffiantini) : un amore che conduce sempre dritto filato verso nozze che rendono finalmente agiata la vita della giovinetta la cui famiglia è ridotta sul lastrico da un vecchio zio sperperatore. Nel Settecento Goldoni metteva al centro, seppur con estrema destrezza e sagacia, quello stesso sentimento- chiave che non conosceva ancora il romanticismo e che oggi viene considerato, con estrema serietà, come fondativo di ogni legame di tipo matrimoniale, e tratteggiava invece come uno sfondo tenue il tema dei vincoli economici, che, paradossalmente, proprio in una società contemporanea che afferma di credere fermamente nell'amore, oggi sono assurti a oggetto centrale di un diritto acquisito e reclamato a viva voce dagli  aspiranti a ogni tipo di unione matrimoniale, anche quando si chiama solo civile.

GLI INNAMORATI, di Carlo Goldoni regia di Andrée Ruth Shammah, produzione Teatro Franco Parenti.
fFno al 17 aprile al Teatro Vascello,  dal martedì al sabato ore 21, domenica ore 18
biglietti scontati per i soci di Monteverdelegge esibendo la tessera

lunedì 7 marzo 2016

mvl teatro: la rinascita di Dionysus al Teatro Vascello

Daniele Salvo Dionysus
Maria Cristina Reggio

Se  nel 2016 Dioniso, il dio nato due volte, potesse rinascere per una terza,  avrebbe forse le fattezze de Il Corvo - Brandon Lee, ovvero l'attore morto per un tragico errore mentre  interpretava sul set il personaggio di Eric Draven? Oppure il Joker nemico di Batman, tutto nero e con il volto dipinto di bianco?  Questa sembra essere l'ipotesi avanzata da Daniele Salvo nella sua regia  di Dionysus, lo spettacolo con cui il regista reinterpreta l'ultima opera di Euripide, Le Baccanti, al Teatro Vascello di Roma (fino al 13 marzo), con Manuela Kustermann nei panni di Agave, il personaggio-chiave che sconvolge la seconda parte della tragedia.  Una fantasmagoria video di fuochi divampanti e cupi cosmici cieli turbinosi fa  da sfondo alla riapparizione del nero Corvo-Dioniso nei panni dello stesso Daniele Salvo, avvampando nella magica e semplice perfezione del palco del teatro Vascello, spogliato di attrezzerie per l'occasione e che si mostra in tutta la sua dolcissima slabbrata nudità di mattoni dipinti di nero, dove la texture della vernice, ormai consunta, si porta dietro la storia del glorioso teatro di avanguardia.  Ma non c'è alcuna intenzione di volere fare un teatro di ricerca né di avanguardia nelle note di regia dell'attore-regista Daniele Salvo, animato piuttosto dall'assoluta  certezza di poter "partire da Euripide tornando ad Euripide".
 
Cosa significano allora questa partenza e ritorno programmatici? Di sicuro la volontà di utilizzare il testo così come è stato scritto, senza interventi di riscritture testuali di sorta, attraverso cui mettersi ipoteticamente anche  in competizione con l'autore che, scomparso da più di duemila anni, non potrebbe tuttavia nemmeno mostrare il suo disappunto. Infatti il regista inserisce  anche alcune registrazioni-citazioni recitate da voci acusmatiche, recitate in autentico greco euripideo, che tuttavia, proprio essendo gli orecchi della platea avvezzi a registratori e altoparlanti, non suscitano la commozione e lo sgomento sperati di fronte all'apparizione sonora del  deus ex machina, ma piuttosto il riconoscimento dell'effetto teatrale e la paziente ricerca, magari, di una traduzione con sovra-titoli.   Si potrebbe obiettare che ogni interpretazione teatrale è, a  suo modo, una forma di riscrittura, soprattutto quando il testo è tradotto da una lingua ormai morta da secoli: il tentativo di accostarsi al testo in maniera "filologicamente corretta" è destinato a rivelarsi comunque una forma di travestimento, che piaccia o no, e talvolta perfino risibile, di fronte al quale l'invenzione del semplice modern dress, già sperimentata dagli artisti  del rinascimento,  geniali ri-scrittori per antonomasia, sarebbe senz'altro più efficace e capace di avvicinarsi al pensiero degli spettatori di ogni tempo.
Ma, oggi, mettere in scena una tragedia greca come Le Baccanti può tradursi nel trascinare sul palco un'emotività violenta,  gridata  attraverso una recitazione espressionistica che non lascia mai spazio alla pausa, al  silenzio, all'immobilità e alla fermezza degli eroi  e del coro che li accompagna? Forse si, se si paragona una star del rock al dio dell'ebbrezza alcolica e dell'estasi erotica, attorniandolo di menadi parzialmente vestite con pelli lanose di capre e cornuti copricapi che danzano languide  coregrafie sensualeggianti. Si, se si assimila il tragico all'abusato perturbante come lo definiva Freud,  ovvero a un fenomeno o personaggio che a un primo impatto dovrebbe essere familiare, ma che poi  all'improvviso si rivela spaventoso, terrorizzante: così  il cavaliere oscuro  Joker che porta il male e il caos nella città di Gotham.  Però l'aggettivo perturbante, perfettamente attribuibile al caso della scintillante metafora cinematografica del Cavaliere Oscuro, se viene utilizzato in riferimento  al teatro tragico, sembra portare una forzatura semantica  che, se non è  supportata da una lettura più profonda e attenta,  non  aiuta la regia.  I filmati di metropoli che ricordano Gotham City, proiettati su fondale e monticello  a centro scena, stridono con i personaggi tipizzati che narrano la storia, come i lanosi Tiresia e Penteo che contornano il dionisiaco re delle forze ctonie e certo non aiutano nel faticoso compito di  condurre gli spettatori nelle pieghe di un testo arcaico, antico, di difficile comprensione come Le Baccanti, che celebra, di fronte a una platea occidentale contemporanea,  ormai annoiata dalla religiosità,   gli oscuri misteri religiosi di un dio, figlio del padre degli dei, Zeus e di una donna mortale, Semele, che ricorda tanto un altro Dio, molto più vicino e conosciuto, divino e umano nello stesso tempo.
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